Le recensioni dei videogiochi hanno un problema: non esistono

Si parla spesso di recensioni di videogiochi ma, nella maggior parte dei casi, con poca cognizione di causa. Proviamo a farlo con un obiettivo reale.

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a cura di Valentino Cinefra

Staff Writer

Alla quindicesima persona che, nel giro delle settimane successive alla pubblicazione della recensione, mi ha chiesto se per caso avessi provato The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom mi è venuto un grande dubbio.

Ma non è che, per caso, le recensioni non esistono più?

Non in misura oggettiva, chiaramente, ma come percezione del pubblico. Com’è possibile che gente che mi conosca sia personalmente, sia come firma di SpazioGames, mi chieda se «per caso» ho provato l’ultimo The Legend of Zelda quando su questa testata c’è una recensione e videorecensione con la mia firma e foto?

E, badate bene, la colpa non è insita nelle persone che mi hanno fatto la domanda. È mia. Nostra, almeno.

Chi vi scrive non è affatto una personalità famosa nel mondo “reale” (nessun critico videoludico lo è), ma le persone che mi conoscono sanno quello che faccio e, soprattutto, sanno che ho passato un mese e mezzo a giocare e analizzare il suddetto titolo per Nintendo Switch.

Se dopo averne scritto prima, durante e dopo la recensione, pubblicato contenuti sia su questo sito che sui miei canali social personali, c’è ancora chi mi chiede se «per caso» abbia provato Tears of the Kingdom, significa che è arrivato il momento di parlare seriamente delle recensioni dei videogiochi.

Al di là del fatto che i dati dei tempi di lettura media delle pagine dei siti dimostrano che le recensioni non vengono più lette per intero, si è perso completamente il senso di queste produzioni e la capacità di restituire il loro contenuto.

Per la precisione, abbiamo fatto in modo che si sia perso il senso di queste produzioni, perché la responsabilità è sempre di chi produce i contenuti.

È una mia convinzione apocalittica? C’è una soluzione? Davvero le recensioni non esistono più?

“Non ho letto la recensione ma secondo me il voto è troppo alto” – il videogiocatore informato

La comunicazione vincente, oggi, è quella visiva e sintetica.

Questo non vuole essere il classico e stonato preambolo da “eh ormai la soglia di attenzione è quella di un TikTok”, perché non è mai così semplice. Però è davvero così.

Secondo il neuromarketing, la scienza che applica le conoscenze delle pratiche neuroscientifiche al marketing, allo scopo di analizzare i processi inconsapevoli della mente umana nei confronti della comunicazione persuasiva, la soglia di attenzione di un potenziale cliente è di 7 secondi. Sostanzialmente, tutti noi decidiamo in 7 secondi se acquistare o meno un prodotto.

Questo processo, mentale prima ancora che pubblicitario, oggi si applica a qualsiasi contenuto che viene proposto ad un pubblico su qualsiasi piattaforma e con qualsiasi output: Twitch, YouTube, Instagram, TikTok, newsletter e così via.

L’utente medio ha bisogno di essere stimolato sempre di più e sempre più in fretta, come dimostrano le abitudini di consumo delle maggiori piattaforme.

Un podcast o una canzone su Spotify ha solo una manciata di secondi per catturare l’attenzione del pubblico (fate attenzioni agli attacchi dei brani di successo, oggi), così come i primi istanti di un video su YouTube sono fondamentali perché l’utente decida di proseguire con la visione.

Un po’ di numeri. Secondo alcuni studi, in “un minuto di Internet” in tutto il mondo accadono le seguenti cose:

  • 188 milioni di email vengono spedite
  • 18 milioni di messaggi vengono inviati
  • 4.5 milioni di video di YouTube si avviano
  • 3.8 milioni di ricerche su Google vengono attivate
  • 1 milione di persone fanno login su Facebook

In questo contesto deve essere inserita la recensione di un videogioco il cui tempo di lettura è di alcuni minuti.

Questo ragionamento potrebbe portare già ad una prima risposta: non c’è matematicamente posto per inserire le recensioni nelle abitudini dei lettori potenziali.

