Va sempre tutto bene, finché il posto che salta non è il tuo

Il prezzo della crescita per i videogiochi è stato mettere da parte ogni componente umana: dove va un'industria che sacrifica per primi i suoi talenti?

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a cura di Stefania Sperandio

Editor-in-chief

Prepara un'infografica, meglio se con uno sfondo scuro che fa capire che stiamo parlando di una cosa seria e nessuno è allegro. Ora prendi qualche parola come «a causa di necessità/cambiamenti del mercato», da qualche parte metti che «non è stata una decisione facile ma è necessaria», sottolinea che il tuo scopo è continuare a produrre «grandi videogiochi» e procedi a tagliare (buona?) parte dello staff che fino a ieri ha reso possibili i videogiochi che hanno portato il tuo nome sulle vetrine videoludiche di tutto il mondo.

Se il 2023, da questo punto di vista, era stato un bagno di sangue, i primi mesi del 2024 sono stati anche peggio: compagnie come Supermassive Games (Until Dawn), Deck Nine (Life is Strange: True Colors) e perfino il gigante PlayStation (in studi come London Studios che sparirà, ma anche Firesprite, Naughty Dog, Guerrilla Games, Insomniac Games...) hanno annunciato nuove ondate di licenziamenti per far fronte a cambi di strategia, di necessità, di mercato.

Ma sono solo gli ultimi casi tra quelli citabili: da inizio 2024, hanno annunciato licenziamenti anche il gigante Microsoft per la divisione Xbox, Devolver Digital, Eidos Montreal, EA, People Can Fly, Thunderful, Riot Games, CI Games, SEGA, Unity, il disastro Embracer - e sto andando solo a memoria. Un fenomeno diffuso a macchia d'olio che fa seguito agli anni del boom pandemico per il mercato videoludico, in un mondo dove il management di turno farà quadrare i conti senza nemmeno ammettere un centesimo di meno rispetto a quello preventivato.

Ed ecco che il costo di questi videogiochi sempre più esosi, sempre più grandi, sempre più "troppo", ricade sulle spalle di chi li rendeva possibili, che dall'oggi al domani si trova costretto a reinventarsi. O vede la sua ex compagnia, come nel caso di Deck Nine, pregare quelle più grandi di assumere i talenti che lei stessa ha dovuto tagliare.

Nelle tabelle di entrate e uscite dei publisher, il costo umano di queste scelte non è previsto. Qualcuno direbbe che il business è così, ma allora un'industria che ritiene sacrificabili per primi i suoi stessi talenti dove pensa di andare?

Scelte sbagliate e tabelle intoccate

Di recente, di scelte non propri condivisibili lato pubblico ne abbiamo visto tante, nell'industria: pensiamo ai prezzi di listino di 80 euro o all'aumento dei costi delle console, per citare le più ovvie. In svariati casi, si trattava proprio di scelte di strategia così paradossali che chiunque poteva domandarsi perché mai ci fosse un management disposto a portarle avanti.

Mi viene in mente, personalmente, il caso di PlayStation VR 2: una piattaforma in cui non sembrava credere troppo nemmeno Sony, sostenuta da un Horizon: Call of the Mountain che aveva sulle spalle un peso troppo più grande di lui, e ora portata avanti con una discrezione che è quasi invisibilità. Discrezione che probabilmente ha "guidato" le decisioni prese su London Studio e Firesprite, che alla realtà virtuale avevano visto venire legati in modo forte i loro destini.

Ma in questo caso parliamo di un esempio così palese, di gestione che non avrebbe condotto a un successo, che chiunque avrebbe potuto notarlo. Il punto è quando queste gestioni, sulla scia dell'impennata avuta per forza di cose dal medium videoludico durante la quarantena, fanno calcoli irrealistici sui possibili risultati. E pur di ottenerli calano la lama su chi era stato selezionato e poi assunto proprio con lo scopo di rendere possibili quegli stessi risultati.

Si prendono decisioni che dimenticano l'aspetto umano, come se un talento costretto su una zattera potesse davvero esprimersi al cento per cento e remare per portarti dove sa.
Nel caso specifico di PlayStation, per capirci, i più recenti dati fiscali parlano di una flessione del 6% per l'andamento rispetto alle previsioni precedenti, nel segmento Game & Networks Services. Nel complesso, però, le previsioni sono comunque di un +14% rispetto all'anno fiscale scorso, con davanti mesi che saranno di certo da decifrare, considerando che non ci saranno lanci dalle IP maggiori, quelle trascinanti di PlayStation, fino ad almeno aprile 2025 e che è previsto un rallentamento nelle vendite delle console.

