Immagine di Valiant Hearts Coming Home | Recensione - Sangue, lacrime e nessuna gloria
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Valiant Hearts Coming Home | Recensione - Sangue, lacrime e nessuna gloria

L’improbabile alleanza Ubisoft-Netflix riporta in vita Valiant Hearts: Coming Home, per chiudere a distanza di molti anni un cerchio impossibile.

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a cura di Adriano Di Medio

Redattore

Informazioni sul prodotto

Immagine di Valiant Hearts: Coming Home
Valiant Hearts: Coming Home
  • Sviluppatore: Ubisoft Montpellier, Old Skull Games
  • Produttore: Ubisoft
  • Distributore: Ubisoft
  • Piattaforme: MOBILE
  • Generi: Avventura
  • Data di uscita: 31 gennaio 2023

Quasi dieci anni fa, a cavallo tra settima e ottava generazione vedeva la luce Valiant Hearts: The Great War (lo trovate ancora su Amazon, appaiato con Child of Light). Una tragedia disegnata a mano, che con una sola voce narrante e tante immagini ci raccontava con spietata commozione l’orrore della Prima Guerra Mondiale.

A rivederlo oggi, Valiant Hearts pare qualcosa di lontanissimo, la testimonianza di una Ubisoft che non c’è più. Una lettera persa nel buio, assorbita da un’azienda che oggi più che mai ci appare frastornata e disorienta. Eppure, eccolo qua: Valiant Hearts Coming Home, il sequel del “non ci credo”.

Abbiamo avuto modo di giocarlo con calma in queste settimane – e nelle prossime righe analizzeremo quello che abbiamo visto.

Voglio andare a casa… solo non so dov’è

«Sergentmagiù, ghe rivarem a baita?», chiedeva l’alpino Guanin al sergente Mario Rigoni Stern durante i difficili giorni della ritirata di Russia. Pure se in un tempo e in un luogo diverso, la serie di Valiant Hearts faceva questo, soffermarsi su quelle cose che i libri di storia riducono a una frasetta; piccole storie di grandi dolori, gente qualunque strappata ai propri affetti, spedita a rischiare la vita in trincea per un Paese che spesso li odia.

Era il punto migliore da cui ripartire e Valiant Hearts: Coming Home giustamente lo fa.

https://www.youtube.com/watch?v=g6zZmtE870k

Ne sovverte però l’incipit, seppur agganciato direttamente al finale del precedente The Great War: oltre il commovente finale (nessuno spoiler, tranquilli) esso si concludeva all’entrata in guerra degli Stati Uniti.

Alla leva obbligatoria del francese Emile contrappone il patriottismo di James, fratello di quel Freddie che avevamo comandato nel gioco precedente.

Ansioso e cocciuto, James si è arruolato volontario ed è stato inquadrato nel 15th New York National Guard Regiment, unità composta da soli afroamericani che, oltre a essere realmente esistita, sarà poi ribattezzata Harlem Hellfighters per via del suo coraggio e delle azioni eroiche sul fronte occidentale.

Il talento jazz di James, il suo entusiasmo nonché il suo patriottismo, oltre che l’ansia di rivedere il fratello, si scontreranno con una guerra che sta insanguinando l’Europa e che, per l’epoca, era impossibile comprendere senza passarci attraverso.

Un giuoco di comparse

Come ci si aspetta, Valiant Hearts: Coming Home deve rispettare la piccola tradizione di proporre più di una voce. Di quelli che furono rimane solo l’inossidabile Anna: la dottoressa belga non ha ancora esaurito la propria missione di aiutare e salvare le vite che il conflitto brucia.

Gli altri personaggi giocabili sono il pilota britannico George e il sommergibilista tedesco Ernst, oltre chiaramente a James. Ciascuno ha il suo background narrativo e sintetizza un diverso tipo di approccio: Anna come al solito opera e medica i pazienti, James è il combattente, Ernst risolve enigmi ambientali e le scene con George sono basate sull’infiltrazione silenziosa.

Quest’ultimo è anche il personaggio cui sono affidate le sezioni a scorrimento, in cui evitare ostacoli provenienti dai vari angoli dello schermo.

Ecco quindi che tutto il repertorio fissato dal precedente The Great War viene scrupolosamente rispettato da Valiant Hearts Coming Home: è anche qui che però si cominciano a notare alcune anomalie.