Eppure c’è un pubblico che, in questi numeri, riesce ad infilare anche la fruizione di ore di dirette su Twitch o videorecensioni da decine di minuti. Proprio la piattaforma di streaming di Amazon è uno dei portali più importanti nel dialogo popolare del momento storico attuale, nonostante i fisiologici numeri in calo post-lockdown.

Quindi il problema non è questo. Non solo questo, almeno.

Critica e content creator: facciamo un punto

Da anni il dialogo critico sui videogiochi si è spostato verso chi produce contenuti visivi e non è una novità. Ma alcuni di voi potrebbero essere molto giovani o, giustamente, poco interessati o attenti a ciò che succede dietro le quinte. Quindi facciamo un attimo mente locale sugli ultimi anni della “stampa di settore”.

Il dialogo si è spostato prima con le piattaforme web, i primi siti specializzati, che dovevano trovare il loro posto quando le riviste avevano ancora un peso, a cui poi è seguito il sempre attivo “scontro” tra la critica e il pubblico dei content creator.

Una battaglia che nessuno ha scatenato veramente ma che, un giorno, è semplicemente iniziata.

Agli albori delle piattaforme video (YouTube per il video on demand e Twitch per le dirette) c’è stata una sorta di “ribellione” da parte dei content creator che sgomitavano per trovare il loro posto. La ricerca di una comprensibile rivalsa senza esclusione di colpi, dove ogni occasione per affossare la stampa corrotta, incompetente, connivente, timida, servile (e ogni altro aggettivo denigratorio che vi viene in mente) veniva presa al volo.

A oggi, è crollato completamente il confine tra intrattenimento e critica e il pubblico non sa più cosa stia succedendo.
Comportamento che è stato adottato purtroppo anche dalla critica tradizionale, nel frattempo diventata quella web, che allo stesso modo cercava di mantenere il proprio posto in un mondo che aveva conquistato a sua volta con grande fatica.

Questa lotta è finita con una tregua che ha sempre fatto comodo un po’ a tutti: a forza di ospitate e collaborazioni varie ed eventuali, content creator e critica hanno guadagnato qualcosa l’uno dell’altro, dal sotterrare l’ascia di guerra.

I primi venivano considerati sempre più autorevoli perché presi in considerazione dalle testate con il nome “che conta”, le quali hanno ottenuto negli anni una (minima) parte del pubblico e della popolarità dei follower che i content creator si portavano dietro.

In questo momento, che più o meno si può inscrivere in un periodo che arriva alla fine del 2019, la figura del content creator iniziava però a sovrastare quella del giornalista videoludico – o critico se non vi piace l’idea del “tesserino”, per citare la folla ribelle di cui sopra.

Un predominio dall’incedere lento ma imperante, che le aziende hanno comprensibilmente sfruttato per veicolare con più efficacia le loro attività di marketing. L’influencer e il content creator, infatti, non si soffermano sui problemi di una produzione videoludica se il contratto prevede un’attività in un centro commerciale, su un canale Twitch o nella tipica fiera-calderone di cultura pop.

Prima che le mie parole possano venire strumentalizzate in qualche modo, voglio specificare che il mio discorso non vuole essere una critica verso qualcuno, ma semplicemente il racconto della realtà dei fatti. Chi non vive quotidianamente queste dinamiche, ovvero il pubblico, non può sapere infatti come funziona al momento la macchina promozionale del mercato dei videogiochi. Per questo ve lo racconto, serviamo anche a questo.

Queste attività che ho citato vendono molti più videogiochi di una news in cui viene evidenziato un problema. Le recensioni non contano in questo discorso perché non spostano le vendite, al massimo annullano qualche preordine.

Capita di sentire aziende che non acquistano spazi pubblicitari sui siti perché con i content creator spendono di meno e guadagnano di più. A molti nostri colleghi sarà capitato senz’altro di sentire frasi del genere, che possono essere sradicate solo facendo i salti mortali e inventando delle attività arzigogolate che, spesso, non valgono neanche la proverbiale candela. Non ci sono gadget o pacchi speciali che tengano, insomma.

