Mettere i videogiocatori al centro del videogioco è stato un errore

I videogiochi vengono comunicati in un modo che mette il giocatore al centro di tutto: tu fai, tu scegli, tu combatti, tu esplori. Siamo arrivati a una situazione paradossale in cui il “voi” rivolto agli utenti oscura il “noi” come autori di videogiochi che riguarda gli sviluppatori, al punto che – numeri del report GDC 2023 alla mano – i videogiocatori si sentono legittimati a pretendere cosa debba o non debba fare un videogioco, asserendo di sapere meglio dell’autore cosa serva alla sua opera. Ecco perché mettere i videogiocatori al centro del videogioco è stato un errore: perché non è stato un bene per nessuno. Men che meno per il videogioco.

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a cura di Stefania Sperandio

Editor-in-chief

L'industria dei videogiochi è costruita sull'interazione. Se un videogame non avesse questa unicità – l'utente che agisce attivamente nel corso dell'esperienza – potrebbe quasi somigliare ad altri media e di sicuro perderebbe un suo fattore identitario. Al di là di rimediazioni ("Remediation: Understanding New Media", J. Bolter, R. Grusin - Cambridge: MIT Press) in cui si propongono forme tipiche di altri linguaggi, come il cinema e la letteratura, il videogioco è interamente basato sull'interazione.

Questo ha spostato il focus del mezzo di comunicazione in questione, ovviamente, verso l'utente finale. Quando andiamo a vedere un trailer promozionale per un nuovo film in uscita, questo cerca di raccontarci soprattutto l'avventura o la vicenda che i protagonisti vivranno, cercando di farci entrare in sintonia con loro. Quando, invece, si parla di promuovere un videogioco, spesso il focus è su quello che tu, come giocatore, sarai chiamato a fare.

Proiettandosi all'interno dell'opera, il giocatore è considerato parte attiva, come in effetti è, dell'esperienza. Ma questo significa anche che gli viene data una legittimazione che non è un bene per il videogioco di per sé.

In alcuni casi, anche quando sentiamo analizzare dei videogiochi, disamine come le recensioni potrebbero ridursi a un elenco puntato di cosa si può fare e cosa non si può fare all'interno di un titolo. È così che ci viene presentato un videogame fin dal suo reveal.

Eccoti in Horizon Forbidden West: sarai Aloy, vivrai un'epica avventura nell'Ovest Proibito e sarai tu ad abbattere giganteschi robot animali con armi uniche.

Eccoti in Forza Horizon 5, dove potrai collezionare vetture di ogni sorta, scorrazzare in scenari mozzafiato fotorealistici per tutto il Messico e dimostrare a tutti che tu sei il più veloce. Eccoti in Skyrim, sarai il Sangue di Drago, deciderai tu come procedere lungo la regione nordica di Tamriel, sceglierai il tuo stile di combattimento e le tue origini.

Il videogioco viene descritto, dalle stesse etichette che lo realizzano e da chi ne eredita il linguaggio, come parco giochi dove l'utente viene messo non solo al centro dell'esperienza – cosa comprensibile, identitaria e legittima – ma anche al centro della comunicazione. E questo è, invece, un po' più spinoso di quanto possa sembrare a primo impatto.

E se il tu si dimentica del resto?

Quando parlo di utente legittimamente al centro dell'esperienza, è perché questo è alla base della progettazione di un videogioco. Ancora più che gli autori di altri media, i game designer devono tenere molto a mente come potrebbero comportarsi o reagire, entro le meccaniche che stanno mettendo a punto, i loro utenti. Questo, almeno in teoria, deve però andare a braccetto con la visione dell'autore per quel videogioco.

Se un game designer si presenta dal publisher per proporre un gioco strategico che vorrebbe mettere insieme con il suo team, ma gli viene risposto che ora i giocatori giocano solo i battle royale, abbiamo un problema evidente. Immaginate una PlatinumGames che mette insieme un action single player che per necessità di mercato diventa in corso d'opera un game as a service. Se volete sapere com'è finita, c'è la recensione di Babylon's Fall.

È chiaro che nelle grandi (e piccole) produzioni ci siano sempre importanti necessità di mercato. Se spendo X per realizzare un'opera, devo rimettere in cassa almeno X+1, o in futuro non potremo creare più nulla, perché andremo tutti a casa. Con costi di produzione sempre più importanti, che hanno reso difficile o quantomeno coraggioso provare a sperimentare oltre il già collaudato, allora mettere il giocatore – e non la visione dell'autore – al centro del progetto suona più sicuro.

