Meritiamo Bloodborne Remake. E no, non è il solito piagnisteo da fanboy, né l’ennesimo sfogo da nostalgico in cerca di conferme. È un grido, quello che arriva dopo anni di attesa, di promesse mai mantenute e di silenzi imbarazzanti. È la rabbia lucida di chi guarda un capolavoro incatenato a trenta fotogrammi al secondo e si chiede, con la stessa amarezza con cui si guarda un quadro coperto di muffa: ma davvero dobbiamo accettare che finisca così?
Davvero Bloodborne, una delle opere più potenti e seminali della storia PlayStation, deve restare confinata in un limbo tecnico, mentre tutto intorno il mondo corre, si espande, si reinventa? Non scherziamo. È tempo di parlare chiaro: meritiamo che Yharnam risorga. E se le voci degli ultimi giorni dicono che Bluepoint Games è al lavoro su un nuovo progetto d’azione in terza persona, focalizzato sugli scontri corpo a corpo, allora le coincidenze iniziano a farsi troppe per essere solo coincidenze.
Chi conosce un minimo la scena sa di cosa stiamo parlando. Bluepoint non è un team qualsiasi: è quello che ha ridato vita a Demon’s Souls, trasformandolo in un monumento alla fedeltà tecnica e alla devozione artistica. È quello che con Shadow of the Colossus ha dimostrato che un remake può essere una forma di amore, non di sfruttamento.
E ora, con una serie di posizioni aperte che cercano esperti di combattimento melee, level designer capaci di ricreare atmosfere e animatori specializzati nel corpo a corpo, l’indizio è chiaro: il prossimo progetto di Bluepoint non sarà un platform colorato né un puzzle game. Sarà un titolo che vive di tempismo, di sangue, di ritmo. Suona familiare, vero?
Yharnam, casa dolce casa
Bloodborne non è "solo" un gioco: è una cicatrice che i giocatori portano con orgoglio, perché fa male al punto giusto. È l’incubo che ci ha insegnato ad abbracciare la paura, a leggere la follia come estetica, la difficoltà come linguaggio. È un titolo che ha riscritto il concetto di “sfida”, trasformando l’orrore gotico in danza. Eppure, nel 2025, resta prigioniero di una tecnologia che non gli rende giustizia.
Una reliquia che non può essere toccata senza sentire il peso di un calo di framerate, un tempo di caricamento estenuante, un dettaglio visivo ormai superato. È come se avessimo Caravaggio chiuso in soffitta, e ci accontentassimo di guardarlo attraverso una fessura piena di polvere.
È come se l’industria avesse paura di toccare la perfezione, quasi temesse di non esserne all’altezza. Ma ecco il punto: Bluepoint può esserlo. Ha già dimostrato di saperlo fare. E se davvero sta tornando al corpo a corpo, non c’è campo più sacro su cui esercitare le proprie mani.
Un remake non è una bestemmia. Lo diventa solo se nasce per vendere copie facili, non per raccontare di nuovo. Bluepoint, al contrario, ha sempre trattato i remake come restauri. E un restauro non toglie l’anima: la riscopre. Immaginate Yharnam ricostruita con l’illuminazione dinamica dell’ultimo hardware, i vicoli che respirano nebbia in tempo reale, la pioggia che incide sulle vesti del Cacciatore, il clangore delle armi che risuona con fisica e risonanza degne di un’opera contemporanea. Ma soprattutto: immaginate il gameplay a sessanta fotogrammi al secondo, senza compromessi, senza inciampi. Non una riscrittura, ma una liberazione. Il ritorno a casa di un capolavoro.
E qui arriva la parte che brucia: non possiamo più accontentarci dei “forse”. Da anni, la community chiede un segnale. Da anni, si sussurra di patch, di upgrade, di porting su PC. Nulla. Solo il silenzio assordante di chi preferisce ignorare, forse per paura di non saper gestire il peso dell’attesa. Ma la verità è che il tempo ha reso Bloodborne ancora più grande. È diventato un simbolo.
Ogni volta che esce un nuovo soulslike, Bloodborne è lì, come una stella polare. Ogni volta che un titolo prova a ricrearne la formula, finisce per esserne un’eco sbiadita. Nessuno ha mai saputo rifare quella sensazione: il ritmo frenetico, la pressione costante, l’equilibrio tra brutalità e grazia. Nessuno. E forse proprio per questo, l’unico modo per rendergli giustizia è tornare alle origini — ma con la maturità tecnica che oggi possiamo permetterci.
Guardiamo in faccia la realtà: l’industria odierna vive di remake, reboot, remaster. Ma raramente questi processi hanno un senso profondo. Spesso servono solo a riempire cataloghi, a rassicurare i publisher. Con Bloodborne sarebbe diverso. Sarebbe un gesto d'amore. Un modo per dire che il remake può essere anche un atto di devozione verso il videogioco come linguaggio.
Non un’operazione commerciale, ma una restituzione culturale. Bluepoint, con il suo curriculum, è l’unico team capace di affrontare questo compito senza profanarlo. Perché ha già dimostrato che si può ricostruire qualcosa di sacro senza togliergli l’aura.
La speranza oscura
Meritiamo Bloodborne Remake perché meritiamo che qualcuno si prenda la responsabilità di ricordarci cosa significa osare. Di ricordarci che il videogioco può essere arte nel senso più crudo e viscerale del termine. E soprattutto, meritiamo che quell’arte non venga lasciata marcire per pigrizia. Bluepoint ha tra le mani l’occasione perfetta per dimostrare che non tutti i remake sono operazioni nostalgiche. Alcuni sono atti di coraggio. E il coraggio, in tempi di conformismo creativo, è la cosa più rivoluzionaria che si possa chiedere.
Quindi sì, basta sussurrare. Basta sperare timidamente. È il momento di pretendere. Perché dopo dieci anni di silenzio, di rumor soffocati, di frame traballanti e di preghiere digitali, un’idea è rimasta ferma nella mente di chiunque abbia affrontato Yharnam: non può finire così. E forse, proprio in quel cantiere segreto in cui Bluepoint affila le sue armi, qualcosa si muove. Forse l’incubo sta per risvegliarsi, più lucido, più spietato, più nostro che mai.
E se davvero accadrà, non chiamatelo remake. Chiamatelo riscatto.