Non serviva essere profeti per capire che con i giochi live service sarebbe andata così

La chiusura di moltissimi videogiochi basati sul modello live service nell'ultimo periodo dimostra che questi ormai non funzionano più. Cos'altro serve ai publisher per fermarsi e rifletterci su?

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a cura di Silvio Mazzitelli

Redattore

Le ultime settimane sono state un’ecatombe di videogiochi live service come mai prima d’ora. Già lo scorso anno avevamo visto la chiusura di alcuni titoli importanti senza che nemmeno raggiungessero l’anno d’età, nonostante fossero stati progettati per durare il più a lungo possibile. Ne avevamo già parlato per il caso Square Enix e la fine di Babylon’s Fall e Final Fantasy VII: The First Soldier, ma nelle ultime settimane le chiusure (e con loro gli addii) sono arrivate a valanga.

L’ambizioso Marvel’s Avengers, che già da tempo era considerato con un piede nella fossa, dopo tre anni di servizio ha da poco annunciato che dal settembre di quest’anno non riceverà più ulteriori aggiornamenti. Ma c’è anche a chi è andata peggio, come il battle royale Rumbleverse, prodotto da quell’Epic Games che ha contribuito a far ascendere questa tipologia di giochi grazie alla sua gallina dalle uova d’oro: Fortnite. Rumbleverse ha debuttato ad agosto 2022 e in sei mesi ha suscitato nel pubblico così poco interesse che verrà chiuso a fine mese.

La lista di titoli chiusi definitivamente in questo periodo è davvero molto lunga: tra le altre illustri vittime ci sono anche Knockout City, il folle gioco sul dodgeball di Electronic Arts, CrossfireX, sparatutto d’incredibile successo in Asia che da noi non ha invece suscitato nessun interesse – forse anche per via di una campagna single player fatta davvero male – e Apex Legends Mobile, la versione per smartphone del popolare battle royale di EA, che non è riuscita a ritrovare su mobile l'affetto avuto sulle altre piattaforme.

Abbiamo citato solo quelli dal nome più conosciuto, ma i titoli che finiranno nell’oblio e che nessuno potrà più giocare sono ancora molti, senza contare numerosi progetti annunciati e cancellati prima ancora di nascere, come Battlefield Mobile o diversi titoli di Ubisoft mai usciti dai loro studi di sviluppo, tra cui l’ennesimo battle royale senza nome di cui si era visto soltanto un artwork.

Insomma, dopo anni in cui le grandi compagnie di sviluppo predicavano come un mantra che il futuro dei videogiochi – e soprattutto dei loro guadagni – fossero i titoli live service, ora forse, dopo aver perso parecchi soldi, hanno iniziato a comprendere che questa loro visione è sbagliata e, onestamente, non c’era bisogno di essere dei profeti per capire già anni fa che il risultato sarebbe stato questo.

Videogiochi nati morti

Si definiscono live service, o anche game as a service, tutti quei titoli che vengono aggiornati costantemente con nuovi contenuti e update così da poter catturare il più a lungo possibile l’attenzione dei giocatori. Rispetto al modo più classico di intendere un videogioco, questi titoli non hanno una vera e propria fine, ma continuano a essere aggiornati, tanto da poter diventare, a distanza di tempo, molto diversi dalla loro forma iniziale. Sono un po’ dei titoli in continua costruzione, con lo scopo di offrire contenuti sempre nuovi e interessanti per evitare che i giocatori si stanchino di dedicarvi del tempo.

Spesso la formula più utilizzata per questi titoli è quella free-to-play, così da catturare il maggior numero di utenti possibile; questi verranno poi invogliati a spendere con le varie microtransazioni o altre forme di monetizzazione, come i battle pass o l’acquisto di valuta da spendere all’interno del gioco, per acquistare direttamente gli oggetti o i personaggi desiderati o persino per tentare una sorta di lotteria o slot machine in cui provare a ottenerli, come nel caso dei gacha game.

Questi metodi di guadagno sono stati accusati più volte di non essere cristallini e di obbligare i giocatori a spendere per progredire nel gioco, e non è un caso che in alcuni Paesi i governi abbiano dibattuto sul fatto che alcune di queste forme di monetizzazione potrebbero essere associate al gioco d’azzardo.

Nonostante ciò,  i live service di successo guadagnano facilmente cifre inimmaginabili, spesso anche superiori alle vendite di un buon tripla A, contando anche il rapporto tra costi di produzione e il totale dei soldi guadagnati.

Non sono rare in effetti le notizie riguardanti persone che spendono migliaia di euro per ottenere i migliori calciatori su FUT di FIFA o che sacrificano soltanto in contenuti cosmetici cifre che superano facilmente il prezzo medio di un gioco appena uscito.

