Sony, prenditi la responsabilità di guidare il gaming

La generazione di PS5 è iniziata come una lunga partita a scacchi, ma un player così grande non può, e non deve, accontentarsi.

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a cura di Paolo Sirio

L'ultimo State of Play non è stato un grosso problema in sé, può capitare – specie di questi tempi – di impostare un evento su delle premesse sbagliate e proporre qualcosa di molto deludente persino per quelli che non nutrissero grosse aspettative, ma analizzarlo è di particolare interesse se lo consideriamo come l'immagine di una Sony che si sta accontentando di andare laddove la porti il vento anziché sfruttare la sua posizione dominante per plasmare una nuova generazione costituente per il gaming.

Il ciclo di PS4 ha rappresentato per la casa giapponese uno spartiacque in cui si è portata sensibilmente in vantaggio rispetto alla concorrenza e lo ha fatto imponendo una propria visione di videogioco che, alla lunga, si è dimostrata più vicina ai desiderata degli appassionati rispetto a quella di competitor come Microsoft, lungimiranti (forse troppo) ma poco in contatto con le realtà dei propri fan.

Quella Sony in grado di dettare il passo all'industria sembra ormai un ricordo del passato: complice la volontà di giocare semplice, perché con PS4 ha funzionato e perché dopo una vittoria storica – il passato insegna – segue sempre un'arzigogolata e roboante sconfitta, il platform owner pare aver tirato i remi in barca e stabilito che PlayStation 5 si limiterà a cavalcare l'onda lunga della console che l'ha preceduta, senza imprimere un altro shock al settore.

Visivamente, Jim Ryan e i suoi, uomini nuovi di PlayStation, hanno provato a dare l'idea di un cambiamento che precedesse la noia: una console tutta bianca per la prima volta nella storia del marchio e il DualSense che, anziché accontentarsi di seguire la buona evoluzione del quarto DualShock, ha cambiato tutto – a cominciare dal nome.

Nei fatti, però, PS5 sta dimostrando di voler soltanto rispondere ai colpi che arriveranno, se arriveranno, dai diretti concorrenti, facendosi guidare nello stabilire se e quando fare un evento, se e quando dovrà offrire un servizio ai consumatori, se e quando ampliare la propria strategia di vendita, se e quando dovrà alzare l'asticella dei contenuti.

Insomma, è l'eterna risposta del capofila che schiaccia sull'acceleratore solo nel momento in cui vede l'avversario negli specchietti retrovisori, una posizione da un lato già vista in passato e comprensibile per chi probabilmente non ha niente da temere a livello di leadership, ma anche una alquanto deludente per un'azienda che ha dato l'impressione nella scorsa generazione di capire meglio di chiunque altro i giocatori e di saperne intercettare i bisogni prima dei diversi attori dell'industry.

Se non hai niente da dire...

Non abbiamo niente da insegnare a Sony in materia di comunicazione – né noi stampa, né voi lettori – e del resto la situazione in cui ci siamo trovati con PlayStation 5 soltanto pochi mesi fa va contro, in un certo senso, quanto siamo per dire: nel 2020 abbiamo chiesto a gran voce eventi che facessero luce sui piani della compagnia per la console next-gen, quando ancora non sapevamo data di lancio e prezzo, mentre adesso ci ritroviamo a ricordarle che se non hai niente da dire, è meglio non dire niente.

Lo State of Play andato in onda il 25 febbraio è un grosso reminder che tante volte il silenzio causa scontento, genera confusione, ma dire cose e fare esibizioni sottotono fa ancora più male. L'ultimo appuntamento con PlayStation ha dato l'impressione che il brand giapponese non avesse nulla da dire, e che avrebbe tranquillamente potuto saltare questa data in favore di un momento più propizio.

Sony sa bene, e lo abbiamo ricordato di recente, che quando si muove lei è subito “E3”; è subito una circostanza dalla quale i fan si attendono risposte di tutti i tipi, dal concreto al sogno irrealizzabile se non dalla casa nipponica, e questo genere di episodio – contingentato per di più abbastanza male – rappresenta sia una caduta di stile, sia un abbassamento di uno standard elevatissimo.

Per dire, un altro State of Play così e una serie già abbastanza inflazionata dagli ultimi appuntamenti potrebbe presto fare la fine di Inside Xbox, un marchio dal quale abbiamo imparato a non aspettarci niente di che quando si presenta al grande pubblico (tant'è vero che la stessa Microsoft ha capito che sarebbe stato il caso di metterlo da parte). Si era parlato di dieci titoli e tanti “slot” sono stati bruciati per materiale che, ai tempi d'oro, non sarebbe stato neppure affidato ad un trailer infrasettimanale.