Prima di continuare, un momento per riprendere fiato e fugare i possibili dubbi che vi possono essere saltati in mente dopo l’ultimo paragrafo.

I siti di videogiochi vengono “comprati” dai banner pubblicitari? No. Le realtà editoriali hanno un reparto commerciale che vende spazi pubblicitari ed è completamente slegato da quello che produce contenuti.

Le firme che vedete su un sito non si occupano di trattare le campagne pubblicitarie, né interagiscono in alcun modo con chi lo fa. Se c’è il banner di un videogioco per tot settimane, i contenuti relativi a quel videogioco non sono influenzati dalla sua presenza o meno. Quando lo sono, non sono mai recensioni o analisi ma sono i cosiddetti branded content, ovvero contenuti sponsorizzati, e l’affiliazione promozionale viene esplicitata all’interno del contenuto stesso che sia un articolo, un video o un post sui social network.

Ma ma come siamo finiti a parlare di marketing e pubblicità? Perché incidono sulle recensioni e sulla critica? Perché con il tempo, lentamente come uno stillicidio, le hanno fatte sparire.

«Ma voi non c’eravate?» – sempre il videogiocatore informato

Più le aziende si affidano ai content creator e influencer, più arrivano i risultati, e più arrivano i risultati e più le aziende si affidano a loro. Cosa succederebbe se, invece di fare semplici attività di awareness o posizionamento, queste figure cominciassero a parlare anche dei videogiochi con più attenzione, supportati dalle attività aziendali?

Questo è quello che hanno iniziato a chiedersi i publisher e le relative agenzie di marketing negli anni che ho descritto sopra, e i risultati sono ovviamente arrivati.

Lo status quo odierno è che il pubblico segue e si affida a professionisti che per lavoro vivono delle sponsorizzazioni dalle aziende, mentre definiscono “corrotte” le recensioni di altri professionisti (che quindi sono “giornalai”) che invece da quelle aziende possono venire ignorati non solo (e spesso succede) dalle attività promozionali, ma anche da quelle di pura divulgazione.

Molto spesso un post sui social o un breve vlog viene già percepito come una recensione: un fallimento che dobbiamo tutti accettare, senza se e senza ma.
Un cortocircuito che si esplicita ulteriormente nei percorsi di marketing delle grandi uscite. Durante i press tour, ad esempio, gli slot dedicati agli inviati dei siti specializzati vengono sempre dopo i content creator e gli influencer fino ad arrivare ad essere esclusi, in alcuni casi.

E va benissimo così, perché il mercato lo richiede.

La mia non vuole essere una invettiva ma una presa di coscienza. La situazione è questa, è evidente che non si torna indietro e quindi bisogna adattarsi. Questa è solo una goccia di un vaso pieno di eventi che hanno definitivamente distrutto la critica dei videogiochi come la si intendeva una volta. Anzi, di fatto la critica videoludica non esiste più.

Lo dimostra il fatto che, ancora oggi, le persone non capiscono cosa sia successo con Cyberpunk 2077 e perché sia stato possibile dare un voto così alto alla versione PC del gioco mentre quella console è disastrosa. È stato faticosissimo spiegare che le versioni old-gen sono arrivate alla stampa in contemporanea con le copie del day-one, e c’è chi impugna quelle recensioni come prova inconfutabile che la critica videoludica è fallimentare.

Così come The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom per cui, secondo i lettori, è molto più plausibile che Nintendo abbia messo a bilancio “l’acquisto” delle recensioni di tutto il mondo (tra cui quelle di alcuni redattori italiani che però non erano stati invitati al press tour europeo) così che il gioco potesse prendere dei 10 ovunque – invece di realizzare che, semplicemente, sia un videogioco meritevole.

Poi c'è Redfall, che è stato definito un multiplayer ottimo ma incompreso, perché ormai tutta la critica è asservita a PlayStation e ogni prodotto Xbox viene giudicato male a prescindere. Per non parlare di Final Fantasy XVI, che è impossibile che possa prendere meno di 9/10, e l’unica spiegazione è che Xbox abbia comprato tutti i siti che hanno prodotto recensioni in cui il voto è risultato inferiore.