FIFA è l’esempio perfetto di quanto dicevamo poc’anzi: da quando ha inaugurato FUT, che è a tutti gli effetti un gacha game all’interno del titolo calcistico che tutti conoscono, i guadagni di FIFA, già tra i giochi più venduti normalmente, sono schizzati ancor di più alle stelle. Un live service che ha successo diventa insomma una gallina dalle uova d’oro, come dimostrano titoli quali Fortnite, Genshin Impact, Call of Duty: Warzone e molti altri.

Per questo motivo negli ultimi anni abbiamo assistito a una corsa alla creazione di nuovi live service di successo portata avanti da più o meno tutte le grandi compagnie. Sony, ad esempio, ha acquisito Bungie e poi il nuovo Haven Studio di Jade Raymond, già al lavoro su un titolo multiplayer che utilizzerà questa formula come loro opera prima; Ubisoft ha progettato e lanciato svariati titoli di questo tipo sperando di fare centro almeno con uno di loro (ma ora come ora, praticamente hanno tutti fallito); Square Enix ha iniziato a far uscire molteplici titoli basati sull’online, come il già citato Avengers, Outriders e molti altri ancora, per seguire l’onda. Ci fermiamo qui, ma potremmo riempire questa pagina di ulteriori esempi.

Il problema è che nessuno si è reso conto che il mercato dei live service è ormai saturo da tempo e trovare uno spazio è quindi molto difficile, soprattutto con prodotti raffazzonati e creati interamente dal reparto marketing. Nel vedere e provare titoli come Rocket Arena o Knockout City, la prima cosa che mi è venuta da pensare è stata «questo gioco è nato morto», perché sembravano veramente realizzati facendo una sintesi dei prodotti di successo del momento, senza un po’ di personalità o qualcosa di davvero unico che li differenziasse dalla massa. Per questo, quando arriva inevitabile il messaggio di chiusura, non si sorprende nessuno.

Questa saturazione risulta ovvia anche quando si riflette sulla natura stessa dei live service. Chi si dedica a questo tipo di esperienze lo fa per mesi e spesso anche per anni, avendo dunque meno tempo per altri titoli simili. D’altronde difficilmente un giocatore potrà dedicarsi a più di un titolo strutturato in questo modo – un titolo che richiede un costante impegno, spesso giornaliero che a volte si può paragonare quasi a un secondo lavoro; a meno di non avere enormi quantità di tempo libero (cosa molto difficile per la gran parte dei videogiocatori che lavorano), dedicarsi a più di un live service alla volta è molto difficile.

Oltre a ciò, perché qualcuno dovrebbe mandare a quel paese ore e ore di progressi per ripetere da capo il procedimento in un gioco nuovo dello stesso tipo? Se un giocatore ha giocato per anni a Destiny 2 ottenendo un personaggio con equipaggiamento d’altissimo livello, con tutte le armi e i pezzi d’armatura di rarità esotica e dove ormai si ha un gruppo di amici consolidato, perché dovrebbe buttare via tutto quello che ha ottenuto con centinaia di ore di farming selvaggio per ricominciare da capo da un’altra parte, magari senza i propri amici?

Questo nuovo ipotetico gioco potrebbe anche essere migliore, a livello di meccaniche, ma sono pochi coloro che butterebbero via quanto ottenuto nel loro viaggio per rifare tutto da capo solo per qualche beneficio in più.

L’unico motivo valido potrebbe essere al massimo un abbassamento della qualità generale del proprio live service preferito, come in effetti è accaduto in passato (ad esempio ricordiamo, anche se in ambito MMORPG, il recente esodo da World of Warcraft a Final Fantasy XIV per i palesi problemi del titolo Blizzard). Molti giocatori, inoltre, se hanno altro tempo libero da dedicare ai videogiochi, prediligono esperienze totalmente diverse e più classiche, spesso di una qualità più alta.

Live service a tutti i costi

Qualche settimana fa, subito dopo il Developer Direct di Xbox, in maniera totalmente inaspettata Tango Gameworks ha fatto uscire Hi-Fi Rush. Nonostante l’assenza di marketing, il gioco si è rivelato subito un successo, principalmente perché è un ottimo titolo che riesce a unire in maniera brillante meccaniche action con quelle da rhythm game, come potete leggere anche nella nostra recensione.

Il gioco, della durata di circa una decina di ore e disponibile anche all’interno del Game Pass (trovate l'abbonamento su Amazon), ha inoltre venduto in maniera eccellente anche su Steam, il tutto grazie alla sua ottima qualità.