Ti dico cosa tu puoi fare, cosa tu vivrai, te lo rimarco all'infinito, perché l'esperienza è tua ancora prima che mia. Io divento meramente un mezzo, l'artigiano che rende possibile quello che tu farai. Io, sviluppatore, sono praticamente invisibile e informe. I paletti del gameplay sono miei, certo, ma non parliamo di me autore – ci mancherebbe. Parliamo di te, giocatore.

Sorprende poco, con questo schema comunicativo e promozionale, che l'autorialità nel videogioco abbia difficoltà ad affermarsi: tolti una manciata di nomi, provenienti soprattutto dal fronte dei grandissimi maestri giapponesi (Miyamoto, Kojima, Miyazaki, solo per dirne tre), spesso l'utente ha la sensazione che un individuo valga l'altro e che la software house sia qualcosa di informe che mantiene una sua identità a prescindere da chi ci sia dentro.

Pensate al caso di The Walking Dead, portato al traguardo da Skybound Games quando Telltale era naufragata – e tutti felici, basta che mi diate un epilogo, chi se ne frega di chi lo fa, no?

È un contesto in cui, praticamente, per necessità di mercato il voi come giocatori ha superato il noi come autori. E questo, numeri alla mano, ha creato una legittimazione difficile da gestire, perfino per gli stessi sviluppatori.

Dal momento che il videogiocatore sa di essere al centro del progetto – tu fai, tu sei, tu decidi – in molti casi si comporta di conseguenza.

Ma cosa vuoi che ne sappia l'autore della sua opera, no?

Qualche tempo fa ho assistito a un siparietto che, se non fosse stato drammaticamente serio, mi avrebbe fatto ridere. Sotto a un suo tweet sul suo account ufficiale, Neil Druckmann (co-presidente di Naughty Dog) veniva investito da commenti di giocatori che gli spiegavano che Joel non avrebbe mai fatto questo o quelloNon parlo di legittime critiche o riflessioni, ma di persone che volevano insegnare a chi ha creato un personaggio come quel personaggio avrebbe dovuto comportarsi in dati contesti.

Ora, lungi da me aver scritto qualcosa che abbia avuto anche solo lontanamente il successo dei lavori di Druckmann, ma sono piuttosto sicura di poter dire che nessuno dei miei lettori saprebbe meglio di me cosa farebbe, direbbe o penserebbe un personaggio che è nato dalla mia mente. Potrebbe dire «secondo me sarebbe stato meglio così», questo certamente, ma da qui ad andare a dire a Druckmann che Joel non è la persona che Druckmann pensa il dibattito si declassa già a paradosso.

È un tipo di atteggiamento che nel videogioco vediamo tantissimo: dal momento che ho amato la tua opera, adesso è anche e soprattutto mia. Io le ho fatto avere successo e sei tu, autore, a non rispettarla, io so di cosa ha bisogno.

Non è, si noti bene, un fenomeno limitato solo al gaming, ma nel nostro caso rinforzato dall'atteggiamento che ha posto il giocatore al centro del riflettore, poiché tu fai, tu sei, tu decidi. E come sorprendersi, allora, se poi quello vuole decidere davvero?

Ecco che così Druckmann si vede spiegare chi siano Joel ed Ellie, dato che lui avendoli solo creati non ne ha idea. Ecco che BioWare, che aveva fatto le sue scelte – apprezzabili o meno – ridà una discreta mano di vernice a Mass Effect 3, che non si sa mai.

E non che il feedback non debba esserci: pensiamo a quanto sarebbe stato brutto Sonic nel suo film, senza feedback, e anzi è necessario che i giocatori abbiano voce in un'industria che di tanto in tanto partorisce idee (di distribuzione o monetizzazione) che fanno cadere le braccia.

Ma il feedback non dovrebbe mai sentirsi legittimato come aggressione o sostituzione dell'autore. Per quanto la scelta compiuta da un gioco in termini di meccaniche, di vicenda, di ambientazione, potrebbe non essere nelle proprie corde, è curioso quanto spesso capiti nei videogiochi che si ritenga di far presente, in modo aggressivo e violento, che andrebbe cambiata, sulla base del perché a me non va bene.

Sono io che compro. Sono io che pago. Hai avuto successo grazie a me – me lo hai detto tu, come autore di videogiochi. Non sono forse anni che mi parli di quanto io conti e sia importante all'interno dei mondi che crei?

Gli esempi dati da questo clima di legittimazione che sfocia nella grottesca imposizione sono molteplici. Di recente avevamo parlato anche di Kojima Productions costretta a fare una nota per assicurare che continuerà a lavorare anche con Sony, dopo l'annuncio del progetto insieme a Xbox.