L’approfondimento dei personaggi è infatti altalenante, con alcuni incredibilmente esplorati e altri che soffrono o di scarsa caratterizzazione o addirittura di vicende in parte irrisolte.

L’introduzione di personaggi inediti è sì perfetta occasione per esplorare aspetti, temi e contesti diversi rispetto al passato, ma appare anche come sintomo di una celata sofferenza narrativa da parte di Coming Home.

Non solo: persino la mancanza di un antagonista palpabile come era stato il Barone Von Dorf (che, beninteso, era cattivo ai limiti del cartoonesco) finisce con l’apparire strana.

Come nemico resta la Grande Guerra, ancora dipinta come avido demone incorporeo che banchetta con l’umanità di chi vi prende parte. Giustissimo e legittimo, ma in qualche modo anche auto-limitato.

Non si tratta quindi di vere e proprie “crepe” nel muro, piuttosto di una sorta di dipendenza psicologica di questo sequel nei confronti del suo illustre predecessore. Come se gli sviluppatori avessero avuto paura di dire troppo, aggiungere troppo o cercare di distaccarsi in maniera sana da quanto già detto e fatto nel 2014.

Valiant Hearts: Coming Home riserverà comunque il suo consueto pugno nello stomaco: un cazzotto che, seppur meno di impatto rispetto ad altri, è di giusta presenza e impone la riflessione cinica ma necessaria del “qualcuno non impara mai”.

Valiant Hearts: Coming Home: con il touch tutto è possibile

Passiamo ora alla “ciccia”: il gameplay. Anche qui non vi sono grossi cambiamenti: abbandonata qualunque velleità violenta, Valiant Hearts: Coming Home si consolida come un’avventura grafica contaminata con il puzzle ambientale.

La storia è divisa in tre capitoli, ciascuno a sua volta diviso in singoli episodi; nella maggior parte di essi dovremo muovere il personaggio attraverso un’ambientazione chiusa, alla ricerca di uno o più oggetti da combinare per risolvere l’enigma ambientale utile a proseguire.

Oltre a queste cose, ogni personaggio ha appunto sezioni uniche, facenti riferimento alle sue specifiche competenze. James ha dalla sua sezioni a scorrimento in cui andare all’assalto schivando ostacoli e proiettili, George si nasconde dietro apposite barricate nelle trincee e, come al solito, Anna cura.

Per le sue sezioni si è scelto di abbandonare le fasi da rhythm-game in favore di mini-sezioni da risolvere in punta di dito: con un tocco si rimuovono schegge, puliscono ferite e applicano bende. Alcune occasioni segneranno anche l’utilizzo di Walt, l’affettuoso cagnolone che potremo impiegare per azionare leve e recuperare oggetti in punti difficili da raggiungere.

A chiudere il pacchetto, infine, le sezioni a scorrimento e quelle musicali.

Le prime sono affidate a George: lo assisteremo mentre vola con il suo biplano, avendo cura di fargli schivare tutte le minacce (sia nemiche che naturali) che popolano il cielo del fronte occidentale.

Le sezioni musicali sono invece appannaggio di Ernst e James (rispettivamente, violinista e clarinettista). Durante queste piccole sequenze, spesso seminate strategicamente dopo sezioni particolarmente impegnative, dovremo toccare le icone al momento giusto onde suonare insieme all’orchestra.

Momenti unici a parte, i personaggi si controllano tutti con il touch screen: il gioco, oltre a fornire apposite indicazioni su quali gesti compiere con le dita suddivide il controllo in base alla porzione di schermo toccata (alla sinistra è affidato il movimento, alla destra le interazioni) raccomandando inoltre anche la posizione ottimale per giocare.

Tutte soluzioni deducibili e volendo anche già viste, ma che funzionano e permettono al gioco di scorrere senza problema alcuno.

Il problema, se vogliamo, sta da un’altra parte: anche solo dopo pochi minuti è evidente come la difficoltà di Valiant Hearts: Coming Home abbia subito un’ulteriore calibrazione verso il basso, anche più del predecessore. Una difficoltà tale che rende di fatto inutile pure il sistema di indizi, dato che nessuna situazione sarà mai veramente cervellotica.

Valiant Hearts: Coming Home: oltre il Framework

L’originale The Great War era stato realizzato sull’UbiArt Framework, motore grafico proprietario che fondeva in maniera naturale immagini bidimensionali e all’occorrenza scenari in 3D onde simulare prospettive e velocità di fuga.

