Cyberpunk 2077 si è perso nei meravigliosi dettagli, sacrificando il quadro complessivo

Cyberpunk 2077 mi ha deluso, ma forse va bene così.

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a cura di Valentino Cinefra

Staff Writer

Attenzione: questo articolo contiene piccoli spoiler su alcuni contenuti da Cyberpunk 2077. Non leggetelo se non avete completato il gioco o non volete anticipazioni.

Considerate le (raramente) comprensibili tensioni nei discorsi che riguardano Cyberpunk 2077, ci tengo a specificare che questo articolo non è una recensione, né una valutazione di alcun tipo. È un’analisi, ed una interpretazione di ciò che è stata la mia esperienza con il titolo di CD Projekt Red. Un’esperienza diversa dalla recensione di SpazioGames che trovate su queste pagine, così come è completamente avulsa da ciò che vi abbiamo già ampiamente raccontato in termini di performance su console Sony e Microsoft con tutte le patch fino alla 1.06.

Un’esperienza diversa perché il Cyberpunk di Mike Pondsmith lo conosco bene, come vi ho raccontato con molti articoli nel corso dell’ultimo anno circa. Così come lo conosce molto bene, e lo apprezza, lo studio di sviluppo che ha recuperato l’intera gestione della licenza, e raramente è nato un rapporto così forte tra un brand così di nicchia come quello di Cyberpunk ed il sempre più rampante e popolare mercato videoludico. Per questi due motivi il teaser di Cyberpunk 2077, quello del logo non il primo trailer, mi aveva colpito.

Non mi aspettavo assolutamente che qualcuno si sarebbe preso la briga di riportare in auge un gioco di ruolo di quasi trent’anni fa, che era già all’epoca una nicchia tra gli appassionati. E vedendo cosa il brand di The Witcher è diventato oggi grazie soprattutto ai videogiochi di CD Projekt Red, con l’edizione letteraria letteralmente rinata, una serie live action su Netflix con due stagioni, ed una serie di prodotti di merchandise che non finisce più, l’idea di poter rivedere tutto questo relativo al mio amato Cyberpunk era troppo incredibile per essere vera.

E di fatto è già successo, in parte. La forza dello studio polacco in termini mediatici ha reso il brand fortissimo ora, nonostante tutto. C’è una grande attenzione per le nuove edizioni del gioco di ruolo cartaceo, che in Italia è gestito da Need Games, e sempre più persone completamente aliene a questo mondo parlano di corporazioni, amano/odiano la Arasaka, vogliono fare gli edgerunner e si gasano con l’idea di riempirsi il corpo (virtualmente, si intende) di cyberware.

In tutto questo si innesta anche ciò che CD Projekt Red voleva fare con Cyberpunk 2077. Si iniziava a parlare del (video)gioco di ruolo del futuro con una rappresentazione cittadina mai vista finora, una libertà di approccio totale (“Lo potrete finire senza uccidere nessuno”) ed una grande fedeltà con il materiale originale in termini di ciò che si può fare con la costruzione del proprio personaggio. Se all’inizio, quindi, ad essere attratti furono soprattutto i fan della produzione originale di Mike Pondsmith con il tempo, a suon di pubblicità e Keanu Reeves, quasi chiunque ha iniziato ad avere il bisogno di volere Cyberpunk 2077.

Una volta smaltita la delusione per tutto ciò che è successo al lancio, mi sono approcciato al gioco con tutte le migliori intenzioni, completamente svuotato di ogni rammarico o pregiudizio potessi avere verso l’operato di CD Projekt Red. Perché è fondamentale giudicare l’opera, non l’autore, in ogni occasione.

E partendo alle mie alte aspettative, in parte auto-indotte ma in larga parte raccontate e promesse dallo stesso sviluppatore, arrivato ai titoli di coda la settimana scorsa devo purtroppo ammettere di ritenermi deluso da Cyberpunk 2077. A mente fredda, penso che sia giusto così.

Cyberpunk 2077 salvato dai dettagli

Potrà sembrare un controsenso quanto affermato qui sopra, ma c’è un motivo dietro questo apparente ossimoro. Come può un videogioco deludere ma non risultare un’esperienza negativa allo stesso tempo? I dettagli, il segreto sono i dettagli.