Una situazione che distorce letteralmente la realtà, portando il pubblico a formulare ragionamenti semplicemente fuori dal mondo pur di accettare che, forse, ogni tanto quelle firme di cui leggono i contenuti potrebbero anche avere ragione.

Questo è un fallimento che dobbiamo accettare, senza se e senza ma.

Per il pubblico, la firma sul sito di videogiochi ormai non è più affidabile né ha senso di essere seguita. Produce contenuti lenti, boriosi, che non intercettano i desideri del pubblico e non soddisfano i bisogni con efficacia. Molto spesso un post sui social o un breve vlog viene già percepito come una recensione, un contenuto che soddisfa quelle minime curiosità che servono a capire se vale la pena comprare un videogioco oppure no.

Nell’ottica delle aziende la critica videoludica non fa storytelling, non mostra nulla di realmente utile e quando lo fa c’è sempre il rischio che possa far vedere qualcosa che sfugge al controllo. Content creator e influencer, invece, sono strumenti fenomenali per poter raccontare e mostrare esattamente ciò che si vuole mostrare.

Perché questo è il motivo per cui le recensioni non esistono più: non si possono far vedere.

L’inesistente storytelling delle recensioni

Cosa succede nelle settimane che precedono la pubblicazione di una recensione (tipo questa) su un sito di videogiochi?

L’azienda contatta i siti e propone la recensione del prossimo videogioco in uscita. La realtà editoriale accetta o meno e, internamente, decide chi deve iniziarne la lavorazione: tempo, disponibilità, competenze, strumenti, ogni realtà ha i suoi metodi e scala gerarchica.

Quando i nomi vengono decisi, redattore e caporedattore firmano un NDA, un contratto di non divulgazione più o meno stringente in cui azienda e realtà editoriale si accordano su quello che si può dire o non dire prima, durante e dopo la recensione.

I contenuti da divulgare possono anche comprendere i propri account social personali e quelli della realtà editoriale, e non solo i contenuti della recensione e videorecensione. Per essere più chiari: quasi sempre non si può neanche dire o lasciare intendere tramite i propri canali personali che si sta iniziando a lavorare sul videogioco in questione.

Quando vedete un post pubblico di una firma che seguite che annuncia l'arrivo di un gioco in redazione, tendenzialmente l’azienda suggerisce (non c’è l’obbligo, ovviamente) che si può fare, altrimenti è esplicitamente vietato.

A cosa serve tutto questo? Non è servilismo ma un accordo che dei professionisti fanno per proteggere i contenuti di un prodotto. Succede con chiunque acceda a prodotti o servizi in anteprima, dal mondo del cinema alla tecnologia.

A questo punto il videogioco, in forma di codice digitale da riscattare sulla piattaforma di riferimento, viene inviato prima dell’uscita sul mercato. Ogni azienda ha i suoi tempi, c’è chi ne concede di più e chi di meno ma, quando le cose vanno bene, ci sono almeno 2-3 settimane di anticipo.

Le recensioni testuali hanno un grosso limite: non possono fare storytelling di tutto quello che c'è dietro al contenuto.
In questi giorni la persona che firmerà la recensione inizia a giocare. Prende appunti, fa screenshot, registra clip video da usare in vari output, magari si confronta con altri colleghi e internamente con il caporedattore e, una volta finito il titolo o giocato abbastanza nel caso non ci sia una narrazione da seguire, inizia la stesura della recensione e dei contenuti ad esso collegati.

Svariati giorni di lavoro che passano dall’analisi alla scrittura, produzione di contenuti audio/video e pianificazione di contenuti su varie piattaforme che coinvolgono più persone e che rimangono all’oscuro di tutti.

Questo procedimento non può essere raccontato o mostrato in alcun modo, perché sarebbe irricevibile e, nel caso dell’NDA di cui sopra, a volte impossibile.