Proprio la qualità è, per fortuna, ancora uno degli elementi principali sulla cui base i giocatori scelgono un titolo, cosa che a molti sembrerà ovvia, ma che in realtà non è così scontata (d’altronde sono molti di più coloro che guardano cinepanettoni o Sanremo piuttosto che film o programmi di qualità più ricercata).

I live service, anche quando fatti con criterio, non possono aspirare ad avere una qualità tale da rivaleggiare con i migliori titoli sul mercato e il motivo è nella loro stessa natura: per produrre aggiornamenti costanti, gli sviluppatori devono arrivare a dei compromessi, che spesso si traducono in elementi per forza di cose ripetitivi, come quest generate casualmente e dagli obiettivi molto basilari, dungeon da rifare svariate volte con la speranza di ricevere come ricompensa finalmente l’oggetto giusto, battaglie infinite contro altri utenti per accumulare valuta di gioco e altri esempi simili.

Gli sviluppatori possono essere anche i più veloci del mondo, ma non potranno mai andare più velocemente di quanto i giocatori consumano i contenuti da loro creati. Per creare prodotti di qualità ci vuole molto tempo e per evitare che nel frattempo i giocatori non abbiano nulla da fare li si sommerge con questi contenuti riempitivi nell’attesa che arrivi qualcosa di più corposo. Queste soluzioni sono inevitabili, ma non possono far altro che abbassare il valore generale di un titolo.

I titoli live service possono essere definiti un po’ come la versione videoludica dei fast food: puntano sulla quantità più che sulla qualità e se non si esagera costano anche poco. Alcuni sono anche meglio di quanto ci si possa aspettare, ma, proprio come il cibo dei fast food, godibile una volta ogni tanto, non possono certo sostituire i veri titoli di qualità, né possono raggiungerne il livello.

Per quanto popolari e anche ben fatti a livello di meccaniche, un Destiny, un Fortnite o un Genshin Impact non potranno mai arrivare al livello qualitativo di un Elden Ring (potete trovare il GOTY dello scorso anno su Amazon), un God of War: Ragnarok o un The Legend of Zelda: Breath of the Wild, proprio per i limiti imposti dalle loro strutture.

Ovviamente i live service citati non puntano a competere con questi giganti e si rivolgono a un pubblico diverso – o, per meglio dire, a un pubblico che ha voglia di diverse esperienze di gioco, dato che dedicarsi a uno di questi titoli non esclude la volontà di giocare anche ad altro. Il problema arriva quando sono le aziende stesse che, in massa, puntano su un modello che nell’attuale mercato dei videogiochi non può funzionare su larga scala e non ha la replicabilità "semplice" che molti speravano, con un processo che si ripercuote così anche sulla produzione di altri titoli più classici.

Le compagnie, irretite e un po' accecate dal sogno di guadagni facili e soprattutto persistenti, hanno tentato di far uscire in poco tempo più live service possibili, saturando oltre ogni misura un mercato che aveva già raggiunto il proprio limite, e la conseguenza naturale di ciò è il continuo fallimento di questa tipologia di giochi. Facendo questo hanno anche tolto risorse alla possibile creazione di titoli più classici e di qualità, che avrebbero sicuramente potuto portare maggiori guadagni rispetto a un fallimento come un Babylon’s Fall.

Non voglio accanirmi troppo contro lo sfortunato gioco sviluppato da Platinum, ma è l’esempio perfetto di questa assurda corsa al live service a tutti i costi. Se Square Enix avesse deciso di mantenere la formula del primo trailer di Babylon’s Fall mostrato anni fa, in cui veniva presentato un action puro in pieno stile PlatinumGames, a quest’ora avremmo un gioco senza dubbio migliore, che sicuramente avrebbe generato, anche solo tra gli appassionati di questo genere, più guadagni rispetto al terribile risultato ottenuto dalla versione uscita l’anno scorso.

La speranza è dunque quella che i tanti fallimenti di titoli live service visti in queste settimane facciano comprendere meglio la situazione del mercato videoludico alle varie aziende – che in teoria dovrebbero avere persone pagate apposta per farlo – in modo da farle ragionare con più attenzione sui loro piani a medio e lungo termine.

Una riflessione è doverosa: il mercato è saturo e, a meno di avere qualcosa di davvero unico da offrire, è difficile smuovere gli amanti dei live service dai mondi virtuali che li hanno già fatti innamorare. Una riflessione da parte delle software house potrebbe portare ad avere, in futuro, più titoli della qualità di Hi-Fi Rush e meno giochi come un Rumbleverse o qualsiasi altro titolo live service che già domani avremo dimenticato.