Considerata la grande passione e volontà di ricreare l’opera di Pondsmith, Cyberpunk 2077 è un videogioco dove la cura per i dettagli rasenta il maniacale, nonché a volte il superfluo. A cosa servono gli interni delle macchine tutti diversi, considerando che bene o male si gira sempre con gli stessi 2-3 veicoli dopo poche ore e sicuramente pochissimi giocatori si sono spesi nell’osservare tutti gli abitacoli al di fuori dell’effetto novità iniziale? A niente, se non agli autori che vogliono far passare un messaggio preciso.

L’urbanistica della città, quella Night City così meravigliosamente opprimente che è ricca di vetrine, insegne pubblicitarie, abitanti che chiacchierano tra di loro, angoli dove i derelitti della società cercano di andare avanti. La città, vera protagonista del gioco, riempita di attività secondarie, personaggi e le loro storie, atte a creare un’esperienza gdr lunga cento ore ed oltre.

I dettagli anche nei tantissimi elementi di lore raccontati attraverso gli shard, così come le vere e proprie chicche dei nomi delle missioni che sono tutte canzoni. E non musica qualunque, ma quel tipo di produzione musicale che ascoltavano i giocatori di Cyberpunk 2020, quella musica che raccontava di ribellione, libertà, tentando di aggredire le coscienze di chi le ascoltava portando a fare domande, a chiedersi come funziona davvero il mondo intorno a loro. Quella musica che facevano anche i Samurai (aka la band reale dei Refused) di Johnny Silverhand, il rockerboy leggendario diventato simbolo di una rivolta e morto per la causa (più o meno…), i cui testi anticipano il contenuto della storia principale di Cyberpunk 2077 senza che ce ne fossimo mai accorti ovviamente.

E potremmo citare la costruzione delle armi, dei veicoli, la cura e la ricerca estetica per quanto riguarda gli abiti, i quartieri della città ed i loro abitanti. Si dovrebbe e si potrebbe andare avanti per ore ad elencare quanto siano maniacali i dettagli di Cyberpunk 2077. Proprio per questo motivo, forse, terminati i titoli di coda, la mia impressione è di aver giocato una produzione che è un “vorrei ma non posso” invece che “il gdr del futuro”, dove la costruzione del dettaglio ha causato il sacrificio della visione complessiva.

Night City come una cartolina

Partiamo proprio dalla città, la meravigliosa Night City. Continuo a descriverla con aggettivi superlativi perché è giusto parlarne in questo modo, di una cura per il design fuori scala dove però, a conti fatti, ci si sente come in una cartolina nell'accezione peggiore del termine.

Il passaggio di V dà l’impressione di essere inesistente, dove non ci sono banalmente negozi al di fuori di abiti ed armi, esistono solamente due joytoy maschio e femmina in un mondo dove il concetto di corpo e inesistente e il sesso è una merce pari alla birra del discount. Si è parlato anche dell’inesistenza della polizia tra le maggiori fonti di critica, ed effettivamente in un mondo dove si dovrebbe vivere sul filo del rasoio, il risultato reale è che V può fare il bello e cattivo tempo in una città che sembra essere del tutto indifferente alle sue azioni.

Una inconsistenza che, purtroppo, si riversa anche nei contenuti secondari. Se è vero che ci sono storyline di spalla molto ben curate, in grado di generare racconti anche molto interessanti, è altrettanto vero che si contano sulle dita di una mano rispetto alla totalità dei contenuti supplementari. I quali spesso non si discostano granché dall’attività tipica dell’open world classico, dove c’è una consegna in un caso, una sparatoria in un altro, e l’omicidio in un’altra ancora, e così via.

Quelle più interessanti coinvolgono gioco forza i personaggi più importanti: Judy, River e Panam. Questo perché, semplicemente, sono arricchite dai loro dialoghi nei quali scopriamo qualcosa di più sulle loro vite. Ma anche, qui, non si può non avere l’impressione che ci siano stati dei tagli dovuti probabilmente alla produzione che già sappiamo essere stata travagliata per tanti motivi. E sebbene per alcuni giocatori questo non possa presentare un problema, c’è una considerazione da fare per quanto riguarda il rapporto tra V (ed il giocatore) ed essi: il rapporto non esiste.

