C'è stato un tempo in cui bastava nominare un titolo per associarlo immediatamente a una console. Era un automatismo, un riflesso condizionato costruito nel tempo: se dicevi Halo, pensavi a Xbox. Se dicevi Uncharted, era PlayStation. Se pronunciavi Zelda, l'immaginario correva dritto a Nintendo. Le esclusive erano più di semplici giochi limitati a una piattaforma.
Erano bandiere. Simboli. Manifesti identitari.
Oggi, quell'epoca sembra sempre più lontana. Con l'annuncio dell'arrivo di Gears of War: Reloaded anche su PS5, Microsoft ha definitivamente abbattuto un altro pilastro del concetto di esclusiva.
Un tempo bastione di difesa della propria identità, ora il brand Xbox sembra voler scardinare il proprio passato per abbracciare un futuro in cui tutto è condivisibile, replicabile, vendibile.
Ma a quale prezzo?
Il lento declino dell'esclusiva
Le avvisaglie c'erano tutte. La strategia multipiattaforma di Xbox ha cominciato a farsi sempre più presente negli ultimi anni. Prima con i giochi "Play Anywhere", poi con l'espansione su PC, infine con i primi esperimenti su console rivali (pensiamo a titoli come Minecraft e Ori and the Blind Forest, arrivati molto presto su Nintendo Switch). Ma l'approdo di Gears of War su PlayStation non è un semplice passo avanti: è uno spartiacque.
Perché Gears of War non è solo un franchise qualsiasi. È, insieme a Halo e Forza (anch'esso sbarcato su console PlayStation, con notevole successo), uno dei tre pilastri storici dell'identità Xbox.
Portarlo sulla console "rivale" è una scelta che grida discontinuità, che rompe definitivamente con il passato. Non si tratta più di un'operazione strategica: è una dichiarazione ideologica.
Questa svolta arriva peraltro in un momento cruciale per l'intero settore. Il mercato dei videogiochi sta affrontando una transizione non solo tecnologica, ma culturale. Cloud gaming, servizi in abbonamento, intelligenza artificiale nei processi produttivi: ogni tassello di questo nuovo ecosistema spinge verso una smaterializzazione del concetto di console come "luogo fisico" dell'esperienza.
Questa decisione è l'ultimo passo verso un mondo videoludico sempre più omologato, dove le differenze tra ecosistemi vengono sistematicamente smussate in nome di un accesso totale.
L'idea è chiara: tutti devono poter giocare tutto, dovunque. Un'idea nobile in apparenza, democratica nel suo spirito, ma che nasconde un effetto collaterale pesante: la perdita di identità.
Se ogni console offre gli stessi giochi, con le stesse esperienze, con gli stessi controller simmetrici e le stesse UI clonate, allora perché scegliere una piattaforma piuttosto che un'altra? Diventa solo una questione di abitudine o di potenza hardware.
Ma non c'è più quel senso di appartenenza, quel legame emozionale che ha sempre distinto i giocatori PlayStation da quelli Xbox o Nintendo.
In questa nuova configurazione, il valore distintivo non è più la libreria esclusiva o l'ecosistema proprietario, ma piuttosto il "servizio". Xbox spinge su Game Pass (che trovate su Amazon, tra le altre cose). Sony ha risposto con i suoi tier di abbonamenti. Nintendo si àncora ai suoi classici e alla nostalgia.
Ma l'anima del videogioco come esperienza unica, irripetibile, contestualizzata in una piattaforma, è sempre più sbiadita.
Il gusto perduto della differenza
Un tempo, scegliere una console era come scegliere una squadra, una fazione, un ideale. Le esclusive erano parte integrante dell'offerta, ma anche della narrazione, della cultura videoludica. Non era solo questione di marketing: era identità.
Kratos non poteva stare su Xbox, così come Master Chief non sarebbe mai potuto apparire su PlayStation.
Era una distinzione che creava valore, dibattito, ma soprattutto attesa. Perché l'esclusiva, in quanto tale, generava desiderio. Alimentava le community, faceva crescere l'hype, aggiungeva un sapore speciale all'uscita di un titolo.