Avevamo aspettative basse e le avevamo esposte in un articolo-gioco con le nostre previsioni, basate sulle linee guida fornite al reveal dell'evento: ci sarebbero stati titoli già visti all'esibizione dello scorso giugno e annunci ma, pur tenendo i piedi ben piantati a terra (abbiamo visto gente pronosticare un God of War Ragnarok veramente senza alcuna cognizione di causa), ne abbiamo presi soltanto cinque – Kena, Deathloop, Returnal, Final Fantasy VII Remake per PS5 e Solar Ash. Un po' poco, specie in relazione al fatto che erano stati promessi “annunci” e che la parte riguardante questi ultimi sia stata abbastanza inspiegabilmente esigua.

Chiunque organizzi questo genere di appuntamenti dovrebbe prendere nota: aggiornamenti di giochi già noti come Crash Bandicoot 4: It's About Time non è il caso che abbiano spazio in eventi simili, dal momento che non costituiscono una notizia; titoli visti e rivisti come Oddworld Soulstorm non dovrebbero farsi il giro degli showcase (è ormai ospite fisso di PlayStation ed era stato solo poche settimane fa da Epic Games Store) perché, soprattutto con le difficoltà tecniche dovute al COVID-19, è rarissimo che abbiano qualcosa di sensato da mostrare.

Solo risposte

Nel suo essere un appuntamento di poco conto, per il quale non gettare la croce addosso a nessuno, lo State of Play è però piuttosto emblematico di come Sony si stia muovendo dalla fine della scorsa generazione. Il gigante di Tokyo sta tenendo un profilo che più basso non si può, limitandosi a rispondere come in una lenta partita a scacchi ai colpi – pure loro relativamente deboli, ben inteso – degli avversari.

Il fattore nuovo che è emerso a febbraio è che PlayStation sta cominciando a sentire l'esigenza di rispondere non più soltanto a Microsoft, che sarà ferma anch'essa fino almeno al prossimo marzo (quando celebrerà in grande stile l'ufficialità dell'acquisizione di Bethesda – la buttiamo lì, con magari Starfield annunciato per il 2021), ma anche a Nintendo. L'evento di questa settimana è in effetti una risposta raffazzonata al Direct di pochi giorni prima.

Ovviamente, preparare un evento digitale del genere richiede tempistiche tali che pensare che la lavorazione dello State of Play sia stata avviata solo dopo aver visto la messa in onda del Nintendo Direct sarebbe fallace, eppure è evidente come Sony abbia voluto quantomeno replicare, mettersi in competizione, occupare lo stesso spazio della Grande N forse per la prima volta in anni – probabilmente perché inizia a temere di stare giocando per lo stesso obiettivo, se non altro da un punto di vista mediatico.

Non sappiamo quanto la scelta di provare a competere con Nintendo sia saggia, dal momento che l'ultimo Direct ha avuto praticamente dieci volte i contenuti del SoP di pochi giorni fa e ci abbia fatto uscire con una lista della spesa enormemente più lunga (segno che l'interesse suscitato dai singoli giochi, per quanto soggettivo, sia stato assai più grande); è naturale che sia così, visto che PS5 sta ancora emettendo i primi vagiti quando Switch ha compiuto ormai quattro anni ed essendo nel pieno del suo ciclo vitale si stia giocando la partita con una maturità sensibilmente superiore – per quanto, a questo punto comicamente, in un biennio che in tanti ritengono sia al ribasso.

Ma è dalla prima apparizione di PlayStation 5 che Sony sta rispondendo; ogni sua mossa è stata la risposta a quella di un competitor (finora Microsoft), spesso attesa con nervi saldissimi o persino chiamata, in modo da poter controbattere nella sicurezza di conoscere già la strategia del concorrente e potersi adeguare per tempo. È così che è nato il tardivo reveal del prezzo della console, è così che è stato deciso che il lancio della console, nonostante una preparazione affrettata di cui ci siamo accorti (non solo) dai problemi del sistema operativo, si sarebbe celebrato nel 2021: perché Xbox Series X sarebbe uscita quest'anno e a 499,99 euro.

I soli momenti di aggressività, e della ferocia che ha portato PlayStation 4 a giocare pressoché da sola nel campo dei tripla-A impostando un livello di qualità next-gen ampiamente prima che la next-gen stessa fosse presentabile, si sono intravisti nei momenti delle risposte disperate: poiché nel complesso Sony disperata non è, tutt'altro, un raro esempio è stato il timido passo fatto con PlayStation Plus Collection in cui campo, quello dei servizi, dove Xbox Game Pass cominciava a settare uno standard nelle aspettative dei consumatori dal quale la compagnia giapponese era troppo lontana; lo stesso dicasi per l'accelerata su PS Plus, con i titoli PS5 che sono arrivati a dare manforte molto prima rispetto a quanto non capitò con PlayStation 4 dal 2013 in poi.