Tra i messaggi, molti dicevano che Kojima dovrebbe «ricordarsi di chi lo ha creato», in riferimento al successo di Metal Gear Solid sulla prima PlayStation. E quindi ti ho reso grande io, giocatore che ho comprato i tuoi giochi su PlayStation. Dove pensi di andare senza di me?

Altro esempio: era il 2013 quando Jennifer Helper, scrittrice presso BioWare, subì atteggiamenti così odiosi per Dragon Age 2, che decise di lasciare la celebre software house. La testata britannica Eurogamer, con ottima cognizione di causa, si domandò già allora se certi «fan abusanti», con le loro aggressive pretese, non stessero «spaventando i talenti al punto da farli andare via».

Il caso Bungie, invece, è solo dello scorso anno – quando abbiamo scoperto con che tipo di minacce qualcuno si divertiva a perseguitare degli sviluppatori per richiedere contenuti esplicitamente razzisti. Una situazione così oscenamente inaccettabile che la compagnia decise di ridurre le sue comunicazioni con la community nel suo insieme.

Ricordiamo anche Ron Gilbert, affranto dal livello di interazioni insopportabili avute per il suo Return to Monkey Island e la sua legittima scelta in campo di direzione artistica, che decise di chiudersi nel silenzio – tra chi minimizzava e si appellava al solito "non si può più dire niente".

E ci ricordiamo tutti, probabilmente, della sviluppatrice di Sony Santa Monica molestata per divertimento con foto esplicite, perché qualcuno non ne poteva più di dover aspettare così tanto per la nuova data di God of War: Ragnarok.

Non è solo questione di dibattito: è questione di serenità per gli sviluppatori

A questo punto, non vedo l'ora di vedere arrivare il film di Mario per sentire in che modi molte persone spiegheranno al maestro Miyamoto che non ha capito niente della saga di Mario. È un po' un concetto che, sui videogiochi, si estende a tutto tondo anche a ciò che li circonda: se vi guardate intorno, potrete notare su base quotidiana, per fare un altro esempio, auto-eletti portatori di verità che dalla cameretta predicano e insegnano il loro lavoro a persone che quel lavoro lo fanno da vent'anni.

Se, tuttavia, il cosiddetto voler insegnare ai padri come si fanno i figli – come si dice dalle mie parti – si limitasse al chiacchiericcio, non sarebbe nemmeno tema di analisi. Lo è, tuttavia, quando si arriva al senso di legittimazione di cui dicevamo poco sopra: di recente, la GDC ha pubblicato il report dello State of Game Industry – che gli addetti ai lavori possono scaricare qui.

Il documento ha intervistato oltre 2.300 sviluppatori, per identificare alcuni temi chiave dell'industria. Tra cui anche il difficile rapporto con la parte più tossica della community. Quella che, appunto, si sente legittimata perché, essendo al centro di tutto, è in qualche modo proprietaria dei giochi che gioca.

Già solo il fatto che si debba parlare del tema in uno studio sull'industria – tra pensieri sul futuro delle piattaforme e orari di lavoro, per capirci –, come se fosse una sua parte "quotidiana", sarebbe di per sé meritevole di riflessione. Lo diventa di più, però, quando a pagina 30 leggiamo che «di quelli intervistati, il 91% dei rispondenti ritiene che le molestie e la tossicità dei giocatori nei confronti di sviluppatori e studi siano un problema».

Ma i dati, guardati da vicino, sono anche peggiori:

  • Il problema è «molto serio» per il 42% degli sviluppatori
  • È «serio» per il 36% di loro
  • È «un problema minore» per il 13%
  • «Non è un problema» per il 4%
  • Non si esprime il 5%.

È anche vero che "solo" il 40% dichiara di aver subito attacchi molesti in prima persona o averli visti venire subiti da un collega, mentre il 54% afferma di non aver assistito direttamente a episodi specifici.

«Era meno probabile che fossero gli uomini intervistati ad affermare di aver subito o assistito a delle molestie» continua lo studio della GDC, «rispetto a donne o persone non binarie. Era più probabile che i rispondenti parlassero di aver subito o assistito a molestie contro persone che si identificano come parte della community LGBTQ+».

Ma cosa fanno le aziende quando gli sviluppatori sono sottoposti a questo tipo di atteggiamenti da parte della community? Secondo il 68% degli intervistati, provano quantomeno a fare qualcosa, più che altro internamente allo studio (nel 30% dei casi), raramente rivolgendosi solo all'esterno e quindi perseguendo magari gli utenti (4%). Nel 34% dei casi, leggiamo, si tentano un po' entrambe le strade.

