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Recensione

Sherlock Holmes: The Devil's Daughter

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Avatar di Gottlieb

a cura di Gottlieb

Pubblicato il 15/06/2016 alle 00:00
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Il Verdetto di SpazioGames

7

Sono trascorsi appena due anni dall’ultima iterazione di Sherlock Holmes, l’investigatore londinese che di presentazioni non ha bisogno: erano i tempi di Crimes & Punishments, ma adesso a Baker Street bisogna confrontarsi con qualcosa di molto più mistico e solenne, che porta il nome di The Devil’s Daughter, la figlia del diavolo. Per riuscire nell’intento, Frogwares ha cercato di potenziare, chiaramente, la formula proseguendo sulla strada che era già stata indicata con i precedenti capitoli, imponendo una chiave open world e cercando di fornire a Sherlock Holmes un impianto più dinamico e allo stesso tempo più volubile, permettendovi di arrivare comunque alla conclusione, ma anche sbagliando strada: non sarà l’infallibilità, insomma, ad accompagnarvi, ma soltanto il vostro acume. 

La figlia del diavoloLa vita di Sherlock Holmes è in pericolo: il detective è in fuga, è preda di un cacciatore che lo insegue con un fucile a canne mozze e cerca in tutti i modi di colpirlo con un proiettile. In una atipica fuga, che vede il protagonista in una versione diversa dal solito, veniamo catapultati 48 ore prima di quanto sta accadendo, tornando a Baker Street, dove tutto nasce e dove tutto, solitamente, finisce. Ci troviamo dinanzi a un caso da risolvere, l’ennesimo per Holmes, accompagnato dal sempre fedele Watson, ma stavolta a condizionare l’incedere e la risoluzione dei cinque casi che ci verranno proposti ci sarà anche Katelyn, la figlia adottiva del detective, affiancata, a sua volta, da una vicina di casa, Alice, decisamente eccentrica e pronta a destabilizzare le decisioni dell’investigatore. La nostra percezione dei sensi resta immutatamente infallibile, ma con i sentimenti che iniziano a lasciare spazio all’affetto per la figlia e al desiderio di famiglia. Pur, quindi, dovendosi impegnare nei cinque casi che gli verranno proposti, Sherlock Holmes dovrà sempre tener conto della figlia, leitmotiv ricorrente per tutta l’avventura, all’inizio o alla fine di ogni episodio, fino all’epilogo della vicenda, che permetterà alla trama non solo di avere un’importante climax ascendente, ma anche una conclusione che innalza il valore della sceneggiatura, di per sé comunque elaborata nella costruzione dei casi che Sherlock andrà ad affrontare. La pecca che, però, si riscontra una volta giunti alla conclusione della nostra esperienza, della durata di circa 15 ore, è che l’epilogo non sia ben contestualizzato con quanto accade prima. Sherlock a più riprese si ritrova a dover giudicare la vita o la morte, persino quella di una bambina, figlia anche lei come la sua Kate, ma tutte le scelte compiute, le decisioni prese, non vanno a inficiare l’epilogo, non ne mutano la risoluzione né altro: la fase conclusiva, quindi, rassomiglia di più a un caso a sé stante, piuttosto che a una summa di tutto ciò che abbiamo visto nel corso della nostra quotidianità di investigatori. Pur rimanendo, quindi, a nostro parere di buona fattura, il finale dell’avventura poteva e doveva essere amalgamato meglio nel contesto generale.

Profili fallibiliLe meccaniche del gameplay dinanzi alle quali ci siamo trovati sono per lo più quelle che ben conosciamo, inficiate stavolta da una macchinosità che non è propria dei nostri tempi e della nostra generazione: quasi come se ci trovassimo in un enorme evento scriptato, il dover procedere secondo uno schema prestabilito per poter arrivare alla conclusione che magari abbiamo sotto ai nostri occhi è snervante, pur essendo fisiologico del genere di videogioco dinanzi al quale ci troviamo. Il non poter, però, nelle primissime battute di gioco, entrare in un bar se non prima di aver realmente capito che bisogna proseguire le nostre indagini in quel locale snerva non poco, tanto per fare un esempio. Venendo al cuore, però, del gameplay arriviamo facilmente a quelle che sono le deduzioni e le decisioni che Sherlock dovrà prendere: l’intento degli sviluppatori è quello di mettervi dinanzi a una grande mappa concettuale che si andrà a formare di volta in volta dopo non solo aver rintracciato gli indizi, ma dopo averli anche uniti tra di loro per trovare le deduzioni che vi servono per la risoluzione del caso. Il tutto vi condurrà ad avere non pochi dubbi, perché il sistema di ricerca e di elaborazione dei dettagli non vi lascerà mai pensare di essere nel giusto o nel torto: il rischio, pertanto, di commettere un errore è dietro l’angolo. Lestrade non vi fermerà mai, lasciandovi andare per la vostra strada e lasciandovi compiere il destino dei malcapitati, fidandosi ciecamente di quelle che saranno le vostre deduzioni, in qualità di esperto consigliere. Rispetto a quanto visto nell’ultimo capitolo, che ricordiamo essere il già citato Crimes & Punishments, Sherlock può affidarsi anche all’Imagination Mode: una sorta di lente d’ingrandimento che bloccherà il tempo e vi permetterà di analizzare a fondo il profilo di chi state interrogando o incontrando. I profili, anche in questo caso, possono essere completi o errati, ma tutte le osservazioni cui arriverete vi serviranno come prove in sede di interrogatorio, per controbattere eventuali sotterfugi o dichiarazioni menzognere. Chiaramente in caso di errore non avrete la possibilità di tornare indietro, né di analizzare una seconda volta la persona che vi sta dinanzi: il meccanismo, insomma, è punitivo e si ritorce soprattutto in fase probatoria, quando dovrete effettivamente arrivare a una conclusione piuttosto che a un’altra. Se in passato, quindi, il gameplay puntava al farvi arrivare alla conclusione giusta per poter procedere nella vostra indagine, stavolta la procedura è completamente diversa, legata a quel leitmotiv che abbiamo citato già in apertura di disamina del gameplay: non importa se indovinate o meno, perché tutti si fidano di voi, pertanto l’errore è dietro l’angolo. 

