L’annuncio della data d’uscita di Death Stranding 2 (che potete preordinare su Amazon), fissata per il prossimo 26 giugno, ha fatto scattare in me il solito campanello d’allarme che parte quando ho un gioco fermo sullo scaffale da troppo tempo e arriva quel momento in cui devo ritrovare la forza per portarlo a termine.
Sì, perché nonostante mi stesse piacendo da morire (la console mi segnava circa 60 ore di gioco quando l’ho riavviato), non avevo finito il primo viaggio di Sam sei anni fa. La motivazione, di cui non smetterò mai di vergognarmi, è che uscì Pokémon Spada e Scudo e io ho un problema con i Pokémon.
Negli anni a seguire, per un motivo o per un altro, il gioco rimase parcheggiato in attesa del momento opportuno. Fra una scusa e l’altra (lo ammetto), quel momento non arrivò mai. Fino al mese scorso, quando l’urgenza di arrivare al 26 giugno "preparato" mi ha finalmente fatto smettere di procrastinare (a proposito, date un'occhiata a tutto quello che c'è da sapere sul prossimo capitolo).
Mi sono dato una regola ben precisa, memore della prima esperienza: niente consegne secondarie. Sarei andato dritto al punto, perché sì, avevo circa 60 ore di gioco… ma non ero nemmeno a metà dell’episodio 3. La storia non si sarebbe dovuta ripetere.
Così, inserito il disco nella console, aggiornato il gioco con la Director’s Cut, avvio nuovamente Death Stranding chiedendomi come sarebbe stato giocare un titolo con questo carico emozionale nel 2025, vivendo l’esperienza con tutta la consapevolezza della pandemia e delle sue conseguenze sul mondo.
Quando la realtà ha raggiunto la fantasia
Già, perché quando nel 2019 Death Stranding arrivò sul mercato non c'era ancora il sentore di una pandemia globale, e le immagini di città deserte, di esseri umani distanti e isolati sembravano appartenere solo alla fantasia di Hideo Kojima.
Nessuno avrebbe potuto immaginare che di lì a pochi mesi il mondo intero avrebbe vissuto sulla propria pelle quell’angoscia silenziosa, quella necessità di mantenere le distanze, quel bisogno di ricostruire connessioni invisibili che nel gioco si percepiscono fin dal primo passo.
Rimetterci mano oggi, nel 2025, significa trovarsi davanti a un’esperienza profondamente diversa. Non è più soltanto un viaggio attraverso paesaggi desolati o una metafora della solitudine: è un richiamo quasi spaventoso a ciò che abbiamo vissuto nella realtà.
Ogni consegna, ogni città fantasma, ogni bunker abitato da volti solitari, oggi vibra di un’intensità nuova, di una consapevolezza che nel 2019 poteva solo essere intuito, ma non davvero compreso.
È un’esperienza straniante, emozionante, a tratti persino dolorosa. Eppure, forse proprio per questo, giocare Death Stranding ora è anche più significativo che mai.
Un impatto emotivo più forte che mai
Quando un mesetto fa inserii il disco nella PlayStation 5 non avevo molta consapevolezza di ciò che stavo per affrontare.
Sì, ci avevo già giocato, ma ricordavo molto poco di quanto avevo fatto, soprattutto perché avevo diluito moltissimo gli eventi lasciandomi trasportare dai silenzi del gameplay. Una verità che oggi suona ancora più straziante e bruciante.
Fa davvero paura quanto il titolo di Kojima oggi abbia un impatto ancora più forte di quanto lo ebbe sei anni fa e quanto sia un’esperienza che proprio ora, nel 2025, assuma un significato ancora più vero e importante per l’intera umanità.
L’intensità di quanto messo in scena, per quanto potesse aver scosso gli animi dei giocatori nel 2019, assume oggi un valore che va ben oltre il viaggio di Sam dentro ai nostri schermi.
Rimettersi in cammino nel 2025 non significa semplicemente vivere un’avventura videoludica: significa affrontare paure, solitudini e speranze che ora conosciamo fin troppo bene.
La sensazione di essere soli in un mondo fratturato non è più un concetto astratto, ma qualcosa che abbiamo imparato a riconoscere, a temere e forse anche a rispettare.
Camminare in quelle terre desolate, ascoltare i silenzi spezzati solo dal fruscio del vento o dal battito incalzante del nostro cuore diventa un’esperienza stranamente familiare – fin troppo, oserei dire – al punto da rendere il viaggio di Sam ancora più difficoltoso da affrontare dal punto di vista emotivo.
Un gameplay unico e senza tempo
Al di là dell'impatto emotivo, sarebbe impossibile parlare oggi di Death Stranding senza soffermarsi sul suo gameplay tanto unico quanto, ironia della sorte, divisivo.
Il ritmo del gioco alterna momenti di estrema lentezza – chilometri percorsi a testa bassa, controvento, sotto la pioggia battente – a fasi adrenaliniche, dove la tensione sale alle stelle tra CA invisibili e assalti dei MULI. Un equilibrio strano, ipnotico, che potrebbe sembrare rischioso ma che, oggi come allora, continua a funzionare.
Pad alla mano oggi appare chiaro quanto la struttura di gioco sia destinata a non invecchiare mai: Death Stranding non rincorre il ritmo frenetico degli open world moderni, non bombarda il giocatore di missioni, icone, eventi da rincorrere.
Al contrario, ti costringe a rallentare, a pesare ogni scelta e a considerare il terreno sotto i piedi di Sam come un nemico, al pari – se non superiore – a tutti gli altri che popolano questa America distopica.
