Sì, anche «camminare e basta» è gameplay – e può essere molto potente

E può essere più potente di interazioni ben più articolate: gli Hellblade ne sono la prova vivente, ma deve capirlo anche Ninja Theory.

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a cura di Stefania Sperandio

Editor-in-chief

Dovevo trovare l’uscita, ma non riuscivo a vedere nulla. Il gioco voleva così: Senua stava affrontando una prova, nel primo Hellblade, per la quale il senso della vista era come se non ci fosse. Ho iniziato a girare, e girare, e girare, e ascoltare, e cercare di capire, di individuare uno spiraglio, un barlume, anche solo un piccolo riferimento a cui aggrapparmi. 

Trovo il buio assoluto claustrofobico, e con in cuffia il respiro pesante di Senua le cose si sono fatte anche più complicate. Alla fine, misi in pausa e mi staccai per qualche minuto. Non trovavo l’uscita da quello spazio angusto, quindi l’unico modo per riprendere il totale controllo del disagio che provavo fu quello di uscire… dal gioco, anche solo per un po’. 

Il trasporto e la proiezione emotiva, fisica, erano così forti che saltai volontariamente fuori dal “cerchio magico”, quello che ci fa accettare le regole della messa in scena ludica vivendole come necessarie. Lo feci dicendomi è solo un gioco, puoi interrompere quando vuoi. Eppure, nel gioco stavo solo camminando. Alla disperata ricerca di un’uscita, ma camminando – e basta.

C’è una sequenza, in Hellblade II, dove Senua deve spingersi in un cunicolo all’interno di una grotta, che è stretto. Poi è più stretto. Poi è strettissimo. Poi soffocante. Il respiro della protagonista si è fatto sempre più affannato, mentre le voci che correvano nella sua mente anziché opprimenti sono diventate rassicuranti.

Ho iniziato ad ascoltarle per non badare all’angoscia di Senua – e alla mia. Ho smesso di guardare quanto si stava stringendo ancora il cunicolo, ho cercato di non vedere nemmeno con la coda dell’occhio che i movimenti di Senua erano diventati questione di centimetri, e ho letto avidamente tutti i sottotitoli in basso, pur di deviare lo sguardo. 

Come col buio assoluto, ammetto di avere un problema con gli spazi stretti, dove secondo la mente della sottoscritta semplicemente non esiste più l’ossigeno. Così, tra me, mi sono detta che se Senua non ne esce tra qualche secondo, magari metto in pausa e mi riprendo un attimo. Come nel primo gioco.

Aggrappata alle voci delle Furie nella mente di Senua come se mi facessero compagnia e mi cullassero. Sei patetica, mi avrebbero detto loro con ogni probabilità (anche se più nel primo Hellblade che nel secondo). Non dovevo fare niente di complicato: solo andare avanti tenendo inclinato lo stick analogico sinistro. 

Camminare, appunto.

E allora come fa un gioco a innescare tutto questo? È solo uno stupido schermo, sono poligoni che si muovono. Non sta succedendo davvero. Anzi, in fin dei conti non stai nemmeno giocando: stai camminando. E quindi per qualcuno quello non è nemmeno gameplay.

E questa concezione – camminare non è nemmeno gameplay, serve qualcos’altro – ha portato Senua’s Saga: Hellblade II a piegarsi a qualcosa che invece lo ha reso meno brillante, che lo ha dilatato dove non serviva e dove non faceva bene a quella stessa storia che è il sangue del suo cuore pulsante.

Camminare è gameplay, può reggere un gioco sulle sue gambe. E può essere potentissimo, perché è come declini una meccanica a fare la differenza.

I bastoni tra le ruote del videogioco

Un videogioco può essere tante cose. Ha difficoltà a esserlo, però, quando viene pesato in ore di gioco per euro spesi – una cosa che il nostro Gianluca Arena previsto nella recensione, sottolineando che sicuramente la sua longevità sarebbe stata problematica per come i videogiochi sono inquadrati (e prezzati) ora. 

E ha difficoltà a esserlo quando lo ingabbiamo noi stessi – appassionati, autori, giocatori, esperti – in cosa un videogioco può o non può fare. Così, al di là della questione longevità che non discuterò per l’ennesima volta in questa sede, il dibattito su Senua si è rapidamente spostato sul fatto che, in pratica, al gioco non si giochi. Perché si cammina.

A qualche ora dal momento in cui ho visto scorrere i titoli di coda, io invece sono convinta che Hellblade II: Senua’s Saga sarebbe stato più denso, più forte, più memorabile, se avesse abbracciato completamente la sua natura di gioco fuori da ogni schema. Anche facendomi camminare per cinque o sei ore, se necessario.