Londra a nuvole aperteTra le novità che maggiormente ci colpiscono rintracciamo innanzitutto la natura open world dell’intera avventura, ma anche le meccaniche che sono molto orientate all’azione, senza doversi ancorare necessariamente alla natura punta e clicca che le indagini di Sherlock hanno solitamente. Alcune sembrano riuscite, altre invece non ci hanno del tutto convinto, tra cui il pedinamento che nel primo episodio dobbiamo compiere nei panni di Wiggins: dandoci l’impressione di ritrovarci in un Assassin’s Creed di una generazione fa, la fase stealth è stata molto rudimentale e abbastanza incerta nell’elaborazione, così come quella nei panni del fido cane Toby, che non ha fornito né una variante al gameplay, né ci ha dato soddisfazione nei suoi pochi minuti di durata. Allo stesso modo Sherlock ha avuto modo di confrontarsi, nel corso della nostra esperienza, con alcune sessioni action che si esauriscono nel dover saltare, in maniera del tutto scriptata, alcuni ostacoli, fuggire da un cacciatore che cerca di spararci – nominato già poc’anzi – o anche districarsi in alcuni combattimenti che si sono affidati a dei QTE molto basici e per niente elaborati. E forse anche frustranti, in alcuni frangenti. La natura open world di cui parlavamo prima, poi, si è lasciata apprezzare soltanto nei primissimi minuti della nostra avventura, più per curiosità che per reale necessità di lanciarci nelle strade di Londra: al di là, infatti, di qualche sporadica indagine da compiere per strada, alla ricerca di indizi o di obiettivi da raggiungere, il viaggio rapido tramite la mappa apposta nel diario di Sherlock ha rapidamente sostituito il nostro correre sui sampietrini o il nostro adagiarci su una carrozza pronta a coprire la distanza da Baker Street a qualsiasi altro posto nel mondo. Una novità, quindi, che per quanto pare potesse tracciare un cambiamento radicale, si è dimostrata semplicemente un vezzo che non ha aggiunto molto al contenuto finale. Disamina che si può accostare anche alla possibilità di cambiare il look del protagonista, altro aspetto incredibilmente scriptato e realmente utile soltanto in due occasioni. 

È questo il 2011?Arriviamo a quelle che sono le note più dolenti di Sherlock Holmes: the Devil’s Daughter, che rispondono al nome di Unreal Engine 3. La scelta di Frogwares è tragicamente incomprensibile e assolutamente fuori dai dettami della generazione, che non può assolutamente giustificare un’imprecisione tecnica di questa portata. Da tal punto di vista l’intero titolo è incredibilmente instabile, con cali di framerate troppo frequenti, inficiato da dei movimenti eccessivamente legnosi di tutti i protagonisti, da Sherlock a Watson, passando persino al cane Toby, i cui spostamenti non sono assolutamente credibili. Se i vari personaggi, quindi, rispetto a due anni fa sono leggermente più dettagliati – oltre a essere cambiati, soprattutto per quanto riguarda Watson – l’intera Londra non ci entusiasma, sia per il suo essere limitata nell’esplorazione, sia per il suo essere poco avvezza al dinamismo. Caricamenti ancora troppo lunghi, una quantità di tearing eccessiva e un’interazione con l’ambiente nulla inficiano quello che doveva essere il cuore dinamico del prodotto, che invece si dimostra soltanto un buon punta e clicca alla ricerca della risoluzione di un enigma: se Frogwares avesse creato un tavolo di lavoro sul quale appoggiarsi per analizzare tutti gli elementi in gioco avrebbe sicuramente divertito e offerto una valida esperienza, ma l’indecisione nello sviluppare un prodotto che nelle intenzioni ha quelle di muoversi con dinamismo e con prontezza, dimostra di avere ancora molto da imparare.

– Ottimi gli enigmi e i puzzle, mai ripetitivi

– Buona durata complessiva

– Scenario convincente, epilogo accattivante…

– … ma mal contestualizzato

– Troppo instabile tecnicamente

– Nuove fase action mal inserite

7.0

Sherlock Holmes: The Devil’s Daughter è una buona avventura, mantenuta in piedi da cinque casi che hanno qualcosa da raccontare e che dal punto di vista etico riescono a colpirvi, fornendo anche diversi enigmi, variegati e poco ripetitivi. Gli ottimi puzzle, però, non riescono a essere impreziositi da quelle che dovevano essere le nuove meccaniche action, che invece rallentano e ridicolizzano l’intera produzione: puntavano al cambio di ritmo, ma invece non fanno altro che annoiare il videogiocatore, la cui esperienza è bersagliata e tartassata anche dai tempi di caricamento, che come abbiamo già detto risultano essere eccessivamente lunghi e fastidiosi. Si potrebbe riassumere l’intera esperienza come un’occasione persa, là dove Frogwares avrebbe dovuto e potuto fare di più dal punto di vista tecnico e nella contestualizzazione dello scenario sull’epilogo. La figlia del diavolo meritava di più per il suo colpo di scena.

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