Fateci sparare di meno, se questo può migliorare i videogiochi

Metterci contro un nemico contro cui sparare/scagliarsi è uno standard "facile" del videogioco: ma gli permette davvero di esprimere il suo potenziale?

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a cura di Stefania Sperandio

Editor-in-chief

«Dal punto di vista narrativo sarebbe servita un'escalation più lenta. Ma i playtester hanno fatto capire che, se dai un'arma al giocatore, allora la vuole usare». Mi ricordo come se fosse ieri, quando lessi queste parole. Invece era il 2017 e l'autrice Rhianna Pratchett stava discutendo sulle pagine di Eurogamer del problema dell'accecante dissonanza ludonarrativa all'interno del reboot di Tomb Raider.

In quel gioco, sottolineava l'autrice, «le cose non sono andate nella direzione della narrativa. Effettivamente, non molte di queste battaglie lo fanno: a volte vinci, a volte perdi. E devi abituarti al fatto che perderai più spesso di quanto tu non vinca. [...] Quando si parla di team con centinaia di persone, sei veramente un ingranaggio nella macchina. Il team narrativo è importante, ma lo sono anche gli altri, e ciascuno lotta per avere il suo spazio, il suo budget, tutto quanto».

E le sue parole, ancora oggi, suonano particolarmente interessanti: il team che si occupa della narrativa deve abituarsi a perdere, in favore di chi progetta i sistemi di gioco e il gameplay. Il che ha senso: l'interazione nel videogioco viene prima di tutto.

Ma, considerando il potenziale narrativo del videogame, proprio in virtù dell'interazione, quante storie davvero coinvolgenti puoi raccontare, che integrino in modo credibile le stragi virtuali che la maggior parte dei titoli ci fanno compiere?

Di dissonanze e assurdità

Il reboot di Tomb Raider, nel 2013, voleva raccontarci la prima grande avventura di Lara Croft che, giovanissima e coinvolta in un naufragio, si ritrovava sull'isola di Yamatai, a fare del suo meglio per salvare i suoi compagni da un inquietante gruppo di cultisti.

Intento interessante, ma azzoppato da un dettaglio: tutt'oggi, il gioco rappresenta uno dei casi più clamorosi di dissonanza ludonarrativa – ossia, quel fenomeno per cui ciò che si gioca e ciò che viene narrato non combaciano, per necessità di gameplay.

Ecco così l'escalation troppo rapida di cui parlava Pratchett: Lara si strugge per aver ucciso un animale per poter mangiare, ma da lì a mezz'ora inizierà a far strage di persone sull'isola, senza più mezza esitazione.

«Se dai un'arma al giocatore, allora la vuole usare». E se il tuo gameplay è costruito sulle fasi di shooting, forse questa storia graduale di cambiamento interiore non è che la riusciremo a raccontare proprio a modo: o acceleriamo le fasi della storia, togliendole respiro, o rallentiamo la centralità delle sparatorie – ma a quel punto il giocatore che fa, cammina ed esplora, e basta? E questo gioco AAA costosissimo allora come glielo vendiamo?

Quante altre storie potenti possiamo davvero raccontare con un videogioco AAA che per farsi strada deve per forza porre l'uccidere dei nemici al centro di tutto?
È un cortocircuito di cui ci è capitato di parlare, in passato, che si vede ancora di più in quest'epoca di licenziamenti all'ordine del giorno. Solo qualche settimana fa, Riot Games inseriva nei motivi dei nuovi addii il fatto che, strutturata com'è oggi, per costi non possa prendersi alcun rischio.

E il punto probabilmente è questo: se i videogiochi costano troppo, se un mezzo piede in fallo ti può far saltare in aria, lo sviluppatore (e il publisher sopra di lui) non rischia e si affida a modelli sicuri. Difficile trovarne uno più sicuro, dalla soddisfazione immediata, rispetto a quello dello shooting, come riconoscono gli stessi game designer: sparare contro un nemico virtuale e avere la meglio dà all'istante piacere al giocatore, lo fa sentire appagato e stimolato, e a dimostrarlo ci sono decenni di shooter e giochi d'azione di successo.

