30 anni di Final Fantasy VI: L’acuto finale, finale acuto

Trent’anni fa usciva Final Fantasy VI, tra le più grandi opere ruolistiche giapponesi dei nostri tempi. E sì, si merita che ne parliamo ancora.

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a cura di Adriano Di Medio

Redattore

È ancora piuttosto raro che un videogioco spenga trenta candeline; ancora più raro è quel videogioco che viene ancora ricordato non solo con il piacere della dolce nostalgia, ma anche come un’opera capace di influenzare su più livelli sia creativi che spettatori.

Per fortuna oggi ci troviamo a parlare di uno di loro: Final Fantasy VI.

Il 2 aprile 1994, proprio trent’anni fa, il gioco vedeva la luce in Giappone (in America il compleanno è il 20 ottobre; in Europa sarebbe arrivato ufficialmente solo il 1 marzo 2002, appaiato a una demo giocabile di Final Fantasy X: trovate su Amazon la remastered di quest'altro capolavoro).

E pure se non è la prima volta che ne parliamo in queste pagine, l’occasione è troppo ghiotta: laviamo via la polvere del mito per rendergli un po’ di giustizia.

«Lo SNES ha davvero fatto questo?»

La storia dietro lo sviluppo di Final Fantasy VI è incredibilmente nota, quindi la riassumiamo velocemente: nell’unico anno in cui fu sviluppato alla Squaresoft avvenne un cambiamento dietro l’altro.

L’autore originale Hironobu Sakaguchi decise di dedicarsi alla produzione lasciando la regia a Yoshinori Kitase e Hiroyuki Ito. Dove i due sarebbero divenuti persone chiave per l’azienda negli anni a seguire, con loro al timone Final Fantasy VI avrebbe osato in ogni ambito, dalla grafica all’atmosfera, fino alla trama e ai temi che avrebbe toccato.

Questo loro videogioco sarebbe divenuto l’ultimo acuto di un Super Nintendo all’apice, prima della caduta per mano di PlayStation.

Dove la “nemesi” Dragon Quest era ormai adagiata sul fantasy medieval-europeo dal feeling puro e un po’ bambinesco, aiutato anche dal segno dell’immortale Akira Toriyama, Final Fantasy avrebbe evoluto temi e contesto, portando tutto verso un’ambientazione a metà tra il fantasy e il dieselpunk, un misto di magia e tecnologia che ne avrebbe segnato la fortuna anche internazionale.

Per la prima volta per il franchise (e forse in assoluto per i videogiochi), Final Fantasy VI non si nascose dietro la necessità del “videogioco coi pupazzetti” bensì la sfruttò per mettere di fronte il giocatore al tema della perdita, della follia della guerra, della caparbietà di vivere e sopravvivere.

Ciò non sarebbe stato possibile senza sprite dettagliatissimi con i loro gesti ed espressioni squisitamente teatrali, i dialoghi arguti e i dettagli minuti di città, regioni selvagge, mostri, creature e segreti. Un’audacia tecnica che a volte si prendeva addirittura gioco dello stesso Super Nintendo, sbattendogli in faccia sequenze in cui bastava un po’ di prospettiva per dipingere l’orizzonte infinito non di uno, ma di due mondi.

C’è della magia a questo mondo…

Molti di voi ora si staranno chiedendo come mai non abbiamo ancora parlato di un protagonista. La risposta è ovvia ma anche un po’ assurda: non si può perché non c’è.

O meglio, Final Fantasy VI non ha un protagonista: può sembrare che sia Terra, visto che è la prima che compare, ma in realtà sono tredici storie che si muovono in maniera corale e sinergica.

I temi li abbiamo già detti: ribellione, perdita, speranza, vita. Il grande Impero di Gestahl sta conquistando il mondo grazie alla sua tecnologia superiore e ai blindati Magitek, esoscheletri quasi inarrestabili originati tramite l’incanalamento della magia a fini energetici.

Quello dell’Impero è un percorso che nasconde orribili abusi, che si muovono sul filo sottile dello sterminio, della disumanizzazione, della vita spremuta come un’arancia matura, della vittoria ottenuta con ogni mezzo.

Ogni personaggio deve fare i conti con la cosa, e il contrasto all’Impero è anche un modo per mostrare i risvolti distruttivi di qualcosa cresciuta troppo e troppo in fretta.

Gli Esper prosciugati dei loro poteri magici per la costruzione dei Magitek, il loro trasmettere il potere agli umani solo attraverso la morte, la cecità di un imperatore e il gioco del folle con l’equilibrio del mondo.

Final Fantasy VI: la carta matta

Ed ecco qua anche l’altra metà dello specchio, il grande antagonista. Kefka non è semplicemente un “cercatore di dominio sul mondo”, ma un giullare macabro che diventa maschera sublime della follia incarnata.

