C'è un nome, che per chi come me è appassionato e ama i videogiochi, evoca sentimenti contrastanti come nessun altro: Peter Molyneux. Per alcuni, è un pioniere, un visionario che ha letteralmente inventato generi e spinto i confini del possibile.
Per altri, è il simbolo della promessa non mantenuta, un incantatore di folle le cui ambizioni straripanti si sono troppo spesso infrante contro la dura scogliera della realtà.
Chiaramente raccontare la sua lunga storia professionale non significa solo elencare una serie di giochi; significa esplorare la natura stessa del sogno, dell'hype e del delicato, quasi sacro, patto di fiducia tra un creatore e il suo pubblico.
La sua, la potrei quasi definire una parabola shakespeariana, un'epopea di ascesa, gloria, tracotanza e caduta. Per comprendere l'uomo e il suo controverso lascito, dobbiamo tornare agli inizi, a un'epoca in cui i videogiochi erano ancora una frontiera selvaggia e un singolo programmatore poteva, con un'idea geniale, creare qualcosa di speciale.
La genesi di un "dio"
Alla fine degli anni '80, Peter Molyneux non era ancora il genio che conosciamo. Era un programmatore che, insieme a Les Edgar, fondò la Bullfrog Productions. Fu da questo piccolo studio britannico che scaturì la scintilla della rivoluzione.
Nel 1989, il mondo vide per la prima volta Populous. Oggi potrebbe sembrare semplice un gioco semplice, ma all'epoca fu una vera e propria epifania per il mercato dei videogiochi.
L'idea di non controllare un singolo eroe, ma di impersonare una divinità che plasma il terreno, scatena disastri e guida un popolo di fedeli, era assolutamente inedita in quell'epoca.
Molyneux non aveva semplicemente creato un gioco; aveva coniato un genere: il "God Game". Noi giocatori, quindi, non eravamo più un motore immobile, ma bensì degli onnipotenti burattinai.
Il successo fu travolgente e Bullfrog divenne ben presto un faro di "innovazione" nel mondo vidoeludico. Ogni titolo sembrava esplorare un concetto radicalmente nuovo. Syndicate ci trasformava in spietati CEO di corporazioni futuristiche, al comando di agenti cyborg in un mondo distopico.
Theme Park ci mise nei panni di un manager di parchi di divertimento, inaugurando un altro filone di successo, quello dei gestionali "Theme" (come anche Theme Hospital). E poi, il capolavoro sovversivo: Dungeon Keeper.
Con il suo motto indimenticabile, "It's good to be bad", il gioco ribaltava ogni cliché fantasy, mettendoci a capo di un dungeon e dei suoi mostruosi abitanti, con l'obiettivo di respingere i fastidiosi eroi in cerca di gloria.
L'era Bullfrog fu la prova inconfutabile del genio di Molyneux. Non era un venditore di fumo; era un architetto di sistemi complessi e idee brillanti, capace di tradurre concetti astratti in esperienze di gioco profonde e indimenticabili.
Fu in questo periodo che si costruì la sua reputazione di innovatore instancabile, un uomo il cui prossimo progetto era sempre avvolto da un'aura di attesa spasmodica.
Lionhead e il peccato originale dell'ambizione
Dopo l'acquisizione di Bullfrog da parte di Electronic Arts, Molyneux sentì il bisogno di una nuova libertà creativa e fondò Lionhead Studios. Fu qui che il Molyneux visionario iniziò a scontrarsi con il Molyneux PR, e dove nacque il "ciclo dell'hype" che avrebbe definito il passo successivo della sua carriera.
Il primo, monumentale progetto fu Black & White. L'idea, come sempre, era mozzafiato. Un God Game di nuova generazione, in cui il giocatore non solo avrebbe governato un mondo, ma avrebbe anche allevato una creatura titanica, un'estensione della propria volontà.
Questa creatura, promise Molyneux, avrebbe imparato dal giocatore. Se avessi compiuto atti di gentilezza, sarebbe diventata un gigante buono.
Se avessi scelto la crudeltà, si sarebbe trasformata in un demone terrificante. Le sue parole dipingevano un'intelligenza artificiale quasi senziente, un compagno digitale la cui evoluzione sarebbe stata unica per ogni giocatore.
Il gioco finale, alla fine, fu affascinante, ma anche goffo e imperfetto. Ma bisogna dare atto che la creatura era impressionante e la sua IA (nonostante fosse spesso frustrante e le promesse di un apprendimento profondo e sfumato si rivelarono esagerate) riuscì a colpire molto i giocatori.
Black & White fu comunque un altro successo, ma può essere anche considerato come anche la prima, grande crepa nell'armatura del genio, perché per la prima volta, il divario tra la visione venduta e il prodotto finale era tangibile.
Questo schema raggiunse il suo apice con Fable. Durante lo sviluppo, Molyneux divenne un ospite fisso di conferenze e interviste, tessendo il racconto di un gioco di ruolo che avrebbe cambiato tutto.
Parlò di un mondo in cui ogni azione avrebbe avuto conseguenze permanenti. Il personaggio sarebbe invecchiato, avrebbe portato le cicatrici di ogni battaglia. Le scelte morali avrebbero plasmato il suo aspetto, facendolo diventare angelico o demoniaco.
E poi, la promessa che divenne il suo emblema e la sua maledizione: "Puoi piantare una ghianda e vederla crescere fino a diventare una quercia".
Non fraintendetemi, ovviamente: Fable fu un gioco eccellente. Un RPG d'azione affascinante, con un sistema di moralità innovativo per l'epoca e un mondo fiabesco e pieno di umorismo britannico.