Perché il gameplay dove si cammina e basta è, in realtà, un veicolo potentissimo di proiezione nel personaggio e nel mondo di gioco, se lo metti in mano al potere immaginifico e alle suggestioni di Ninja Theory. 

Il gameplay del gioco alterna queste fasi guidate dove si dipanano dialoghi, retroscena e dove le voci nella mente di Senua parlano con lei e noi, a quelle di combattimento fortemente scenografico e di risoluzione dei puzzle.

Il combattimento, molto fisico e volutamente filmico, svela piuttosto presto tutte le sue carte, ma ha ancora qualcosa da dire nel corso del gioco grazie alla messa in scena che gli si costruisce intorno. Ci sono delle sequenze dove sì, è vero, state ancora premendo solo lo stesso tasto per schivare e infilarvi nella guardia avversaria – ma è quello che c’è intorno che cambia il coinvolgimento, il come vi sentite. Il dannato peso che quella spada ha nella mano di Senua. Che in testa ha un vortice, è vero, ma ce l’ho anch’io e ce l’avete anche voi. Eppure, quella mano sull’elsa non è mai stata così stretta.

Sono Hellblade II e sono potentissimo proprio quando ti faccio camminare e mi racconto. Quando grido, piango, vinco, fatico, quando mi spoglio dei titoli di guerriera, di schiavista, di maligno, e ti metto di fronte alla nudità vulnerabile che invece tutti hanno in comune: quella di essere umani.
Se, quindi, le ingenuità del combattimento, che riesce a inventare poco rispetto a quello di Hellblade, sono dimenticabili, a fronte della grande protagonista di Hellblade II – la messa in scena, nel senso più teatrale del termine – è invece curioso quanto le fasi più di apertura, dei cosiddetti “enigmi”, risultino invece dannose per i ritmi di quella stessa messa in scena.

Con innovazioni irrisorie rispetto a un modello che era claudicante già nel 2017, si tratta di momenti in cui sembra che Ninja Theory “restituisca” il controller al giocatore dicendogli «ecco, gioca un po’, respira, poi proseguiamo». Ma il respiro diventa uno sbuffare. Esatto: se mi fai smettere di camminare e basta in quel villaggio in rovina dove è successo qualcosa di terribile e curiosavo tra le capanne, per chiedermi di mettermi artificiosamente a osservarmi intorno a caccia delle rune da allineare che risolveranno il puzzle, sbuffo. 

Non rifiato, non mi sento spinta davvero alla scoperta: capisco la meccanica, la risolvo e proseguo sentendo in modo nitido quella concezione per cui, diceva Bernard Suits, «giocare è lo sforzo volontario di superare ostacoli non necessari». E gli ostacoli qui sono non necessari in modo abbagliante.

Se nei primi frangenti rimane un po’ di coinvolgimento nel domandarsi se la strada serrata lo sia davvero, o se siano le incertezze nella mente di Senua a fargliela vedere così finché non le affronta e supera, o chissà cos’altro, arrivare al penultimo capitolo del gioco e trovarsi di fronte all’ennesima runa-da-allineare non fa bene a Hellblade II.

Perché si tratta delle fasi di interazione meno riuscite del gioco. E, curiosamente, sono quelle in cui “si gioca di più”, se vogliamo dirlo così. Si gironzola, si osserva, si corre, si attivano delle sorta di interruttori modificatori della realtà. E si spera di sbrigarsi per la prossima fase in cui magari si combatte mentre l’inferno infiamma dentro e fuori da Senua. E, soprattutto, per la prossima in cui magari si cammina e basta.

C’è una parte molto forte, all’interno di Hellblade II, che viene dilatata in modo surreale dal ripetersi quattro volte consecutive – in mappe via via più estese – dello stesso puzzle. E se questo può essere un modo di dirci che Senua ci sta provando con tutta se stessa, ma le difficoltà continuano ad arrivare e si fanno più grandi e articolate, dal punto di vista del coinvolgimento e dei tempi narrativi il rischio è quello di buttare fuori il giocatore da un momento fondamentale del percorso.