Il risultato di questa situazione è che la recensione che viene pubblicata sul sito viene percepita come un lavoro di qualche ora al massimo, perché non può far trasparire tutto lo sforzo che c’è dietro.

Il vlog o il reel, al contrario, sono la dimostrazione diretta di quanto è stato fatto. Gli utenti vedono davvero cosa fa il proprio content creator preferito, percepiscono il lavoro e gli danno valore anche se è stato meno impegnativo in termini di ore trascorse.

La personalizzazione del brand è la chiave della comunicazione e in questo content creator e influencer sono indubbiamente più forti. Non si può dare un volto ad una intera redazione perché gli uffici dove tutti lavorano insieme non esistono più. Anche volendo non è possibile che tutto lo staff di una realtà editoriale stia tutto il tempo su YouTube, Twitch o Instagram – ci sono altre attività da mandare avanti, che tengono in piedi la baracca.

Certo, si potrebbe trovare un equilibrio facendo più dirette e contenuti video, ma la critica ha bisogno di tempo. Anche chi fa critica unicamente con il formato video non fa contenuti usa e getta per l’algoritmo, perché le analisi non possono essere fatte in fretta. O meglio si possono fare, ma la differenza di contenuti e qualità è evidente.

Perché, mentre le recensioni sono scomparse come contenuto non-visivo, dal 2019 ad oggi è crollato completamente il confine tra intrattenimento e critica. Content creator e influencer viaggiano su queste definizioni sottili, saltando da un lato all’altro della barricata alla bisogna, con il risultato che il pubblico non sa più cosa sta succedendo.

Non biasimo gli appassionati di videogiochi, i lettori, perché non è facile destreggiarsi nel momento attuale. Da un lato ci sono settimane di contenuti con le proverbiali #ad che precedono una recensione dello stesso prodotto che viene confermata come oggettiva, e dall’altra le recensioni lente e inutili che spesso smontano una convinzione costruita da mesi di comunicazione persuasiva tra content creator e processi aziendali.

Allora le opinioni dei lettori si forgiano su qualche secondo di diretta streaming, un minuto di YouTube visto con mezzo occhio, e il caro e vecchio sentito dire da qualcuno che ha letto qualcosa su un link passato da qualcun altro visto nel doomscrolling quotidiano.

Poi c’è l’ultima parte di questo discorso che, ve lo anticipo, non avrà una soluzione né un finale incoraggiante.

In questo scenario, infatti, le recensioni non servono letteralmente a niente.

«Ho smesso di leggere» – Duccio Patané

Le recensioni non spostano le vendite, generano spesso malcontento in quegli utenti che le leggono (con il conseguente fardello della gestione dei commenti astiosi) e vengono impugnate dagli stessi per generare guerre e ribellioni. Sono contenuti lenti e fuori dal tempo e, per mettere la ciliegina sulla torta, non vengono neanche letti quanto pensate.

Per metterla subito in maniera chiara: se SpazioGames smettesse da domani di fare recensioni non cambierebbe praticamente nulla. Potreste pensare che per gli altri siti le cose siano differenti, ma vi assicuro che questo ragionamento vale per tutte le realtà editoriali specializzate e che tutti i nostri colleghi vi direbbero la stessa cosa. Nessun sito subirebbe alcun danno reale dall’abbandono delle recensioni, in termini di letture e puramente economico.

Allora perché si fanno ancora le recensioni? Perché sono una vetrina. La fine di un percorso editoriale, nonché uno strumento di authority per il sito, dove il lettore è felice di sapere che la sua realtà di riferimento ha accesso a dei contenuti in anticipo perché come utente attivo (e non tossico) della community ne fa parte.

Ma in termini di puri numeri il rapporto costo/beneficio è «comico», per usare un termine preso in prestito direttamente da Stefania, la nostra caporedattrice.

Facciamo alcuni esempi con dei rapporti di paragone.

Partiamo alla grande con qualcosa che mi ha divertito molto e che basterebbe già per restituire perfettamente il quadro di come il pubblico oggi si informa sui videogiochi: l’articolo “Cosa ha sbagliato Final Fantasy XVI?” ha generato più letture della recensione di Final Fantasy XVI, con un rapporto di quasi una volta e mezza.