Per Valiant Hearts: Coming Home si è scelto di passare allo Unity, ma gli Old Skull Games (che hanno sviluppato sotto la supervisione di Ubisoft Montpellier) si sono impegnati a ricreare il medesimo feeling.

Una scelta che non possiamo che lodare, in quanto è uno di quei fattori che ha reso Valiant Hearts un’opera senza tempo.

La narrazione stilizzata con simboli e nuvolette, il buio delle trincee, le scenografie ci sono tutte e vi faranno sentire (perdonate il gioco di parole) di nuovo a casa. Anche adesso è incredibile l’emozione che cresce sotto l’ingannevole velo del “gioco coi pupazzetti”, concetto oggi ancor più d’impatto in quanto Coming Home è stato asciugato di tutti quegli intermezzi semi-comici che, ai tempi, qualcuno (tra cui noi) aveva trovato un po’ fuori posto.

I temi musicali sono stati ancora affidati al pianoforte, che di nuovo compie la sua missione in maniera chirurgica: il tema principale è ancora lì, mentre l’accompagnamento di certe sezioni dà davvero la sensazione di ritrovarsi con alcuni vecchi amici che non si rivedevano dal 2014.

L’unica differenza evidente è il fatto che si sia scelto di distribuire Valiant Hearts: Coming Home solo in versione sottotitolata. L’idea potrà piacere o non piacere, ma non escludiamo, visto il suo peculiare metodo di distribuzione, che se il gioco avrà successo Netflix non possa decidere di aggiornarlo aggiungendo anche una traccia vocale italiana.

Gli Alleati degli anni 2020

Infatti, pure se l’originale era nato come produzione interna di Ubisoft, per Valiant Hearts: Coming Home la multinazionale francese ha deciso di fare un accordo nientemeno che con Netflix. Un’alleanza inedita ma prevedibile: sono anni che il colosso dello streaming sta cercando una breccia nel mercato videoludico. Con questo accordo, per giocare Valiant Hearts: Coming Home è sufficiente avere un account Netflix attivo: al primo avvio dell’app basterà inserire le proprie credenziali.

La fruizione di Valiant Hearts: Coming Home, da un punto di vista puramente monetario, richiede quindi semplicemente un abbonamento a Netflix. Una scelta indubbiamente coraggiosa, e che volendo potrebbe in qualche modo contestualizzare molte cose che abbiamo descritto nelle precedenti righe.

Forse Ubisoft/Netflix non ha voluto osare troppo su certi aspetti della trama, oppure insistere su alcuni risvolti di design, proprio per timore di scoraggiare un pubblico sostanzialmente nuovo. O, magari, è per questo che ha ricalibrato la difficoltà e la complessità del gameplay, così da adattarsi di più a una piattaforma indubbiamente più generalista del mondo console e PC.

Versione recensita: iOS

Voto Recensione di Valiant Hearts: Coming Home - Recensione


7.5

Voto Finale

Il Verdetto di SpazioGames

Pro

  • Direzione artistica e approccio alle tematiche inossidabili

  • Design, valore storico didattico e comandi touch di qualità

  • Narrativamente, è la chiusura di un cerchio in cui non speravamo più

Contro

  • Fin troppo dipendente dal predecessore

  • Ancora più corto e fin troppo facile

Commento

È davvero bello che Valiant Hearts: Coming Home esista. Non solo perché è il sequel-completamento di uno dei prodotti più belli in assoluto mai creati dalla Ubisoft, ma anche perché si è scelto di impiegarlo come apripista verso un nuovo metodo di distribuzione – di cui è ancora presto per capire conseguenze e sviluppi, ma che se applicato a videogiochi come lui è occasione per portare alla luce il valore didattico e tematico, oltre che di mero prodotto di intrattenimento, del videogioco. Questo valore però troverà pieno compimento solo se i due videogiochi dovessero essere distribuiti in tandem, in quanto Coming Home manifesta un’evidente dipendenza dal predecessore, che lo rende di fatto poco portato per una fruizione standalone. Una missione che non deve tuttavia mettere il prosciutto sugli occhi e farci soprassedere sui difetti, dalla scarsa durata, la difficoltà sotto-dimensionata e da una trama un po’ “sprecona”; tutti fattori che purtroppo impediscono a Coming Home di elevarsi agli stessi punteggi di eccellenza raggranellati dall’illustre predecessore.
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