«L’era delle meccaniche è finita.» Una frase secca, chirurgica, detta quasi per caso. Nessun proclama, nessun tono messianico. Solo una constatazione, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
A pronunciarla, però, non è un commentatore qualunque o uno youtuber in cerca di click. La dice Fumito Ueda. Uno dei pochi game designer capaci di farci smettere di giocare per un attimo e farci domandare perché stiamo giocando. Uno che non ha mai voluto stupire per vendere, ma ha sempre cercato di toccare qualcosa che stava sotto, più profondo, più fragile.
La frase è arrivata durante una conversazione con Keita Takahashi, il geniale creatore di Katamari Damacy, a proposito del suo nuovo gioco, To a T. Ueda, commentando l’opera del collega, ha ammesso di aver pensato, già da tempo, che l’epoca delle meccaniche rivoluzionarie nei videogiochi fosse conclusa.
Non come critica, ma come evoluzione fisiologica. Un cambio di paradigma. Secondo lui, da ora in poi non si tratterà più di inventare nuovi modi per interagire, ma di raffinare, sublimare e rendere più espressivo ciò che già esiste.
Un’idea lucida. Rassegnata, forse. Ma anche spaventosamente vera.
Perché Ueda, da anni, osserva il panorama videoludico con la calma di chi non deve più dimostrare nulla. E nota, come molti di noi, che l’invenzione è diventata un concetto di nicchia. Che i videogiochi non rischiano più. Che si sono fatti adulti nel peggior modo possibile: smettendo di sognare.
Chi ha memoria della storia recente del medium lo sa bene. C’è stato un tempo, non troppo lontano, in cui un gioco poteva davvero cambiare le regole. Poteva introdurre una meccanica mai vista, ribaltare le aspettative, perfino inventare un nuovo genere. Oggi, quel tempo sembra un’eco lontana. Oggi, ogni nuova uscita è accompagnata da un senso di déjà vu, da una struttura che conosciamo già, da un’interfaccia che sappiamo usare senza nemmeno pensarci. Si gioca sempre meglio, sì, ma si gioca sempre allo stesso modo.
Non è nostalgia sterile, né lamento da boomer digitale. È una constatazione storica e creativa. Ueda non si lamenta, e nemmeno noi dovremmo farlo. Ma dovremmo almeno prenderne atto. Perché c’è qualcosa di inquietante nell’idea che l’innovazione sia diventata un orpello, un’eccezione, una stranezza da trattare con sospetto.
L’industria, nel frattempo, ha imparato a perfezionare. A rendere tutto più fluido, più comodo, più vendibile. Ha costruito mostri tecnici capaci di simulare qualsiasi cosa, e poi li ha messi al servizio di storie tutte uguali. Ha trasformato la novità in rischio, e il rischio in errore.
Ha smesso di sorprendere per non disturbare. E il pubblico, va detto, non ha fatto molto per opporsi. Anzi: ha spesso premiato proprio ciò che era più prevedibile, più riconoscibile, più conforme alle aspettative.
La “maturità” del medium (parola abusata e spesso fraintesa) è diventata un alibi per smettere di cercare. Per trasformare l’esperienza di gioco in un prodotto lucido, ben confezionato, calibrato al millimetro. Ma anche terribilmente codificato. In questo processo, la libertà creativa ha perso terreno.
Non c’è più spazio per la rottura. L’estetica è diventata il rifugio sicuro per mascherare l’assenza di idee. Ci si concentra sul “feeling”, sul tono, sulla direzione artistica, come se bastasse una buona palette di colori e una colonna sonora malinconica per produrre emozione. Ma un gioco non è solo atmosfera. È interazione. È struttura. È, o almeno dovrebbe essere, un linguaggio.
Ueda questo lo sa. I suoi giochi non hanno mai puntato sull’effetto speciale, sulla complessità tecnica, sull’eccesso di contenuti. Anzi, hanno fatto della sottrazione una dichiarazione d’intenti. ICO, Shadow of the Colossus (che trovate su Amazon nell'ottimo remake ad opera di Bluepoint) e quel The Last Guardian uscito fuori tempo massimo: opere che parlavano con il silenzio, che costruivano significato attraverso l’assenza.
Giochi in cui ogni movimento, ogni meccanica, era lì per dire qualcosa. E dove il gameplay non era un’esibizione muscolare, ma un gesto narrativo.
La riflessione di Ueda colpisce anche perché arriva in un momento in cui il videogioco, almeno sulla carta, gode di uno stato di salute invidiabile. Le vendite crescono, gli investimenti aumentano. Ma sotto la superficie dorata si nasconde una certa stagnazione. Una creatività in stallo. Una difficoltà crescente a dire qualcosa di nuovo.
E non per mancanza di talento (ce n’è ancora, e tanto) ma per mancanza di spazio. Di tempo. Di libertà.
Nel frattempo, si continua a parlare di “esperienza”. Parola bella, vuota, comoda. Ma che spesso nasconde la resa. Ci si accontenta di sentire qualcosa, purché non sia troppo scomodo, troppo nuovo, troppo difficile da interpretare. Il giocatore viene vezzeggiato, accompagnato, rassicurato. Si cerca il coinvolgimento emotivo a ogni costo, dimenticando che l’emozione più forte è spesso quella che nasce dallo spaesamento, dalla scoperta, dalla frizione.
Ecco perché le parole di Ueda suonano come un avvertimento. Non perché ci dicono che tutto è perduto, ma perché ci mostrano che qualcosa si è rotto. Non in modo spettacolare, non con una crisi conclamata, ma con un lento scivolamento verso l’indifferenza. Una disaffezione silenziosa, che ha trasformato la meraviglia in consumo, e la creatività in management.
Forse ha davvero ragione lui. Forse è finita un’epoca. Ma il punto più inquietante non è questo. Il punto è che non ce ne siamo nemmeno accorti. Abbiamo assistito a questa fine come si assiste alla fine dell’infanzia: con un misto di nostalgia e sollievo, senza capire davvero cosa abbiamo perso. Abbiamo scambiato la crescita per maturazione, l’efficienza per profondità, la quantità per innovazione.
La buona notizia (se vogliamo chiamarla così) è che nulla è irreversibile. Ogni linguaggio, ogni forma espressiva attraversa fasi di stasi. E spesso è proprio nei momenti più saturi che nascono le rivoluzioni.
Magari la prossima meccanica in grado di cambiare tutto è già nei sogni di un piccolo team sconosciuto. Magari c’è ancora chi, come Ueda, crede che il videogioco possa essere qualcosa di più che un contenuto da monetizzare (qualcuno ha detto Hideo Kojima?).
Ma finché l’industria non tornerà ad ascoltare queste voci, finché il mercato continuerà a premiare ciò che conosce già, finché i giocatori non pretenderanno qualcosa di diverso, sarà difficile uscire da questo sonno. E continueremo a chiamarlo evoluzione, mentre tutto si ripete.
Intanto, Ueda osserva. E dice, senza rabbia ma con lucidità, che è finita un’era. Forse ha solo voluto mettere in parole quello che, in fondo, molti di noi sentono da tempo.
Non resta che decidere se accettarlo. O provare, ancora una volta, a cambiare le regole.