Lo sentite? È il suono sordo di una comunità che si piega. Il formato fisico su PlayStation oggi rappresenta appena il 3% dei ricavi Sony, e quelle cifre suonano come un atto notarile postumo, come se qualcuno stesse già sigillando le ceneri di una tradizione.
Ne ho già parlato diverse volte, ma non è ancora finita. Nonostante le prediche digitali, la tendenza imposta dall’alto e la cronica (e comoda) distrazione di certa critica, i dischi non sono pronti a diventare il prossimo dodo del mercato: sono la mosca fastidiosa che continua a pungere la coscienza di consumatori ormai domati.
Il loro presunto epitaffio l’hanno già scritto i profeti della smaterializzazione: “il futuro è digitale, fatevene una ragione”. Ma la ragione, qui, non può essere soltanto una questione di calcolatrici, di algoritmi o di share price.
La ragione appartiene a chi ricorda, a chi vuole poter scegliere, a chi si indigna vedendo trasformare un acquisto in una licenza temporanea pronta a sparire al primo blackout o al click di qualche amministratore di sistema.
L’inganno del progresso
Un tempo compravi un gioco e quello era tuo. Lo esponevi in bacheca, lo prestavi, lo rivendevi, lo trovavi in saldo, lo passavi a un amico.
La proprietà era fisica, concreta, e aveva la forma di un disco, di una custodia, di una copertina – perfino di quel libretto delle istruzioni che oggi nessuno legge più, ma che era un piccolo manifesto d’autore. Oggi, invece, siamo vittime compiacenti del più grande furto legalizzato della storia: la non-proprietà.
Comprate in digitale e siete solo affittuari. Nessuna certezza, solo la promessa che “per ora” la vostra licenza esisterà. Se uno store chiude, se una licenza scade, se il publisher decide di cambiare idea, voi restate lì, a guardarvi le mani. Ecco perché il fisico resiste: perché senza di lui il potere non è più del consumatore, ma delle multinazionali e dei loro capricci. Basta una riga nei Termini d’Uso per togliervi tutto.
Vi sta bene? L’argomento principe dei digitalisti è la comodità. “Scarichi, giochi, non hai più bisogno del disco, la libreria la porti ovunque.” Certo, la comodità. Ma la memoria, la cultura, il piacere del collezionismo? Il digitale cancella il rito, spazza via l’oggetto che diventa identità, arte, pezzo di storia del medium.
Con il digitale non possiedi: usufruisci. Sei un abbonato a tempo indeterminato a un servizio che domani potrebbe non esserci più, o che potrebbe cambiare regole e prezzi in barba ai tuoi acquisti. Di giochi scomparsi dagli store ce ne sono ormai a decine. E il risultato? Chi aveva la copia fisica gioca ancora, gli altri maledicono un download negato.
C’è chi parla di “maturazione” dell’utenza, di un progressivo abbandono dell’oggetto in favore della pura esperienza. Ma è una favola raccontata male, perfino da chi esulta per il digitale. L’oggetto ricorda che il videogioco è anche archivio, testimonianza, storia. Il digitale, a lungo andare, cancella tutto: ti rende dipendente da permessi effimeri, da server online, da patch che tra dieci anni potrebbero essere introvabili.
Anche in tempi di crisi, di tagli, di recessione. L’usato è linfa vitale per chi vuole collezionare senza ipotecare la casa. Nel digitale, invece, o paghi o non giochi. E nel frattempo il tuo diritto a scegliere resta sepolto. La libertà offline e l’illusione della connessione perpetua Una volta compravi, inserivi, giocavi. Fine.
Oggi la logica del day-one patch, dei server obbligatori e della connessione costante rischia di trasformare il digitale in una gabbia. Se domani uno store chiude o la connessione salta, sei bloccato. Il fisico, invece, ti regala autonomia: il gioco è lì, pronto, installabile senza credenziali né scuse.
Questa non è nostalgia: è difesa della libertà. Chi ama davvero i videogiochi sa quanto sia umiliante dipendere da un sistema che può spegnerti l’accesso con un click. Accusano il fisico di essere lento, scomodo, superato.
Ma dimenticano che le tirature limitate, le patch obbligatorie e i contenuti ridotti su disco sono scelte strategiche. È comodo dire che “tanto poi c’è la patch”, “tanto il pubblico vuole tutto subito”. La verità è che conviene non fare più niente bene, tanto per imporre la nuova religione digitale.
Basterebbe poco per stampare copie complete e funzionanti. Ma non lo si fa: è più redditizio spingere la gente verso il digitale e chiamare “evoluzione” ciò che è solo risparmio di costi.
Il digitale rispecchia la nostra epoca bulimica, fatta di instant gratification e di memoria corta. Il fisico è un testimone scomodo: ci ricorda che le cose possono durare, che possiamo conservare, collezionare, tramandare. Una steelbook di The Last of Us, una collector di Final Fantasy, una custodia vissuta: sono pezzi di cultura. Il digitale, al massimo, ti dà un achievement che dimentichi il giorno dopo.
L’ultimo baluardo
Il vero obiettivo delle aziende non è neppure il digitale in sé, ma l’abbonamento perpetuo: il modello Netflix applicato ai videogiochi, dove paghi per avere accesso a una libreria che domani potrebbe sparire o essere decimata. Il fisico è l’ultima trincea contro questa logica: il baluardo che resiste (e chissà con PS6 cosa accadrà).
Comprare un gioco fisico oggi è un atto di resistenza culturale, perfino politica. Ogni disco sbattuto sul bancone è un dito medio al potere delle multinazionali, ai spin doctor degli abbonamenti e ai cantori della nuova normalità. Difendere il fisico non è passatismo: è difendere il diritto di scegliere, di possedere, di ricordare.
Non si tratta solo di nostalgia o di pigrizia: la battaglia per il formato fisico è una questione di identità culturale. Ogni disco posseduto, ogni custodia sullo scaffale, è un frammento di memoria collettiva. Il digitale ti offre comodità, certo, ma a che prezzo?
Ti trasforma in un semplice consumatore passivo, in un utente prigioniero di termini e condizioni mutevoli, di servizi che possono chiudere domani senza preavviso. Non possedere significa non contare, significa lasciare che qualcun altro decida cosa vale e cosa no. E poi c’è il collezionismo, quell’arte sottile di costruire una storia personale attraverso oggetti concreti.
Il digitale non lascia spazio a questo: ogni copia è un file, senza peso, senza odore, senza cicatrici che raccontano le nottate passate davanti a un gioco. Il fisico, invece, parla, resiste, testimonia. È memoria attiva, non solo consumo. Difendere il disco è anche difendere il diritto alla libertà offline, alla proprietà reale, alla possibilità di tramandare ciò che amiamo.
Chi abbandona il fisico abbraccia un mondo dove tutto è temporaneo, dove l’arte diventa licenza e la cultura un abbonamento. E questo, cari amici, non è progresso: è resa.
Restare nella partita vuol dire avere scaffali pieni e collezioni vive. Non sarà la scelta più di moda, né la più futuribile, ma è quella di chi sa che la memoria vale più del cloud e la proprietà più di una licenza a tempo.
Se deve finire, almeno spariamo l’ultima cartuccia a testa alta: in questo cimitero digitale, il formato fisico è il nostro ultimo baluardo di libertà.