Non succede spesso che un singolo videogioco riesca a ribaltare la narrativa dominante di un’intera industria. Ma ogni tanto accade, e quando accade, lo senti. Non è una questione di hype, di marketing o di grafica in 4K. È una questione di silenzio: quello che segue il momento in cui, dopo i titoli di coda, ti rendi conto che hai appena vissuto qualcosa che nessun algoritmo avrebbe potuto scrivere.
Ghost of Yotei (che ho recensito qui) è stato, senza troppi giri di parole, quel tipo di videogioco. E il fatto che lo abbia pubblicato Sony rende tutto ancora più significativo.
Dopo anni di chiacchiere su “esperienze condivise”, “giochi come servizio” e “ecosistemi integrati”, la casa giapponese ha sorpreso tutti tornando alle origini: un grande, epico, monumentale videogioco single player. Nessuna modalità online, nessun pass stagionale, nessun tentativo disperato di trattenerti per sempre. Solo una storia, un mondo e un protagonista. Un ritorno al cuore stesso del videogioco come esperienza personale. Un ritorno, insomma, all’eroe solitario.
Non è una scelta da poco, né un semplice tuffo nostalgico. È una presa di posizione. Perché in un momento in cui l’industria sembra ossessionata dal “tempo medio di sessione”, Sony sceglie di dire una cosa molto semplice e, proprio per questo, rivoluzionaria: il valore di un videogioco non si misura in ore giocate, ma in quanto ti rimane addosso. E Ghost of Yotei rimane addosso, eccome.
Da soli è più bello
Per chi lo ha giocato, l’opera dei ragazzi di Sucker Punch non è solo un sequel spirituale di Ghost of Tsushima, è un’esperienza autoriale, lenta quando serve, contemplativa, quasi meditativa. Un titolo che non ha paura di prendersi il suo tempo, di farci respirare, di lasciarci soli con i nostri pensieri. È un videogioco che ti costringe a ricordare che il silenzio può dire più di qualsiasi chat vocale o matchmaking automatico. E in un’industria che corre verso l’omologazione, non è roba da poco.
Negli ultimi anni, Sony aveva dato segnali preoccupanti. Dopo l’enorme successo di The Last of Us Part II e God of War Ragnarok, le priorità sembravano cambiare: spinta dal successo economico dei live service e dei multiplayer competitivi, la compagnia aveva iniziato a investire in progetti “a lungo termine”. Esperienze pensate non per emozionare, ma per trattenere. Una parola che, nel lessico moderno, è diventata sinonimo di “dipendenza”.
Per fortuna, qualcuno nei piani alti di PlayStation deve aver capito che la magia non si può pianificare con un foglio Excel. Che i videogiochi che restano nella memoria non sono quelli che ti connettono a migliaia di persone, ma quelli che ti isolano in un mondo che sembra parlare solo a te.
Ogni missione, ogni dialogo, ogni scelta ha un peso. Non c’è nulla di casuale, nulla di lasciato alla logica del “contenuto generato proceduralmente”.
È tutto pensato, e si sente. Perché la differenza tra un gioco scritto da una mente umana e uno progettato da un sistema di analytics è la stessa che passa tra una lettera d’amore e una newsletter automatica.
Il paradosso è che, in questo ritorno al single player, Sony è riuscita a essere più moderna di quanto lo siano molte delle aziende che inseguono il futuro. Perché in un’epoca in cui tutti vogliono la “community”, lei ha riscoperto l’individuo. Ha ricordato a tutti che il giocatore non è un dato, ma una persona. Che il videogioco non è un servizio, ma un linguaggio "artistico". E che la solitudine, quando è scelta, può essere una forma di libertà.
Per anni ci hanno raccontato che il single player era morto. Che “la gente non vuole più giocare da sola”, che “il futuro è la connessione”, che “l’esperienza deve essere condivisa”. Poi arriva Ghost of Yotei, fa crollare le vendite dei titoli multiplayer della settimana e dimostra che il pubblico non ha mai smesso di desiderare esperienze intime, profonde, finite. Solo che nessuno gliele dava più.
Perché nel mondo del marketing non c’è spazio per la contemplazione, e nel mondo degli investitori non c’è pazienza per un gioco che non possa essere monetizzato all’infinito.
Ma il successo del titolo di Sucker Punch è lì a ricordarci che la fame di storie non passa mai. Che, anzi, più il mondo diventa rumoroso, più abbiamo bisogno di silenzio. E i single player sono, in un certo senso, il silenzio dell’industria. Quello spazio in cui si smette di gridare per ascoltare. E dove il videogioco smette di essere “contenuto” per tornare a essere esperienza.
Ci vuole coraggio, oggi, per investire in un titolo così. Perché un single player non si costruisce su un algoritmo di engagement, ma su una visione. E le visioni costano. Sono rischiose. Non si testano con i focus group, non si adattano ai trend. Si creano e basta. Ed è per questo che quando Sony torna a credere nel single player, lo fa con il peso e la maturità di chi ha visto il rischio di perdersi e ha deciso di cambiare rotta.
Il risultato è un videogioco che parla la lingua dei classici ma con la grammatica del presente. Un’opera che si prende il lusso di essere autoriale in un mercato che ha trasformato ogni creatività in prodotto. E nel farlo, ci ricorda che la forza di un medium non si misura nella sua capacità di intrattenere, ma nella sua capacità di farci pensare. Ghost of Yotei non è un titolo perfetto, e non vuole esserlo. È imperfetto, a tratti ostinato, volutamente distante dai canoni del “tutto per tutti”. Ed è proprio per questo che funziona. Perché parla con onestà, non con l’intento di piacere.
Quale futuro?
Oggi, mentre il mondo del gaming sembra risucchiato in un eterno presente fatto di aggiornamenti e stagioni, il single player rappresenta un atto di rottura. È il gesto di chi dice: “non voglio restare, voglio finire”. E paradossalmente, è proprio ciò che finisce a restare più a lungo. I titoli che ricordiamo – da Shadow of the Colossus a Red Dead Redemption 2 – non sono quelli che ci hanno intrattenuto di più, ma quelli che ci hanno fatto sentire qualcosa.
La verità è che i videogiochi single player non sono mai stati “fuori moda”. È stata l’industria a decidere che lo fossero, per inseguire modelli di business più redditizi. Ma ora che il castello del “live service per tutti” comincia a scricchiolare, torna a galla la domanda più semplice di tutte: perché giochiamo? E la risposta, ancora una volta, non è “per competere” o “per accumulare punti”. Giochiamo per vivere altre vite, per perderci, per commuoverci, per capire chi siamo quando nessuno ci guarda.
In un’epoca in cui tutto è connessione forzata, il single player è l’ultimo spazio di libertà. È il luogo in cui possiamo ancora sbagliare, senza testimoni. È l’arena dove le emozioni non si misurano in click, ma in silenzi. Ed è per questo che il successo di Ghost of Yotei non è solo una buona notizia per Sony: è una speranza per tutto il settore. Perché finché ci saranno giochi che non hanno paura di lasciarti solo, ci sarà ancora spazio per l’arte nel videogioco.
E in un’industria che vive di rumor e tendenze, il silenzio di Ghost of Yotei suona come un urlo. Un urlo che dice che la solitudine, quando è raccontata bene, può ancora essere il più grande spettacolo interattivo del mondo.