Oggi, invece, viviamo nell'era del tutto e subito, del tutto per tutti. Un'abbondanza quantitativa che, paradossalmente, impoverisce qualitativamente.
La saturazione del mercato, con titoli che escono su più piattaforme in contemporanea, toglie respiro alla narrazione. L'evento si annacqua. Il day-one perde significato. L'hype si consuma in fretta, come un contenuto social che dopo due scroll è già vecchio.
Quando tutto è ovunque, niente è davvero speciale.
La democratizzazione dell'accesso ha portato a una neutralità estetica, contenutistica e narrativa che rende l'offerta videoludica sempre più uniforme. E la decisione di Microsoft di portare Gears su PS5 è solo l'ultimo segnale di questa deriva.
Non si tratta di nostalgia fine a se stessa, né di un cieco conservatorismo – ma di una riflessione sul senso di ciò che stiamo perdendo. Inseguendo il mercato globale, si rischia di cancellare quelle piccole grandi differenze che rendevano il videogioco una forma d'intrattenimento variegata, plurale, divisiva ma affascinante.
È una dinamica che abbiamo già visto in altri ambiti. Pensiamo al cinema blockbuster: stesso cast, stessi effetti, stessi universi condivisi. Tutto riconoscibile, tutto standardizzato. Funziona? Sì. Ma emoziona ancora?
Nel mondo dei videogiochi, il rischio è lo stesso. Gears of War su PS5 potrebbe vendere milioni di copie, certo. Ma quale storia ci racconterà, se non più quella della sua appartenenza?
L'identità, nel gaming, non è mai stata solo un'etichetta. Era una narrazione implicita. Era lo stile grafico di Nintendo, la narrazione cinematografica di PlayStation, la ruvidità di Xbox. Ogni ecosistema raccontava il suo mondo. Con Gears su PS5, quella narrazione viene rimescolata. E rischia di annullarsi.
Gears era la voce roca di Marcus Fenix, l'estetica sporca e muscolare di una guerra disperata. Era un gameplay che non avrebbe potuto essere altro che Xbox, un DNA specifico, codificato nell'immaginario del giocatore.
Vederlo sbarcare su una console diversa genera un cortocircuito simbolico. Non per la qualità del gioco, ma per l'impatto culturale.
Una scelta legittima, ma non indolore
Gears of War su PS5 è una scelta comprensibile dal punto di vista economico. Più pubblico, più vendite, più numeri. Ma ogni numero in più, oggi, è un pezzo di identità in meno. Il confine tra strategia e tradimento, tra apertura e perdita, è sottile. E Microsoft, con questa mossa, ha deciso di oltrepassarlo.
Cosa resterà, fra dieci anni, delle console war? Forse solo i meme. Forse nemmeno quelli. Ma nel frattempo, mentre tutto diventa servizio, algoritmo e accesso universale, vale la pena domandarsi cosa ci stiamo lasciando indietro.
Le console erano molto più che macchine. Erano bandiere. Portatrici di visioni diverse. Di linguaggi, culture, stili. Spegnerle dentro un'industria tutta uguale significa perdere pezzi di storia. E forse, anche un po' di noi.
Chissà se davvero volevamo questo. Chissà se scambiando il sacro fuoco dell’identità per il freddo algoritmo della quantità ci stiamo migliorando, o solo spegnendo. Stiamo davvero evolvendo, o stiamo semplicemente rinunciando? Perché dietro alla parola “accessibilità” si nasconde, in questi casi, spesso una resa, un compromesso.
Forse un giorno giocheremo a The Last of Us o God of War su Nintendo Switch 2, o vedremo un Super Mario Bros. o The Legend of Zelda su Game Pass. Magari lo accetteremo, magari ne godremo. Ma qualcosa, nel frattempo, sarà andato irrimediabilmente perduto.
E il gaming non sarà più lo stesso. E no, secondo me non sarà necessariamente un bene.
Sono andati in direzione dei soldi.
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