In pratica, un contenuto di approfondimento analitico e privo di velleità canzonatorie sulle negatività un videogioco è più interessante, per i lettori, della recensione del videogioco stesso.

Questo perché il dissing, la trigger economy, la capacità di fare leva su reazioni istintive e dare vita agli user generated content (contenuti generati dagli utenti) come meme, reaction e commenti, sono attitudini e atteggiamenti che più di altri danno linfa vitale al mondo dei content creator e degli influencer.

Quel comportamento che gli utenti hanno imparato ad assimilare inconsciamente seguendo i creatori di contenuti viene ricercato anche dove non c’è, perché percepito come l’unico tono di voce possibile per l’informazione videoludica.

Per rimanere unicamente nel confronto tra articoli, le recensioni vincono la gara di letture solo e unicamente su approfondimenti culturalmente molto impegnati, quindi digeribili da meno persone, o relativi a produzioni meno blasonate. Ad esempio, la citata recensione di Final Fantasy XVI vince contro un approfondimento su come i videogiochi ci raccontano il Giappone, oppure su una riflessione sul valore di Pikmin oggi.

Ma un sito videoludico è composto ovviamente da molti tipi di articoli, tra cui news e guide che surclassano completamente le letture di ogni recensione.

I contenuti relativi ai giochi gratis, tra offerte degli store e inserimenti all’interno di Xbox Game Pass, sono le news più lette di ogni settimana con un rapporto soverchiante, a volte di 5 a 1 sull’articolo che è andato meglio da mesi. Solo le breaking news occasionali le sovrastano, come accaduto nel caso di Daedelic che smette di fare videogiochi dopo il flop Gollum.

A seguire, praticamente ogni news fa più letture di una recensione di un videogioco che non sia un big come Final Fantasy XVI, e anche in questo caso la recensione non viene comunque più letta della maggior parte delle news.

Ma di prodotti che catalizzano l’attenzione come un Final Fantasy o un The Legend of Zelda ne escono due o tre, nelle annate fortunate come questa. Le news, nel nostro caso, sono circa una trentina al giorno.

«E quindi che facciamo?» – Nessuno

Come dicevo poco sopra non ho una soluzione reale, né credo ci sia qualcosa che possa efficacemente riportare la recensione in una posizione che torni a risultare interessante per i lettori.

Nel 2021 mi ritrovai a fare un’analisi sul tema a seguito del famoso articolo del Washington Post sulle recensioni dei videogiochi, e sui dati IIDEA relativi al modo in cui si informano i videogiocatori.

Un articolo che analizzava criticamente gli aspetti meno riusciti di Final Fantasy XVI è stato più letto della recensione stessa del gioco, perché finisce per stimolare i meccanismi della trigger economy.
Il rapporto sosteneva, in sostanza, che una persona su dieci, più una che dice di averlo fatto ma in realtà non è vero, usa i siti specializzati per informarsi e non è detto che vada a leggere una recensione, una notizia, o un approfondimento. Dati sull’informazione che sono stati per altro ignorati nel rapporto di quest’anno, a proposito di messaggi che il settore manda ogni giorno.

In quell’articolo (se siete curiosi lo trovate qui) sostenevo che le recensioni non devono essere cambiate «perché non devono fare critica e soprattutto parlano ad un pubblico che dei sofismi, dei riferimenti letterari, di vedere tirato in ballo ogni volta Italo Calvino, non gliene frega nulla». Da allora non credo sia cambiato nulla e, anzi, penso che questo ragionamento sia più che mai valido.

La recensione deve essere un filtro tra chi ha l'obiettivo di mettere legittimamente le mani nelle tasche della gente e chi, da quelle tasche, deve tirare fuori soldi. A prescindere dal modo in cui la si fa, numero di battute e tono di voce, questo è il suo scopo e tale deve rimanere.