Ma è tutto il mercato a dare la sensazione di essere una sorta di gigante con i piedi d'argilla - e, si badi bene, non perché non ci siano più persone che comprano i videogiochi, o non ci sia più interesse per il settore: perché i videogiochi AAA hanno raggiunto costi fuori scala, perché i progetti sono evidentemente amministrati male, perché siamo dalle parti della chiusura dell'anno fiscale e i conti devono tornare per forza, costi la testa di chi costa. Che non è mai, chiaramente, quella di chi decide di portare avanti un flop annunciato come Skull and Bones per un numero di anni arrivato in doppia cifra.

E qui si apre un'altra parentesi, che abbiamo toccato in passato ma che è sempre attuale: quella di quanto sia difficile lanciare un live service che funziona, con i giochi dalle entrate persistenti che sono spesso visti come un'ottima ancora per sostenere le spese dei single player dal consumo rapido. Ma tra il dire e il fare, c'è di mezzo convincere i giocatori a rimanerci dentro. O, in alcuni casi, perfino a entrarci.

Alive service games?

La media di Payday 2 (2013) su Steam negli ultimi trenta giorni è stata di 21.952 giocatori attivi. Quella di Payday 3 (2023) di 256,2. Basterebbe probabilmente questo, dato che all'industria i freddi numeri piacciono molto, a riassumere lo sparare nel mucchio senza senso che stiamo vedendo per tante produzioni di questo tipo.

In alternativa, può bastare dire che secondo le classifiche dei giochi più popolari su PlayStation Skull and Bones ha fatto peggio al lancio perfino di Suicide Squad: Kill the Justice League - gioco che, ricorderei, ai tempi dello State of Play dello scorso anno si spacciava come pronto a uscire a maggio 2023. Sì, qualcuno ai piani decisionali era davvero convinto che pubblicando il gioco in quello stato gli utenti sarebbero corsi a pagarlo a prezzo pieno, cosa che non hanno fatto nemmeno dopo quasi un altro anno di ulteriori lavori di affinamento.

Penso sia un buon riassunto dello scollamento che stiamo vedendo tra management e domanda del mercato, potere d'acquisto effettivo del mercato: manca il realismo. A volte manca proprio il rispetto per la capacità di intendere e di volere del consumatore - non che mi sorprenda, considerando i dirigenti di CD Projekt RED che definivano sorprendenti per bellezza le versioni old-gen di Cyberpunk 2077 prima del lancio, aspettandosi che gli sviluppatori riuscissero ad aggiustarle in tempo per il day-one. O nell'industria dove si è fatto uscire Babylon's Fall in quelle condizioni, pur di immettere sul mercato entro l'anno fiscale un live service morto prima di nascere, peraltro a prezzo alto e promettendo supporto per migliorare le cose, salvo chiuderlo prima di un anno dopo.

C'è uno scollamento tra management e domanda del mercato: manca il realismo, a volte perfino il rispetto per la capacità di intendere e di volere del consumatore.
Forse è proprio questo che sta mancando all'industria, diventata così grande da aver sposato con forza ogni stortura dei modelli del grande business: un minimo di attenzione per l'essere umano. Quell'essere umano che ti compra i giochi che vuoi vendergli a 70 e rotti euro anche quando quei giochi sono Babylon's Fall, sperando di recuperare qualcosina di ciò che hai speso per dare vita a un titolo senza futuro.

Quell'essere umano che i videogiochi li rende possibili, che tu assumi, formi, coinvolgi, sostieni e poi ricicli, come se uno valesse sempre uno, chiunque sia, e tutti fossero interscambiabili e non rilevanti. Come se un talento costretto su una zattera che potrebbe essere inabissata da un momento all'altro potesse davvero esprimersi al cento per cento e remare per portarti dove sa.

«La tristezza nei due giorni trascorsi dal mio licenziamento non riguarda semplicemente l'aver perso un lavoro, ma più l'aver perso uno scopo. Una comunità, un team che amo con tutto il mio cuore. Una routine che era intrecciata con il tessuto della vita quotidiana» ha scritto nella sua lettera Santiago Gutierrez, licenziato da Naughty Dog dopo diciotto anni.

E così ci perdiamo tutti: gli sviluppatori diventano un numero in una tabella (ribadisco, non mi sorprende dato che ai tempi di The Walking Dead erano i giocatori stessi a chiedere che qualcuno finisse comunque la serie, chiunque fosse, dopo la chiusura di Telltale Games, come se fosse il nome del gioco a definirlo e non gli sviluppatori), i videogiochi a cui possono dedicarsi sono schiacciati tra il non sapere per quanto il loro lavoro durerà e management che devono fare quadrare conti e dividendi prima della chiusura dell'anno fiscale. 

I giocatori che si ritrovano opere partorite passando per questo tritacarne e che, facendosi incantare dal "graficone" e dallo scintillio tecnico, finiscono per alimentare un circolo che porta a costi sempre più alti. Per loro stessi, per le aziende. E soprattutto per le persone, quelle di cui tra numeri, statistiche e decisioni prese davanti ai grafici purtroppo ci si dimentica. Come se anche loro fossero solo un gioco.