Ma questo depotenzia la quantità di storie che si possono raccontare in modo credibile, perché non tutti possono inventarsi di essere The Last of Us - Parte IISpec Ops: The Line. Il risultato è quello di un videogioco che si va a sabotare da solo, perché vuole sia la bella storia (che in realtà solo raramente si vede nel nostro medium, diciamolo proprio senza filtri, ndr) che il gameplay che venda a più persone possibili.

per vendere a più persone possibili, per avere un appeal di massa, devo farti spaccare cose – e in modo adrenalinico. Al costo di raccontarti tra le righe che la ventenne Lara Croft ha qualche gene in comune con il veterano John Rambo. Al costo di far virare Final Fantasy XVI (che comunque il suo peso narrativo lo mantiene) verso la strada spacca-tutto tracciata da Devil May Cry.

Affidarsi a qualcosa di già provato e concreto

Qualche anno fa, intervistato da GamesIndustry, l'ex Naughty Dog Bruce Straley (saga UnchartedThe Last of Us) aveva a sua volta sottolineato come, per catturare i giocatori, sia di solito necessario puntare subito sull'adrenalina.

E questo, come dicevamo, rende complicato variare rispetto ai soliti modelli narrativi: «l’antagonista, in un videogioco, di solito ti manda contro i suoi minion, in maniera tale che devi affrontare degli ostacoli, se vuoi portarti a casa il tesoro. Che si tratti di un puzzle game o di uno shooter, devi proporre delle meccaniche interessanti per fare in modo che il giocatore rimanga coinvolto» spiegava Straley.

E mantenere il giocatore coinvolto può essere difficile, perché spesso vale un po' la regola dei cinque secondi dei social – soprattutto in un'epoca in cui i videogiochi piovono da tutte le parti e i servizi in abbonamento permettono di mettere le mani anche su titoli che non avremmo mai comprato, magari giusto quei cinque minuti per vedere come sono.

Così, per catturare quell'attenzione, spesso ci si butta sul modello che piace ai giocatori cosiddetti "Killer": prevalere su qualcuno. Che siano proiettili, frecce, colpi d'ascia o di spada, ecco un nemico da colpire per dimostrargli di essere più forti.

Ma si possono creare grandi videogiochi validi senza che si debba necessariamente concentrare il gameplay sul prevalere su qualcuno? Secondo Straley sì e, ad esempio, fu quello che tentò di fare con Druckmann ai tempi del primo The Last of Us, dove la crudeltà e le uccisioni avevano una base narrativa molto più forte delle stragi di Nathan Drake in Uncharted. Nel mondo di Joel si uccide per sopravvivere e le uccisioni devono avere peso.

«Si può creare un gioco che sia interessante, coinvolgente e con al centro i suoi protagonisti, come le storie di Uncharted e The Last of Us, senza che si spari?» ragionò all'epoca, nell'intervista a GamesIndustry. «Io penso di sì. Ovviamente, il concetto da cui partire deve essere ‘come posso creare un mondo che sia abbastanza ricco da consentire di avere comunque delle interessanti meccaniche chiave?'».

Il dubbio è chiaro: se non voglio mettere al centro del design del gioco il prevalere su qualcuno, la sfida, allora cosa può essere così forte da mantenere il giocatore coinvolto – considerando quanti videogame vengono abbandonati ben prima dei titoli di coda? E qui, se vuoi vendere (e visti i costi degli AAA, vuoi vendere), la risposta non è banale.

«Questo è il problema, se si tratta di un videogioco con un grande marketing dietro» disse Straley. «Se si tratta di una grande compagnia che vuole assecondare le aspettative degli investitori per il prossimo quarto, cercheranno di affidarsi a qualcosa di già provato e concreto, piuttosto che a qualcosa di innovativo, che potrebbe rappresentare delle difficoltà».

Ed eccoci qui, siamo i videogiocatori, amiamo i videogiochi. Così tanto che facciamo finta di non accorgerci che giochiamo sempre agli stessi, solo che si chiamano in modo diverso.

Sì, ma si spara?

Non fraintendiamoci: anche nell'industria dei grandi nomi, stiamo vedendo degli esperimenti e dei passi in avanti importanti nel narrare con un videogioco – qualcosa che provi a superare il modello per cui Liquid Snake vuole che alla fine ce la facciamo, ma nel frattempo ci manda contro il suo intero esercito. La parte spinosa è come questi vengono percepiti.

Era il 2019 quando Death Stranding – citato da Straley come un interessante esempio di gameplay non incentrato sullo sparare contro qualcosa o qualcuno, insieme a Inside – arrivava sul mercato.