Al di là delle romance (poche, limitate, e pareva anche tagliate, ma CD Projekt ha smentito) per cui arrivare o non arrivare ad avere un rapporto intimo con alcuni di loro, non c’è nessuna influenza reale che il giocatore possa plasmare nei loro confronti. In un gdr si presuppone che le scelte del giocatore siano fondanti, pur non madornali, nel creare i rapporti tra il proprio avatar e quelli costruiti dagli autori del videogioco in questione. È letteralmente scritto nell’acronimo del genere “gioco di ruolo”, ma in Cyberpunk 2077 spiace constatare che non sia così.

Ho scelto di giocare un V corporativo, con l’idea di quella che potrebbe essere il tipico maschio bianco etero politicamente destrorso. Un uomo che ha come unico obiettivo quello di tornare in cima alla catena alimentare, scavalcando tutto e calpestando chiunque sia necessario allo scopo. Ho trattato con sufficienza praticamente chiunque tra Panam, Judy, e soprattutto Johnny Silverhand con il suo fare da ribelle boomer attaccato da un nostalgico passato che non esiste più. Purtroppo, niente di tutto questo ha minimamente cambiato realmente l’opinione che questi personaggi hanno avuto di V.

Panam ha continuato a coinvolgermi nelle sue missioni (pur rimbalzandomi al momento di quagliare, va detto), Judy ha continuato a confidarsi nel suo essere combattuta tra la vendetta ed il fare la cosa giusta, e Johnny alla fine ha dichiarato di essere diventato amico di V, e viceversa. Questo quando nessuna delle mie risposte e condizioni di approccio ai loro ingaggi e lavoretti fosse minimamente positiva o perlopiù amichevole.

Questo, purtroppo, è un dettaglio che rovina il coinvolgimento quando si affronta Cyberpunk 2077 come un gioco di ruolo, un’esperienza che dichiara essere.

Sapete quando mi sono sentito davvero un maschilista cinico senza morale? Durante una sequenza del prologo di una manciata di secondi. E mi sono sentito sporco, completamente lontano da quello che voleva essere il mio V corporativo, e per la prima ed unica volta un vero edgerunner in un mondo che non ha regole, dove bisogna scendere a patti con se stessi prima che con gli altri. Ho avuto la sensazione del malessere di essere considerato un prevaricatore patriarcale ben più di quanto sia mai successo con qualsiasi commento denigratorio (frutto purtroppo di fraintendimento) ad uno dei miei articoli.

Questo grazie ad uno sguardo imbarazzato della concierge dell’albero della Arasaka in cui ci si infiltra con Jackie, seguite da una serie di poco sentite ma spaventate scuse nei miei confronti, dopo che il mio V le ha intimato di eseguire esplicitamente gli ordini invece di “pensare” di fargli un favore. La mimica di un personaggio più che secondario che ha funzionato più di centinaia di linee di dialogo. Un dettaglio.

"Cyberpunk è ciò che ne fai"

L’altra considerazione da fare relativa alla mia delusione nei confronti di Cyberpunk 2077 è per la storia. Il mondo di Mike Pondsmith vive di grigi, di scelte mai intraprese con la certezza di aver fatto la cosa giusta, ma solo con la speranza di sentirsi un po’ meno sporchi la mattina dopo e senza un sicario della Arasaka ad attenderci al chiosco di churros sotto casa. Cyberpunk 2077 riesce a restituire questo sentimento ma, ancora una volta, lo fa con gli incarichi secondari, con brevi dialoghi avulsi dalla storia principale che, spesso, ci prova con tutte le forze ad essere grigia ma ci riesce raramente.

La Arasaka viene descritta come una malvagia corporazione fin dal primo secondo, non è mai lontanamente seducente né si prova ad indagare, spiegare o mettere sul piatto della bilancia il loro punto di vista. Saburo è il malvagio shogun, Yorinobu è il deviato erede ed Hanako l’infida sorella, fine. Allo stesso modo Johnny Silverhand che dovrebbe essere un antieroe tormentato, un personaggio con cui confrontarsi per rendersi conto di quanto si sia simili a lui, e quindi più sporchi di quanto pensassimo. Il fatto che sia un terrorista che uccide migliaia di persone per una mera vendetta personale mascherata da lotta di classe è squisitamente il cuore di quello che dovrebbe essere Cyberpunk, ma è un dettaglio che viene rapidamente messo da parte in favore della narrazione del rocker innamorato, dell’antieroe che ci meritiamo e di cui abbiamo bisogno. Ed è un peccato, perché attraverso Johnny Silverhand si potevano raccontare dei messaggi molto profondi ed interessanti, che raramente si toccano nel medium videoludico. L’idea di affrontare i propri spettri per chiedersi cosa si è disposti a fare per il bene comune, o per placare quel demone della rabbia che non se ne vuole andare.