Ma quella famosa ghianda, tanto discussa, non crebbe mai in una quercia come invece Molyneux promise. Molte delle meccaniche più rivoluzionarie descritte da Molyneux non erano presenti nel gioco finale.
Il pubblico, inevitabilmente, si divise: da un lato, chi apprezzava un grande gioco per quello che era; dall'altro, chi si sentiva tradito, deluso dalla mancata realizzazione di un sogno che era stato venduto come realtà imminente.
Si può quasi ammettere che il vero grande peccato originale di Peter Molyneux non era mentire, ma sognare ad alta voce.
Anche perché le sue interviste non erano presentazioni di marketing; erano come delle sessioni di brainstorming pubbliche, in cui condivideva con entusiasmo ogni idea che gli attraversava la mente, senza il filtro della fattibilità tecnica o dei limiti di budget (a questo proposito, vi consiglio di recuperarne qualcuna, nei meandri della rete ancora se ne trovano).
Credeva così tanto nelle sue visioni da presentarle come certezze, e il mondo, affamato di innovazione, credeva con lui.
L'abbraccio di Microsoft e le visioni infrante
Con l'acquisizione di Lionhead da parte di Microsoft, Molyneux ottenne risorse quasi illimitate, ma anche la pressione di dover creare esperienze di massa, spesso legate a nuove tecnologie come il Kinect. Fu un periodo di grandi promesse e cocenti delusioni.
L'esempio più eclatante fu il progetto "Project Milo", una demo tecnologica per Kinect che mostrava un'interazione incredibilmente realistica con un bambino virtuale di nome Milo. Il mondo rimase a bocca aperta.
Sembrava il futuro dell'intrattenimento, un'intelligenza artificiale emotiva con cui si poteva dialogare e costruire un rapporto. Milo, però, non divenne mai un prodotto. Era una visione, un esperimento affascinante ma commercialmente irrealizzabile, un'altra promessa eterea destinata a svanire.
I capitoli successivi di Fable (Fable II è considerato da molti il punto più alto della serie, il più vicino alla visione originale) continuarono su questa strada, ma con un Molyneux sempre più imbrigliato nelle logiche corporate. La sua fiamma creativa sembrava affievolirsi, sostituita da un ruolo più manageriale.
Lasciata Microsoft, Molyneux cercò di tornare alle origini con un nuovo studio indipendente, 22Cans. Il suo primo esperimento fu tanto bizzarro quanto geniale: Curiosity: What's Inside the Cube?.
Migliaia di giocatori da tutto il mondo erano chiamati a distruggere, un minuscolo tassello alla volta, un cubo gigante. Solo uno di loro, colui che avesse rotto l'ultimo tassello, avrebbe scoperto cosa c'era dentro. Molyneux promise che il premio sarebbe stato "assolutamente incredibile, qualcosa che cambierà la vita".
L'esperimento sociale funzionò. Il mondo intero iniziò a parlare del cubo. Quando l'ultimo pezzo fu rotto da un giovane scozzese di nome Bryan Henderson, il premio fu rivelato: sarebbe diventato il "Dio di Godus", il successivo gioco di Molyneux, e avrebbe ricevuto una piccola parte dei profitti del gioco.
Qui, la tragedia di Peter Molyneux raggiunge il suo culmine. Godus, finanziato su Kickstarter con la promessa di reinventare il God Game che lui stesso aveva creato, si rivelò un disastro.
Un gioco mobile afflitto da bug, microtransazioni e uno sviluppo infinito in accesso anticipato. E la promessa a Bryan Henderson? Fu disattesa. Il giovane "dio" non ricevette mai i suoi poteri né un centesimo.
Il contraccolpo mediatico fu devastante. Interviste brutali misero a nudo un Molyneux stanco, pentito, che ammise di aver promesso troppo e di non essere un bravo manager.
L'architetto di mondi sembrava aver perso la capacità di costruirne, intrappolato nelle rovine delle sue stesse, grandiose ambizioni.
L'eredità di un sognatore imperfetto
Oggi, Peter Molyneux è una figura più silenziosa. Durante la Gamescom 2024 è salito sul palco per annunciare Masters of Albion, uno strano titolo che sembra mischiare tantissimi elementi dei suoi precedenti giochi (Albion, tra l'altro, è il nome del mondo di Fable). Non sono certo che vedrà mai la luce.
A ogni modo, La storia di Peter Molyneux è anche una di quelle storie che fa ben capire quanto i pericoli dell'hype siano enormi e sulla responsabilità dei creatori. È stato un bugiardo? Probabilmente no.
È stato, piuttosto, un sognatore patologico, un uomo così innamorato delle sue idee da non riuscire a vederne i limiti. Il suo più grande talento, l'abilità di far innamorare il mondo di un concetto, è diventato la sua più grande debolezza.
Eppure, cancellare il suo contributo sarebbe ingiusto e miope. Senza Molyneux, l'industria dei videogiochi sarebbe innegabilmente più povera. I generi che ha inventato hanno generato innumerevoli discendenti.
L'idea che le scelte del giocatore debbano avere conseguenze morali e visive, oggi onnipresente, è stata una sua ossessione.
Ha costantemente spinto gli sviluppatori a porsi domande più grandi, a sognare mondi più reattivi e sistemi più complessi.
Le idee di Peter Molyneux sono un vero e proprio promemoria che le grandi innovazioni nascono da sogni audaci, ma anche che i sogni, se venduti come realtà, possono lasciare dietro di sé solo terra bruciata e un pubblico dal cuore infranto.