Al di là di questa coltre di numeri che ci dà un disegno piuttosto preciso – ossia, che il 91% degli sviluppatori, idealmente, sa che avrà a che fare con una community tossica – sono soprattutto i commenti degli addetti ai lavori sulla vicenda a essere illuminanti e restituirci lo specchio della situazione.

Considerando che il fenomeno è del tutto social, perché è stato l'anonimo contatto-a-chilometro-zero a permettere l'odio-a-chilometro-zero, non sorprende che quelli che lavorano in posizioni di management, marketing e relazioni pubbliche (PR) siano i membri dei team che subiscono più molestie – essendo quelli più attivi sul fronte della comunicazione social. A seguire, lo studio parla di dipendenti del settore business, della produzione, del management e del game design.

«Si dovrebbe cominciare dall'industria che capisce che questo è un problema serio e che non è una cosa che arriva da 'videogiocatori appassionati'» fa notare uno degli intervistati. «È di abuso, che stiamo parlando».

Ed è qui che si tocca il tema della legittimazione, quando un altro sviluppatore afferma:

«Le grosse compagnie sembra quasi che abbiano paura che i giocatori tossici siano la loro effettiva fanbase, senza rendersi nemmeno conto che questo ha un impatto su numeri molto più ampi per la loro fanbase reale».

E ancora, da un'altra voce nel report:

«Gli amministratori delle compagnie non escluderanno dei giocatori fino a quando escluderli non farà fare loro dei soldi».

Insomma, i publisher spesso non hanno interesse a schierarsi contro la parte tossica della community che è vicina ai loro giochi, perché questo significa che quelle persone potrebbero allontanarsi dal gioco stesso, se attaccate. E se meno persone si interessano al mio gioco, se mi espongo e ne allontano alcune, allora incasso di meno e questo è quello che conta.

Più semplice, a quanto pare, dare per scontato che doversi muovere tra questi comportamenti sia di routine nel lavoro in una software house – o, come lessi qualche tempo fa, suggerire ai membri dell'industria di non iscriversi ai social network e non usarli, perché la tossicità è inevitabile. Un po' come il non uscire di casa se non vuoi essere aggredita, o non portare il portafogli o il cellulare se non vuoi essere rapinato.

Uno degli sviluppatori interpellati non si è però risparmiato e ha centrato il nocciolo del problema di cui discutevamo in apertura, quando ha dichiarato:

«Dobbiamo anche smetterla di invitare la community a essere parte della famiglia.

Sei parte della conversazione, hai la possibilità di darci la tua opinione, ma non hai il diritto di pretendere che tutto venga fatto come dici tu».

Non tutti sono dello stesso avviso, certo. È interessante segnalare anche un altro sviluppatore secondo il quale bisogna invece ascoltare ogni commento, perché «il cliente ha sempre ragione. Ascoltiamo le lamentele, prendiamone atto, troviamo una soluzione fattibile, un denominatore comune. È una cosa che, per quello che ho visto, può eliminare quel problema».

Proprio l'uso dell'espressione «il cliente ha sempre ragione» riassume tutto. Se hai parte del pubblico che si sente legittimata ad avere pretese, perché ritiene di essere lei ad averti fatto grande, è perché pensa di avere sempre ragione, in quanto cliente. Ma un'opera di ingegno non può accettare di essere solo un prodotto pensato con in mente il cliente e funziona molto meglio quando, al di là di questo, c'è qualcosa di più.

Una visione, ad esempio. Altrimenti, se il cliente ha davvero sempre ragione, tanto vale dare alle community un foglio bianco e farlo fare a loro, il gioco – come se non ci fossero personalità ingegnose, preparate e con esperienza che hanno studiato e lavorato tutta la vita, per sapere come offrire delle grandi esperienze in un videogame.

I giocatori self-entitled che vanno a insegnare a Druckmann chi sia Joel Miller, oltretutto, penserebbero davvero di poterlo fare meglio di Naughty Dog. Viene da domandarsi, allora, a chi faccia bene l'approccio che mette il giocatore-cliente al centro della visione, che continua a ricordargli che le esperienze sono costruite su di lui/lei, che tu sei il fulcro e abbiamo progettato tutto pensando a te, mica a quello che volevamo offrire e dire noi come autori.

Agli sviluppatori non sta facendo bene.

Ai videogiochi, preoccupati di inseguire l'ultimo trend senz'anima da infiocchettare per levargli di dosso l'odore stantio di usato sicuro, neanche.

E, questo è ancora più certo, di sicuro non sta facendo bene alla community.


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