Il pensiero potrebbe essere quello di spingere sui contenuti visivi, fare più attività su Twitch e YouTube ad esempio che porti alla conoscenza di tali recensioni. Ma, anche qui, si parla di organizzare e spendere risorse, e poi chi scrive le beneamate recensioni?

Un palinsesto su queste piattaforme va curato con molta attenzione se si ha l'obiettivo di generare dei risultati reali. Questo significa impiegare una squadra prettamente dedicata che non molte realtà nel mondo possono permettersi, tolti dei colossi come IGN US e pochissimi altri.

In Italia non esistono più le redazioni intese come una volta, tutti fanno tutto e l'inevitabile risultato è che i canali Twitch o YouTube sono attività che vanno in pari nel migliore dei casi e si portano avanti praticamente solo per rappresentanza, come contenuto di un pacchetto onnicomprensivo.

Ma se le recensioni non devono cambiare potrebbero essere multi-canale, in ogni caso. Il testo della recensione può essere spezzettato per diventare un carosello di immagini sui social, un Reel o un video su TikTok. Traslare quello stesso ragionamento su più canali, con i suoi linguaggi e strutture, con l’obiettivo di creare una sorta di funnel di interesse che porti i lettori a scoprire poi la recensione completa.

Perché le riflessioni, quelle approfondite, hanno ancora bisogno della parola scritta. Serve un testo su cui scrivere e riscrivere, da leggere e rileggere, per lasciare dei concetti che possano sedimentare all’interno di un dialogo collettivo e rimanere nel tempo.

Twitch non favorisce la condivisione a posteriori e YouTube deve combattere con l’algoritmo che premia i contenuti dei Me contro Te, o di qualsiasi altra cosa che gli inserzionisti ritengano interessante.

Non si può nemmeno smettere di fare recensioni, nonostante siano problematiche e poco utili per un sito. Sono infatti l’unico strumento per cercare di fornire ai lettori un contenuto che abbia un posizionamento distintivo, che svolga un compito differente rispetto alle altre analisi, chiacchierate e contenuti che si trovano nella scena videoludica.

Possono essere ripensate nella forma, quello sì. Trovare un compromesso tra la celerità delle informazioni e la necessità di fornire un’analisi che sia comunque soddisfacente.

Ma mi sono sempre ripromesso di capire come fare, ad esempio, a trasformare le recensioni dei videogiochi in quelle recensioni dei film che si trovano su giornali e riviste, ad esempio. Contenuti veloci che comunque riescono a raccontare quello che devono, ma c’è il problema della complessità del videogioco come mezzo espressivo.

Se non è necessario, a seconda del lettore di riferimento, che una recensione di un film si dilunghi nel parlare di tecniche di montaggio o di piani di ripresa, in un videogioco non ci si può non soffermare sull’aspetto del gameplay, ad esempio. Capire come il prodotto videoludico interagisce con l’utente attraverso i suoi mezzi, ovvero le periferiche di interazione, è un ragionamento che già di suo può portare via tantissime parole – e quindi tempo, quindi potenziali letture perse.

Parlando di Hi-Fi Rush non si può sorvolare sul sistema di combattimento che va a ritmo di musica e come questo influisce sulla resa del gameplay. Mentre per Park Beyond non si può essere superficiali sui sistemi di gestione, come in F1 23 parlare solo in maniera sommaria della fisica delle automobili e di come influisca sui controlli. Ho citato veramente tre giochi a caso tra le recensioni pubblicate nelle ultime settimane, ma il concetto è sempre quello.

Sarebbe come evitare di parlare completamente della recitazione degli attori, della climax di un film o di come la storia possa essere coinvolgente o meno in un film. Sono dettagli fondamentali di una recensione cinematografica, i cui equivalenti videoludici rendono le recensioni inevitabilmente dei pachidermi di parole, in molti casi.

Ci si può lavorare, però. Si può provare ad essere più asciutti, ad evitare sofismi che fanno piacere solo a chi scrive, riferimenti fini a sé stessi che approfondiscono il testo. Stefania mi segnala, ad esempio, che da poco abbiamo cominciato a sperimentare con delle mini-recensioni per parlare di giochi che altrimenti non troverebbero spazio sul sito, con una recensione tradizionale-a-tutta-lunghezza.

