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Pro
- Direzione artistica ispirata e atmosfere uniche.
- Limati tutti gli spigoli del predecessore.
- Sistema di combattimento rinnovato.
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Contro
- Missioni secondarie talvolta ripetitive.
- Qualche piccolo difetto tecnico.
Il Verdetto di SpazioGames
Informazioni sul prodotto

- Sviluppatore: Sucker Punch
- Produttore: PlayStation Studios
- Distributore: Sony Interactive Entertainment
- Piattaforme: PS5
- Generi: Action Adventure
- Data di uscita: 2 ottobre 2025
Certe saghe necessitano del tempo per sbocciare. Non importa quante generazioni passino, quante console si susseguano o quanti trend creativi cerchino di ridisegnare i confini: ci sono storie che restano lì, latenti, pronte a riaccendersi quando qualcuno ha il coraggio di soffiare.
Ghost of Tsushima è stata una di quelle esperienze che hanno lasciato un segno, e il fatto che trecento anni dopo (narrativamente parlando) arrivi Ghost of Yotei su PlayStation 5 non è una semplice operazione commerciale. Non vuole rifare ciò che è già stato fatto, non vuole inchiodarci all’icona del samurai malinconico, ma decide di piegare la storia e raccontare qualcosa che somiglia più a una ferita che a un’epopea.
Se Tsushima era il canto del cigno di un’epoca di transizione, Yotei è la cicatrice che ci ricorda il prezzo pagato per arrivarci.
È un gioco affilato, spietato, e forse proprio per questo più necessario di quanto sembri a prima vista. Ma si tratta davvero del grande ritorno dei titoli single player su console PlayStation?
Una vendetta chiamata Atsu
Al centro di questo racconto non c’è un eroe, né un martire, ma una mercenaria: Atsu. Una donna stanca, troppo stanca per sognare, e con ferite così profonde che nemmeno la neve riesce a coprirle. Diciamolo subito: chi si aspettava l’ennesimo guerriero “zen”, infallibile e carismatico, resterà deluso.
Atsu è sola, imperfetta, logorata. Sedici anni dopo il massacro della sua famiglia, quando il dolore sembrava ormai essersi trasformato in silenzio, decide di intraprendere un viaggio che non ha nulla di catartico o romantico: è un viaggio nelle terre di Ezo, gelide, ostili, infestate di uomini peggiori dei demoni.
L’incipit è quasi brutale nella sua semplicità: il mondo di Atsu non è fatto di onore, ma di sopravvivenza. La sua vendetta non è una parabola epica, ma un istinto animale. Ghost of Yotei mette subito in chiaro che la sua protagonista non combatte per riportare equilibrio, ma per cancellare il dolore, come se fosse possibile strapparlo via a colpi di lama.
Il risultato è una scrittura che colpisce per onestà: niente frasi a effetto, niente patina da film di Kurosawa rifatto per il pubblico occidentale, solo il peso di una scelta che la protagonista deve portare sulle spalle fino alla fine.
La struttura narrativa è scandita dalla caccia a sei fuorilegge, ognuno responsabile di una parte del trauma che ha spezzato Atsu. Ma sarebbe riduttivo definirli semplicemente “boss”. Ognuno di loro è una sfumatura diversa dell’orrore umano: il tradimento, la viltà, la brama di potere, la crudeltà gratuita.
Affrontarli significa affrontare sei modi diversi di concepire il male, sei ferite che vanno riaperte prima di poter essere, forse, guarite.
E qui Ghost of Yotei diventa qualcosa di più di una storia di vendetta. Perché non si limita a metterci davanti a bersagli da abbattere: ci costringe a interrogarci. Vale davvero la pena continuare? È giustizia o solo un’ossessione? Il gioco è abile nel farci sentire il peso di ogni decisione, costringendo Atsu (e noi con lei) a guardarsi allo specchio. Ed è proprio questa tensione morale che eleva la narrazione sopra il semplice “segui l’obiettivo e uccidi il cattivo di turno”.
Il viaggio in Ezo
Ma un gioco del genere vive anche del mondo che costruisce attorno alla sua protagonista. Le terre di Ezo non sono un semplice sfondo da cartolina, ma un personaggio a loro volta. I villaggi innevati sembrano sospesi tra bellezza e disperazione, le foreste scricchiolano come se stessero spiando ogni passo del giocatore, e le tempeste di neve diventano vere e proprie trappole ambientali.
C’è un lavoro di ricerca quasi maniacale nel modo in cui Yotei restituisce il Giappone rurale, severo e al tempo stesso affascinante. Le ambientazioni non sono “fotogrammetria a caso” come a volte capita nei tripla A, ma scenari vivi, pieni di dettagli che raccontano storie anche senza dialoghi.
