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I miracoli di Natale #8 - Nel 2020 vorrei venissero rimandati più giochi

Un'industria sempre più grande e sempre meno a misura d'uomo

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a cura di Daniele Spelta

Redattore

Per una pura coincidenza, uno degli ultimi titoli giocati dal sottoscritto in questo 2019 è stato Mosaic. Il titolo sviluppato da Krillbite Studio è tutt’altro che perfetto e non trova spazio nelle solite classifiche di fine anno, ma ha il pregio di mettere ben in evidenza le sempre più allarmanti incrinature del mondo del lavoro. Forse vi starete chiedendo che cosa lega questa apertura al titolo dell’augurio di buon Natale. La risposta è Doug Bowser che sale sul palco del Nintendo Direct allo scorso E3 per annunciare il rinvio di Animal Crossing: New Horizons, una posticipazione a marzo del 2020 attuata anche per evitare gli immancabili periodi di crunch a cui vanno incontro i team di sviluppo.

Dunque la mia richiesta a Babbo Natale è abbastanza semplice: se serve qualche mese in più di attesa per aver fra le mani il prossimo titolo tanto desiderato, ben venga – se il tempo aggiuntivo è fatto in nome di una maggiore tutela dei diritti di chi i videogiochi li fa. In fin dei conti, anche il backlog ne beneficerebbe.

animal crossing new horizons

Un anno nero

Il 2019 è stato un anno eccellente per noi “consumatori” e le immancabili liste dei GOTY sono il migliore attestato al valore di questi dodici mesi. C’è davvero l’imbarazzo della scelta, fra giochi di ruolo, action, strategici e via dicendo, ma vi invito a fare una prova. Digitate su Google “videogiochi licenziamenti” e premete invio. Perfetto, questa semplice ricerca restituisce fin troppi risultati e le decine e decine di articoli apparsi testimoniano quanto la mancanza di tutele e regole sia un problema drammatico nell’industria.

Il caso più eclatante è quello scoppiato a inizio anno in quel di Irvine, con l’annuncio da parte di Blizzard di circa ottocento licenziamenti nei settori non ritenuti strategici. Per un nero paradosso il 2018 è stato anche un anno da record per l’azienda americana, come ha affermato lo stesso CEO Bobby Kotick: “sebbene i nostri risultati finanziari nel 2018 siano stati i migliori nella nostra storia, non abbiamo espresso il nostro pieno potenziale“. Insomma, nel 2018 i profitti raggiunti non hanno precedenti ma nel 2019, senza grosse IP da lanciare sul mercato, gli investitori e gli azionisti potrebbero sollevare dei dubbi e dunque meglio prevenire e tagliare i costi.

Una lunga lista di pessime pratiche

Activision Blizzard è finita sulle prime pagine anche per vicende parallele, come la gestione del franchise Destiny e la separazione non troppo amichevole con Bungie, ma non è un caso unico e se ci si guarda indietro il biennio 2018/2019 rischia davvero di passare alla storia come un periodo buio dal punto di vista umano. Sempre per restare in tema di persone lasciate a casa da un giorno all’altro, più o meno contemporaneo all’affaire Blizzard, anche ArenaNet ha annunciato di voler calare la scure per contenere delle spese non più sostenibili, con un rosso causato del declino dei loro progetti più celebri – uno su tutti, Guild Wars 2.

L’epitaffio più ingombrante per questa (non)cultura del lavoro porta scritto però Telltale Games e risale a fine 2018. Nessun pre-avviso, nessuna discussione aziendale, ma solo una rapida riunione in cui  – a sorpresa, stando alle dichiarazioni di alcuni impiegati – il CEO Pete Hawley ha annunciato la chiusura dei battenti. Basta riprendere in mano alcuni tweet scritti da chi ha subito questo improvviso licenziamento per capire come la situazione sia stata davvero drammatica e gestita in modo pessimo: “nessuna delle mie notti insonni o delle lunghe ore del weekend a provare a far uscire un gioco in tempo mi ha fatto avere la mia liquidazione, oggi. Non lavorate del tempo extra a meno che non siate pagati per farlo, tutti voi. Proteggete la vostra salute. Alle compagnie non frega niente di voi.” – Breandon Cebenka, ex character artist di Telltale.

telltale games

Non solo licenziamenti

Insomma, quello che ci si lascia alle spalle è una storia di luci e di ombre, capace di produrre tanti successi commerciali quanti fallimenti aziendali. Non si parla solo dei più evidenti e noti casi di tagli del personale, ma anche del clima tossico e dello stress fuori controllo che hanno accompagnato la nascita di alcune fra le più celebri IP di questa generazione giunta ai titoli di coda. A causa dello scandalo scoppiato nel 2018 e che ha toccato temi delicati come sessismo e molestie, Riot – software house che ha dato i natali a League of Legends – dovrà pagare 10 milioni di dollari alle donne impiegate presso l’azienda negli ultimi cinque anni. Oltre a questo risarcimento, Riot ha inoltre dato vita a svariate iniziative con l’obiettivo di combattere la cultura misogina che ha caratterizzato l’azienda e di promuovere il ruolo delle impiegate anche ai livelli più alti. Due toppe che evidenziano con ancora più forza la falla che hanno dovuto riparare.