A seconda del tipo di videogioco si può provare a coinvolgere il lettore con una maggiore attenzione al tono di voce, come ho fatto con The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom trasformandolo in un racconto.

Possiamo ancora provare a riprenderci lo storytelling delle recensioni all’interno delle recensioni stesse.

Non funziona per tutti i prodotti ovviamente, perché è difficile immaginare di essere evocativi per un EA Sports FC 24 a caso, ma in molti casi si può fare. Soprattutto quando capitano recensioni di videogiochi come Baldur's Gate 3 Starfield, che saranno probabilmente le più inutili dell'anno.

Il primo è un titolo venduto a prezzo pieno in accesso anticipato dal 2020, che ha raccontato già molto di sé ed ha già ottenuto la sua schiera di preordini e fan. Il secondo è uno dei videogiochi più attesi dell'anno che, alla peggio, può essere provato direttamente al day-one con un abbonamento a Game Pass.

In più, entrambi questi videogiochi con ogni probabilità saranno consegnati con uno strettissimo anticipo alla critica (la cosa è già certa per il primo, per Starfield vedremo, ma per ora tutto tace), ed è plausibile che non ci sia il tempo materiale per poterli analizzare a dovere in tempo per il day-one.

Arriveranno le recensioni a posteriori, sicuramente, quando i giocatori li avranno già giocati e i primi giudizi frutto del passaparola saranno già diffusi da settimane.

Anche per situazioni come queste l’obiettivo deve essere quello di creare un contenuto prima di tutto interessante per un lettore. Lavorare avendo rispetto del tempo degli utenti e chiedersi perché debbano preferire la lettura del nostro contenuto a discapito dell’ascolto di un podcast o di un video in sottofondo.

È una guerra persa in partenza perché il contenuto unicamente testuale non è premiato nella comunicazione odierna, ma ne varrà la pena per quei pochi che torneremo a coinvolgere. Non dico che i videogiocatori torneranno in massa a leggere recensioni, perché non accadrà nella maniera più categorica, ma se non altro torneranno a capire la differenza che c’è tra una recensione, un vlog, un contenuto sponsorizzato e il racconto di un press tour.

Smetteranno di chiedermi se per caso ho provato The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom dopo averne parlato per mesi, firmato la recensione e doppiato la videorecensione.

Poi, in maniera del tutto legittima, gli stessi videogiocatori torneranno ad informarsi attraverso i canali che preferiscono perché non c’è niente che si possa fare per obbligare le persone a fare ciò che vogliamo. Io stesso faccio fatica a leggere molte recensioni che trovo in giro, figuriamoci chi ha solo dieci minuti al giorno per informarsi sulle proprie passioni.

Perché la comunicazione è una jam session, non un concerto. Un botta e risposta in cui bisogna rimanere al tempo, aumentarlo o diminuirlo, cambiare note e a volte anche gli strumenti se necessario, perché la musica vibri come si deve.

E mi rendo conto che è paradossale parlarne in un articolo che so per certo che verrà letto per intero e con attenzione da pochi, perché lungo e pieno di ragionamenti e riferimenti che devono essere colti. Come sono certo che verrà strumentalizzato in alcune sue parti per generare quel malcontento di cui parlavamo sopra. Ma va bene e, vi dirò, è anche giusto così.

Perché l’unica cosa che la critica può e deve fare, il motivo per cui esiste e che può farla vivere nel fuoco incrociato del mondo dei content creator è la capacità di generare domande e dubbi nei lettori, anche con il rischio di subire fuoco amico.

Quel fuoco amico che sta portando alla chiusura di tutte le sezioni specializzate in videogiochi dei più grandi network internazionali, tra le altre cose. Un discorso strettamente legato a quello che avete letto (per chi è arrivato fino a qui almeno) e di cui torneremo a parlare a mente fredda.

Per ora proviamo a parlare ancora di videogiochi e vediamo quando arriverà il giorno in cui le recensioni non serviranno davvero più a niente.