La traversata stessa diventa il cuore pulsante dell’esperienza, non un semplice riempitivo tra un obiettivo e l’altro.
È proprio questo approccio, così radicale e controcorrente, che permette al gioco di resistere al tempo senza perdere un grammo della sua forza.
Ogni fiume, ogni collina, ogni discesa, ogni piccolo ribilanciamento del carico restituiscono al giocatore un senso di conquista autentico. Quelle tanto chiacchierate traversate diventano qualcosa di eterno che non sentirà mai il peso degli anni.
Al massimo, basterà ribilanciarle un po’.
L’armonia perfetta tra gioco e narrazione
Bastano pochi minuti dall’inizio per capire che Death Stranding non è solo un’esperienza da giocare, ma anche e soprattutto da vivere e sentire. Il prologo colpisce con forza devastante: la prima consegna – il corpo della madre di Sam da cremare – arriva come un pugno nello stomaco.
Mentre ci si mette in cammino, con il carico sulle spalle e il peso della perdita nell’anima, la telecamera si allarga lentamente, aprendosi su una distesa sconfinata di verde, vento e silenzio. E poi parte Bones di Low Roar.
In quell’istante, il gioco abbandona ogni filtro, ogni distanza, e orchestra una sinfonia emozionale capace di spazzare via ogni barriera tra schermo e cuore.
Una sequenza che, a distanza di anni, continua a non avere rivali in termini di messa in scena e intensità. Uno di quegli inizi dall’impatto notevole che non avevo dimenticato dalla mia prima esperienza, e che, pur conoscendone già lo svolgimento, è arrivato forte e potente quanto la prima volta.
Di nuovo, a sottolineare quanto l’opera di Kojima riesca, anche dopo anni, a essere unica e coinvolgente.
La forza invisibile della community
A rafforzare ulteriormente questo senso di connessione c’è anche il multiplayer asincrono, che mira a creare legami laddove sembrano perduti. Mi ha stupito vedere, sei anni dopo l’uscita, una community di porter ancora viva e attiva, pronta ad aiutare.
Giocatori con statistiche ben superiori alle mie rispondevano alle richieste di aiuto, piazzando ponti e strutture che mi hanno permesso di non sentirmi solo nell’immenso silenzio che permea il mondo di gioco.
Mi hanno fatto sentire realmente ancora connesso.
Il respiro sonoro dell’isolamento
Se la regia, la narrazione e il gameplay innalzano Death Stranding a opera d’arte videoludica, il comparto audio ne è il respiro vitale.
Il lavoro di Ludvig Forssell sulla colonna sonora (non a caso premiata ai TGA 2019) e sul sound design scolpisce nell’anima del giocatore la sensazione di isolamento, desolazione, ma anche una fragile speranza.
Camminare tra vallate rocciose o attraversare campi spazzati dal vento non sarebbe lo stesso senza la precisa cura dei suoni: lo scricchiolio degli stivali sulla ghiaia, il sibilo della pioggia sulla tuta, il respiro affaticato di Sam, le risate sporadiche del BB.
E poi, improvvisi e potentissimi, i brani di Low Roar, vere e proprie àncore emotive che irrompono nei momenti più solitari.
Mai un’esplosione di suoni, mai un eccesso: solo una melodia che si insinua lentamente, raccontando senza parole la lotta silenziosa di un uomo – e di tutta l’umanità – nel disperato tentativo di restare connessi.
Un’esperienza di alti e bassi
Non voglio però far credere che Death Stranding sia perfetto. Al netto di tutto, presenta dei problemi che ieri quanto oggi appaiono evidenti.
A questo aggiungo – e questa è una nota personale – un gunplay che non mi ha mai convinto. Ho evitato gli scontri diretti il più possibile, e il fatto di poterlo fare l’ho trovato eccezionale. Tuttavia, nei rari momenti in cui il combattimento è obbligatorio, l’esperienza ne ha risentito.
Sono state le uniche fasi in cui ho collezionato numerosi game over, arrivando perfino a voler disinstallare il gioco.
Detto ciò, sono difetti marginali rispetto all’enormità di quanto Death Stranding riesce a trasmettere. Anche narrativamente, se il viaggio di Sam e la simbologia che lo accompagna sono di grandissimo impatto, la trama principale risulta meno incisiva.
A un certo punto, non giocavo più per scoprire nuovi dettagli sui personaggi, ma per il piacere stesso del viaggio, per aiutare gli altri porter, per sentirmi parte di qualcosa di più grande.
Un’esperienza destinata a restare
Potremmo stare ore a raccontare i pregi e le mancanze di Death Stranding, ma il senso di questa lunga riflessione è uno solo: celebrare una delle esperienze videoludiche più profonde che si possano vivere.
Un videogioco che, nel 2025 come nel 2099, avrà sempre senso di esistere, di essere giocato, di essere vissuto.
Un viaggio carico di significati che continuerà a crescere nel tempo, parlando all’umanità con lucidità spaventosa – qualcosa a cui, peraltro, Kojima non è nuovo.
Ed è per questo che tutti dovrebbero giocare (o rigiocare) Death Stranding : ieri, oggi, domani. Perché viaggi come questo, forse per fortuna, capitano pochissime volte nella vita.
No, non ho detto gioia
Ma noia, noia, noia
Maledetta noia
Il primo l'ho provato solo perchè lo davano gratis il secondo neanche se mi pagano.
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