Una storia di adeguamenti in corsa

Sony non è nuova a dimostrare una certa reattività ai movimenti dell'industria e proporre soluzioni che vi si adeguassero in corsa: il caso di PS Move, ad esempio, fece un grande scalpore perché al tempo fu letto come un volgare rip-off di Wii Remote, ma intanto rispose ad un'esigenza che si stava facendo largo nei videogiochi, quella dei controlli di movimento, ed è stata in grado di riadeguare quella stessa periferica, una volta spenta l'onda lunga del motion gaming, per i bisogni della realtà virtuale.

Ultimamente, però, gli adeguamenti in corsa stanno diventando forse un po' troppi per un'azienda che avrebbe tutto il diritto – con ogni probabilità persino il dovere, per la forza mediatica e la popolarità di cui dispone il suo marchio, e per il ruolo di leader che la scorsa generazione le ha attribuito – di indicare la direzione di un'intera industria.

Dovrebbe dettare la linea, non seguirla; dovrebbe innovare, non adattarsi, e con PS4 un piccolo grande esempio delle proprie potenzialità è arrivata, al di là della potenza delle sue esperienze story-driven, dall'introduzione del tasto Share su cui Switch e Xbox Series X|S hanno dovuto gradualmente fare capolino.

Principalmente perché questi adeguamenti spesso portano a storture che sono difficili da spiegare, e le cui conseguenze abbiamo visto trascinarsi pure (ma non solo) nello State of Play di questa settimana. Sony ha seguito la rotta tracciata da Microsoft sul cross-play e capitalizzato la buona reazione del pubblico alle mosse di Xbox sul cross-gen tra One e Series X|S; lo stesso era successo ai tempi di Xbox Play Anywhere, quando sempre Redmond aveva avuto la funzione di autentica nave rompighiaccio nel mondo del PC gaming, portandovi in simultanea esperienze prima ritenute appannaggio esclusivo delle console.

Adesso nessuno più ci vede qualcosa di male nel portare Days Gone su PC (semmai, la stranezza è annunciarlo sotto voce dalle pagine di un magazine generalista: a proposito di prendersi la responsabilità), e nemmeno fa scandalo vedere annunciato come se niente fosse Monster Hunter Rise in origine riservato a Switch pure su quella piattaforma. Il merito di questa “normalizzazione” va evidentemente a Microsoft, che per fortuna ha avuto le spalle forti per resistere alle critiche che le sono piovute addosso facendo il bene dell'industria - avere l'appoggio del PC, la piattaforma più popolata al mondo dopo gli smartphone, costituisce un supporto finanziario senza precedenti per il settore, in un momento in cui i costi di sviluppo lievitano e le console sono difficili da recapitare nelle case dei gamer.

Sony ha abdicato a questo ruolo di guida e la confusione in materia di PlayStation Plus dello State of Play (Oddworld Soulstorm solo su PS5, per quanto vada sottolineato come possiate riscattarlo anche se non doveste avere la console next-gen; Final Fantasy VII Remake solo su PS4 con upgrade inspiegabilmente bloccato) è la dimostrazione che non avere una visione di sistema su certi temi fondanti, ma limitarsi semplicemente ad “ispirarsi” a quella degli altri, non fa il bene della propria piattaforma. Una querelle, questa, che peraltro non si confà davvero a chi ha introdotto il concetto di cross-buy tra PS3, PS4 e PS Vita nemmeno in tempi non sospetti.

In conclusione

È evidente come Sony sia, per paradosso al contempo, la compagnia che più di tutte sta pagando la stasi in cui si ritrova l'industria (per il COVID-19, per la crisi dei semiconduttori, e non solo) e quella che, grazie al tesoretto accumulato nella passata generazione, può ammortizzarla meglio.

Al di là di queste considerazioni, però, lo State of Play cui abbiamo assistito in settimana non fa altro che confermare le impressioni che vi abbiamo proposto di recente: Sony ha bisogno di un cambio di marcia per tenere fede agli standard elevatissimi che ha impostato con la seconda parte del ciclo vitale di PS4 e dare una prospettiva alla sua base d'utenza, già arrabbiata per la scarsa reperibilità di PlayStation 5.

Questo passo falso perdonabile sarebbe ben poca cosa rispetto a se, rispetto a quando i giocatori dovessero scoprire che, oltre la cortina di fumo alzata dai sequel di Horizon e God of War, la generazione che sta appena iniziando non fosse all'altezza delle loro (esagerate? Alimentate) aspettative.

E questo tipo di “incidente diplomatico” lo si può evitare soltanto riprendendo il timone in mano e accettando, ancora una volta, di guidare l'industria nella direzione impressa da PlayStation.

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