Gli animali che fuggono al nostro passaggio, gli spiriti che appaiono appena fuori dal campo visivo, le impronte che si cancellano sotto nuove nevicate: tutto contribuisce a farci sentire che stiamo attraversando un luogo che esiste al di là della nostra presenza. Meglio chiarire però che le dimensioni della mappa saranno pressoché le stesse rispetto a quella di Ghost of Tsushima.
La scrittura brilla soprattutto nei dialoghi, essenziali ma sempre pregnanti. Ogni incontro, ogni alleato che Atsu riesce suo malgrado a legare a sé, è un momento di crescita che scava sotto la scorza dura del personaggio. Pian piano la vendetta diventa meno importante, lasciando emergere un tema ancora più potente: la possibilità che anche la solitudine più nera possa conoscere una forma di redenzione.
Ampio respiro, ritmo serrato
Nonostante il tono introspettivo e la lentezza calcolata di certe sequenze, Yotei non dimentica di essere anche un gioco d’azione open world. Gli scontri con i sei fuorilegge sono veri e propri climax narrativi, con coreografie studiate al millimetro e un’intensità notevole.
Ogni scontro è diverso dall’altro, sia per design dell’arena che per approccio richiesto: c’è chi preferisce la brutalità frontale, chi tende agguati, chi ci trascina in battaglie che sembrano più duelli psicologici che scontri fisici. Questa varietà impedisce al giocatore di trovare una “comfort zone” e lo costringe a restare sempre vigile, sempre creativo.
Ovviamente, non è tutto perfetto. Alcune missioni secondarie finiscono per sembrare un po’ ripetitive, come se il team avesse avuto paura di lasciare troppo spazio morto tra un capitolo e l’altro.
L’intelligenza artificiale, specie dei nemici minori, non brilla e a volte basta poco per spezzare l’immersione. Inoltre, qualche calo prestazionale nelle aree più ricche di dettagli (soprattutto durante le tempeste di neve) ricorda che la potenza di PlayStation 5 non è infinita, anche se su PS5 Pro la situazione è decisamente più rosea.
Sono inciampi che non rovinano l’esperienza, ma che impediscono a Yotei di elevarsi a capolavoro assoluto. Ma alla fine, ciò che resta dopo i titoli di coda è la sensazione di aver vissuto un viaggio personale, quasi intimo. L’epicità di Jin Sakai lasciava il posto alla leggenda: qui invece c’è solo una donna che impara a vivere di nuovo. Nessun ammiccamento alle mode del momento, nessuna strizzata d’occhio a trend narrativi occidentali, solo rispetto per la tradizione e per il dramma umano che essa porta con sé.
E poi c'è il lupo: all’inizio dell’avventura, il nostro fedele compagno a quattro zampe non sarà immediatamente sotto il nostro diretto controllo. Vagherà infatti libero per l’ambiente circostante, scegliendo in modo spontaneo se e come intervenire nelle situazioni che il nostro alter ego si troverà ad affrontare.
Questa sua autonomia non lo rende però distante: al contrario, contribuisce a rafforzare l’idea di un legame ancora in fase di costruzione, un rapporto che deve crescere lentamente e che non può essere imposto con la forza.
Col trascorrere delle ore di gioco, ogni gesto condiviso e ogni missione portata a termine fianco a fianco contribuiranno a consolidare il rapporto di fiducia reciproca. Accompagnarlo alla scoperta di nuove tane, assisterlo nel recupero di territori perduti e altro ancora diventeranno azioni decisive, non solo dal punto di vista narrativo ma anche ludico.
Più ci impegneremo a comprenderne l’indole e i bisogni, più il lupo sarà disposto a rispondere ai nostri comandi, rivelando un repertorio di abilità via via più ampio e versatile.
Insomma, anche da questo si capisce che Ghost of Yotei non vuole riscrivere la storia, ma proseguire un discorso interrotto. E lo fa con una cura, un’attenzione ai dettagli e una profondità che meritano di essere vissute.
Sangue e neve
Per concludere, Ghost of Yotei è una lettera d’amore scritta con il sangue sulla neve, un atto di ribellione contro il vuoto narrativo di molti tripla A moderni. È il tentativo di dare voce a chi non ha mai potuto parlare, se non attraverso la lama.
È un racconto di vendetta che si trasforma in una riflessione sulla possibilità di cambiare, di perdonare, di ricominciare.
E in un panorama videoludico dove sempre più spesso ci si accontenta di storie dimenticabili, il coraggio di un titolo che osa essere così brutale, così poetico e così definitivo merita rispetto. Ghost of Yotei non è Ghost Tsushima 2: piuttosto, è la dimostrazione che c’è ancora spazio per titoli single player che non hanno paura di essere veri, anche quando questo significa ferire. E va benissimo così.