Sono passati quasi cinque anni e il profetico titolo di Kojima Productions galleggia ancora tra chi lo ha apprezzato e lo sfottò Bartolini Simulator. E porto nel cuore il lettore che, all'epoca della recensione del gioco, in privato sperava potessi rispondere a qualche domanda e, tra le tante possibili che gli correvano in mente, tentò solo quella che per lui evidentemente era la più importante: «Stefania, dimmi, ma si spara?».

Un esempio più recente è quello di Alan Wake 2. Un po' horror psicologico e un po' True Detective, il premiato gioco di Remedy Entertainment è scritto con straordinaria maestria – ma rispetto al suo potenziale e ai suoi meriti stando alle stime lo abbiamo comprato più o meno io, Sam Lake e qualche parente sparso.

Anche perché, tra le lamentele, in non pochi appassionati hanno puntato il dito contro il gameplay ragionato, i puzzle ambientali e l'uso limitato e non comodo delle armi da fuoco. I gusti sono sempre legittimi, ma se le sperimentazioni naufragano perché, in sintesi, non si combatte abbastanza, ci stiamo dando la zappa sui piedi.

«Stiamo vivendo un’epoca nella quale la creatività è dettata dagli algoritmi e diventa quasi priva di significato. È importante fare qualcosa che vada contro questo processo».
Perfino un gioco totale come Red Dead Redemption 2 viene criticato per la sua lentezza – e dire che lì si spara, e perfino parecchio, ma senza frenesie, si spara al ritmo di Spaghetti Western quando lo si ritiene necessario, tra una cavalcata in una prateria silenziosa e una sconosciuta che chiede un passaggio verso casa.

E quindi, in questa percezione, siamo punto e a capo: la sperimentazione narrativa in un videogioco dai valori produttivi alti è complicata, perché narrare una bella storia che tiri dentro la soddisfazione immediata di un gameplay dove si spaccano tutto e tutti non è banale, e non ha infinite declinazioni. Così si finisce per partire dal fatto che in un gioco si combatterà contro qualcosa – dopotutto, l'antagonismo e il conflitto sono anche alla base dell'atavico modello delle storie –, poi il resto da costruirgli intorno lo vediamo.

Così, i publisher inseguono un modello in cui se vuoi avere il successo vero, quello grosso, essere degno del patentino del gioco AAA di successo, devi avere un nemico su cui prevalere al centro del tuo gameplay. Se non ne fai la tua ragione di vita (Alan Wake 2 è troppo lento, Death Stranding è Bartolini Simulator,  continuate a piacere), perdi l'appeal sulle masse – e quindi soldi.

Ed ecco i confini tracciati: quelli in cui se non proponi azione in tempo reale dalla soddisfazione immediata, ti stai penalizzando da solo – perfino giochi strategici e a turni, dove pure si devono sconfiggere degli avversari, non possono competere con l'appeal tentacolare dell'azione in tempo reale, come dimostra il fatto che per piacere alle masse odierne perfino Final Fantasy sia convolato a nozze col modello Devil May Cry.

Diceva Hideo Kojima, in un intervento su Rotten Tomatoes di qualche tempo fa, che «l'intrattenimento non è solo intrattenimento: lascia qualcosa nel cuore delle persone», qualcosa che – come per gli altri media – può spingerci a fare tesoro di concetti, emozioni e riflessioni anche nella vita reale.

E se questo per i videogiochi è più vero che mai, perché l'interazione rende la storia molto più potente rispetto ai mezzi di comunicazione passivi, è altrettanto vero che – considerando le possibilità nulle di prendersi rischi concesse alle grandi produzioni – parliamo del medium che più di tutti si depotenzia e imbavaglia da solo. Che inscatola le possibilità aperte dall'interazione, tarpando loro le ali e relegando le sperimentazioni alle produzioni piccole per cui vale la regola commerciale inversa: devo essere originale per farmi notare.

«È la creatività a far andare avanti la civiltà» aveva aggiunto Kojima, discutendo del modello commerciale dei battle royale. «Stiamo vivendo un’epoca nella quale la creatività è dettata dagli algoritmi e diventa quasi priva di significato. È importante fare qualcosa che vada contro questo processo».

Quante altre storie potenti – che a oggi nei videogiochi si contano sulle dita di una mano, a essere generosi – possiamo davvero raccontare con un videogioco che per farsi strada deve per forza porre il colpire dei nemici al centro di tutto? E, con strette ai polsi della creatività queste manette, ci siamo mai chiesti cosa ci stiamo perdendo?