E, ancora una volta, è il dettaglio a salvare la considerazione generale di questo aspetto della narrazione. In questo caso la sequenza in cui Silverhand, Rogue, Santiago e Thompson si infiltrano nell’Arasaka per salvare Altiera “Alt” Cunningham. Un momento di gioco che riesce intanto a restituire l’esperienza della tipica run di Cyberpunk con tanto di fasi di dialogo, preparazione ed azione perfettamente scandite, e che grazie alla musica incalzante e meravigliosa, ed un livello di sfida volutamente inesistente volto a rappresentare la rabbia devastatrice di Johnny, è probabilmente uno dei più alti momenti di coinvolgimento dell’intera avventura. Obiettivo che raggiunge, ancora una volta, grazie ai dettagli.

Dispiace quindi che dopo ore ed ore di dialoghi, missioni secondarie, sviluppo dei personaggi, si arrivi alla fine con dei personaggi spalla che non sono minimamente influenzati dalle azioni di V (che fine fa l’allievo di Takemura, e Takemura stesso?), e quando non lo sono fanno assunti difficilmente basati sulle scelte reali del giocatore come Johnny Silverhand. E si giunga, inoltre, ad un finale plasmato unicamente dalle scelte delle ultime missioni e che non tengono conto per la stragrande maggioranza di ciò che si è fatto prima.

Lancio una provocazione. Ve lo ricordate qual è stato l’ultimo, grande gioco di ruolo di cui il finale ha rappresentato un polverone mediatico diventato poi un casus belli senza precedenti per l’industria del videogioco? Mass Effect 3.

Cyberpunk 2077 reloaded

Riguardo queste perplessità, la risposta che viene data frequentemente è: “anche altri videogiochi sono così”. Vero, non è giusto addossare su Cyberpunk 2077 delle responsabilità che non ha l’obbligo di avere. Però gliele ha addossate CD Projekt Red, e ce la ha lanciate contro.

Anche volendo combattere la cultura ossessiva dell’hype, se per otto anni mi racconti continuamente certe cose riguardo la tua opera io sono costretto a crederci, ad aspettarmi che mi proponi qualcosa che, in realtà, non sei riuscito ad ottenere. Perché si vede che Cyberpunk 2077 è un progetto frutto di una grande idea, un progetto maestoso che si è scontrato con la dura realtà e ne ha pagato il prezzo. Per ogni dettaglio da far esplodere il cervello c’è una stortura che riporta indietro il game design di qualche anno. Non è necessariamente un difetto madornale, ma tra un raggio di luce con il ray tracing e l’altro si percepisce abbastanza bene.

Quindi esco deluso dalla mia esperienza con il titolo, ma proprio perché non si tratta di un videogioco “rotto” qualunque, ma è un videogioco “rotto” con un’anima quasi rara, ne esco con una consapevolezza che non mi rende completamente insoddisfatto. Un titolo che vive di alti clamorosi, tanti medi ed alcuni bassi, momenti galvanizzanti e situazioni che lasciano l’amaro in bocca, visioni di gameplay che spaziano tra il brillante ed il vintage. Un’esperienza tutto sommato piacevole da vivere, ma difficilmente memorabile. Il proverbiale ottimo, primo episodio di un nuovo franchise.

Mi piacerebbe molto vedere un seguito di Cyberpunk 2077. Il vero sogno sarebbe un videogioco non open world, ma più lineare e concentrato su una storia più sul pezzo e realmente in mano al giocatore magari, con meno contenuti ma più densi e davvero segnanti.

Siete stanchi di sentire parlare sempre di Cyberpunk 2077? Leggetevi un buon libro a tema!