Quando si parla di cultura del crunch – termine che indica il periodo in genere appena precedente al lancio di un titolo e che prevede ore di sovraccarico lavorativo – Red Dead Redemption 2 ha forse fornito l’esempio migliore. In negativo. Durante una lunga intervista al New York Magazine, il co-fondatore di Rockstar Games Dan Houser ha infatti affermato che, più volte durante l’anno, alcuni membri del team si sono ritrovati a lavorare per circa cento ore alla settimana. Nonostante la correzione del tiro e le svariate precisazioni, la notizia ha destato non poco scalpore, pur essendo ben note queste pratiche utilizzate da molte software house.

rockstar crunch

L’interno degli uffici di Rockstar Lincoln

Gli strascichi

Questi sono solo alcuni rapidi esempi – e di certo non esaustivi data la complessità dell’argomento – di ciò che ha vissuto l’industria del videogioco durante questi ultimi anni, problemi che possono essere riassunti con il lapidario tweet scritto da Sam Maggs, senior writer di Insomniac Games: “un irragionevole numero di colleghi nei precedenti lavori l’ha finita in assistenza medica per lo stress – hanno lavorato oltre i loro limiti, fino al punto in cui hanno raggiunto un vero e proprio malanno fisico, per mesi. QUESTO NON VA BENE. Smettetela di idolatrare questa cosa.” Il modello non è umanamente sostenibile. Agli obiettivi imposti dai vari amministratori delegati e alla fede incrollabile nel valore azionario occorrerebbe quindi anteporre la qualità del prodotto, l’esatto opposto di quanto fatto ad esempio da Electronic Arts con Anthem – e i risultati sono evidenti.

E quindi?

Noi appassionati sentiamo un brivido d’orgoglio quanto leggiamo gli annunci trionfalistici che dipingono l’industria del videogioco come il settore più redditizio nel mondo dell’intrattenimento, eppure rispetto ai “cugini” con più storia alle spalle chi lavora in questo settore è spesso soggetto ad una totale deregolamentazione – soprattutto in USA – e, nonostante gli investimenti crescenti e una platea sempre più vasta, gli sviluppatori sono spesso trattati alla stregua di risorse da accantonare all’occorrenza.

I numeri emersi da una survey condotta durante l’ultima GDC parlano chiaro e sono anche il punto da cui ripartire: il 44% degli sviluppatori intervistati ha affermato di lavorare più di 40 ore a settimana e circa il 20% ha toccato picchi di oltre 60 ore lavorative nei periodi più stressanti. Il problema è evidente in questi numeri ed è causato anche – ovviamente non solo – da vuoti legislativi, forme di garanzie che, sempre nella stessa indagine, il 50% ritiene invece possibili tramite la sindacalizzazione del settore.

La questione è ampia, i videogiochi sono una materia molto complessa e durante il loro sviluppo possono sorgere imprevisti difficili da inserire in una tabella Excel con orari fissi e immutabili, ma queste problematiche non devono servire come alibi.

Babbo Natale, se i rinvii significano non stare in ufficio per quindici ore, dammi più annunci di questo genere.

Il titolo è chiaramente provocatorio e serve solo a gettare luce sulle pessime pratiche utilizzate da molte software house in questi ultimi anni, che si tratti di uno studio semi-indipendente o di una casa che sforna tripla A dal budget faraonico. Per fortuna qualcosa si sta muovendo e c’è una presa di coscienza sempre più forte su come viene gestito il lavoro di chi crea quello che passa sui nostri schermi – condizioni professionali che dovranno essere per forza di cose affrontate nel futuro imminente.

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Commento

Il titolo è chiaramente provocatorio e serve solo a gettare luce sulle pessime pratiche utilizzate da molte software house in questi ultimi anni, che si tratti di uno studio semi-indipendente o di una casa che sforna tripla A dal budget faraonico. Per fortuna qualcosa si sta muovendo e c'è una presa di coscienza sempre più forte su come viene gestito il lavoro di chi crea quello che passa sui nostri schermi – condizioni professionali che dovranno essere per forza di cose affrontate nel futuro imminente.