E questo mi fa scuotere la testa, perché nei discorsi di appassionati e esperti (o sedicenti tali, non sta a me assegnare questo titolo) il dito è invece finito puntato contro il si cammina e basta. Mentre lì dentro, in quegli anfratti dove Senua barcolla, cade, guada e viene zavorrata da enigmi lontani anni luce dall’ispirazione disturbata e trascinante del resto, Hellblade II ci dice tutto: sono potentissimo proprio quando ti faccio camminare e mi racconto. Quando grido, piango, vinco, fatico, quando mi spoglio dei titoli di guerriera, di schiavista, di maligno, e ti metto di fronte alla nudità vulnerabile che invece tutti hanno in comune: quella di essere umani. Ed ecco che quindi perdo d’identità e della luce propria di cui brillo, quando mi apro nel vano e forzato tentativo di non farmi etichettare come un walking simulator.

Divento più imperfetto non perché ti faccio camminare troppo, ma perché per piacere a più persone ho cercato in tutti i modi di fare qualcosa che non mi appartiene.

«Un viaggio di mille miglia comincia sempre con il primo passo»

È incredibile quello che il videogioco può fare, nel raccontarci delle storie. Nessun altro medium può farti essere il protagonista, anziché narrartelo e fartelo guardare. Ed è incredibile quante declinazioni questo possa trovare nel game design.

Le storie non inventano niente, sono solo chiavi: aprono cassetti che abbiamo già e che teniamo ben chiusi, al sicuro, al riparo da tutto e tutti. Per far girare quella chiave, a volte, basta anche solo una camminata.
Farò un esempio a me caro: uno dei momenti narrativamente più potenti di Metal Gear Solid 4: Guns of the the Patriots, un gioco che abusa e stra-abusa di cut-scene a compartimenti stagni rispetto al gameplay, vede Snake correre di lungo per dei corridoi, fino ad arrivare all’ultimo in cui è costretto a strisciare. 

Mentre lo fa, le voci delle persone che gli sono care, che sta cercando di proteggere, gli invadono la testa, sembrano arrivare da ogni dove. Me lo ricorderò sempre e lo porterò sempre nel cuore, ho addirittura sentito forte la voglia di far correre Snake più veloce, perché dobbiamo sbrigarci. Ma stavo solo camminando dritta. Per qualcuno, non era nemmeno un momento di gameplay.

All’interno di What Remains of Edith Finch, c’è una sequenza in cui si deve compiere un’azione in modo meccanico. Sempre la stessa. Ancora, ancora e ancora. Finito? Bene: ricomincia.

Nessuna sfida, nessuna deviazione, nessuno stimolo: fallo, rifallo. Rifallo ancora. Stai diventando matta? Perfetto. Gameplay e narrazione uniti con una brillantezza straordinaria, nonostante io fossi impegnata a premere semplicemente un solo pulsante. Era gameplay, quello? Sì, che lo era. Ce ne fossero.

Mi sono sentita sia a casa che in pericolo nei boschi di Firewatch, dove ho camminato tanto e mi sono attaccata a quella radiotrasmittente come se fosse davvero una mia alleata, il mio appiglio, la mia àncora, l’unico barlume di umanità a cui potessi aggrapparmi nelle mie incertezze. Ma ho camminato, non ho fatto mica altro. 

Perché è la messa in scena, la proiezione, quella che compie la magia. Le storie non inventano niente: sono solo chiavi per aprire i cassetti che abbiamo già e che teniamo chiusi, al sicuro, al riparo da tutto e tutti. E, per far girare quella chiave, a volte basta davvero anche solo il camminare.

Come con Hellblade II, che il meglio di sé lo dà così: mentre le voci imperversano, il mare si ingrossa, i tamburi si fanno tonanti, le dita tremano ma le gambe no. Non serve diluirsi per rischiare di spezzare ciò che di meglio hai da dare, quello che ti rende unico, e poter dire “ecco qui un po’ di gameplay!”. Tanto, un gioco di massa non lo sarai mai – e va bene così, è meraviglioso che sia così, in un’industria di cloni a rischio zero creare un’opera che voglia essere prepotentemente se stessa è un atto di coraggio. Per il futuro, sarebbe bello che fosse se stessa fino in fondo.

Dopotutto, Senua di coraggio ne ha. Anche solo quello di costringerti a guardarti dentro, disarmandoti di quello che credevi essere un divertissment – è solo un videogioco, che vuoi che sia? – e che invece scopri essere uno specchio. E non te lo dice di certo mentre allinei l’ennesima runa spezza-ritmo che prova a sabotarne l’atmosfera, ma proprio mentre cammini lungo un’Islanda che non ti appartiene, o mentre stai premendo Su per uscire da quel maledetto cunicolo.

Perché, semplicemente, quello di Senua è un viaggio: e un viaggio si fa mettendo un passo dietro l’altro.

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