Dove Sephiroth sarebbe stato un buon proposito portato avanti con mezzi efferati e vendicativi, Kefka è irrecuperabile perché folle e perfettamente consapevole di esserlo.

Verrebbe quasi da paragonarlo a Voldemort, nel suo disgusto per l’amore e incapacità di sperimentare felicità autentica, nonché per il suo confondere quest’ultima con la soddisfazione degli istinti.

Attraverso epoche e mondi, le azioni di entrambi lasciano trasparire il medesimo principio, ovvero che la differenza non starebbe tra il giusto e lo sbagliato, ma solo tra chi è debole e chi è potente.

E chi ci può essere di più potente se non del divino? Il suo aspetto durante la fase finale (tranquilli, niente spoiler) è proprio quello letterario dell’angelo caduto, della presunzione dell’umano che vuole essere dio. Nonché ispirazione principale per lo stesso Sephiroth, angelo con una sola ala.

… Ma è meglio che non ci sia?

Certo, il fantasy come genere letterario sarebbe ben poco senza la magia. È sempre presente in queste storie, sia in forma esplicita che edulcorata. Ma Final Fantasy VI aveva dalla sua la volontà di strapparsi di dosso tutto ciò.

Del resto il videogioco si apre con un prologo che è quasi un monito: mille anni prima c’è stata la Guerra dei Magi, che ha quasi portato il mondo alla distruzione, e alla cui fine la magia ha cessato di esistere.

Pure se la localizzazione ha scelto il termine Magi (magus), in giapponese l’evento si scrive 魔大戦 (Mataisen), e contiene l’ideogramma 魔, che vuol dire anche “Diavolo” o “spirito del male”.

Terra è in qualche modo un messaggio di speranza, di conciliazione tra Esper e umani.
Da un punto di vista semiotico chi fa accadere le cose solo parlando (magari usando qualche lingua poco conosciuta, come il latino) è sia un mago che un’entità potenzialmente molto pericolosa, in quanto capace di far del male senza toccare.

Da sempre le parole sono la nostra più grande fonte di magia, per citare un altro grande mago della narrativa contemporanea.

Per tutta la trama Final Fantasy VI ci ripete quindi una verità terribile ma orribilmente reale: la magia è un errore.

È una forza enorme ma anche troppo incontrollabile, troppo sconosciuta e che mira a rimanere tale. Quando si usa la magia si sta in realtà abusando di altre creature (gli Esper), da cui gli umani parassitano le capacità.

Ma dove Celes è un altro prodotto di una condotta sconsiderata, Terra è in qualche modo un messaggio di speranza della conciliazione tra Esper e umani.

Dov’è la convergenza? Nel fatto che per gli umani la magia è troppo e nel capire che in realtà non ne hanno bisogno. Dove gli Esper sono esseri dotati di incredibili poteri, gli umani hanno dalla loro la creatività, la tecnologia, la capacità di poter immaginare l’infinito pur non potendolo costruire.

E dove la magia ha senso solo se rimane in mano a pochi, la tecnologia più è diffusa e condivisa e più diventa forte. Proprio con Final Fantasy VI Kitase, Ito, Sakaguchi e tutti i loro collaboratori hanno per la prima volta ribadito che Final Fantasy come franchise è maestoso perché ogni volta racconta dell’ultima volta (l’ultima fantasia) in cui la magia ha avuto un ruolo nel plasmare il destino di un mondo, e nell’aver insegnato a quest’ultimo ad andare avanti senza di lei.

Final Fantasy VI e la lirica del JRPG

Per quanto poco citata, la Guerra dei Magi ha un’inaspettata importanza all’interno del retroterra narrativo di Final Fantasy VI. Interessante come le sue motivazioni sottese si celino dietro il conflitto di tre entità divine, le quali successivamente coinvolsero anche Esper ed umani nella loro diatriba.

Questa guerra degli dèi sarebbe stato argomento di mitologie; è piacevole pensare come una simile premessa avrebbe nella videoludica di oggi le carte in regola per fungere da evento scatenante di un Souls o di uno Zelda.

Ma non finisce qui: non era sensazionalismo quando abbiamo definito Final Fantasy VI “ultimo imperioso assolo” di un Super Nintendo prossimo al crollo. Perché l’allora Squaresoft ha fatto proprio questo, osando in un modo ancora oggi inimmaginabile: ha inserito nella sua storia un momento lirico, un’aria d’opera appositamente scritta con tanto di testo in italiano.

Che sia la sola nota riprodotta dalla console o cantata da un soprano, ci rifiutiamo di descrivere oltre Aria di Mezzo Carattere. Oltre a essere uno dei picchi di Nobuo Uematsu, è anche qualcosa che va vissuto e rivissuto. E vi raccomandiamo di vestirvi eleganti quando giocate quella sequenza.

Conclusione: L’aria del cambiamento

Forse un giorno ci divertiremo anche a parlare della caotica storia editoriale di Final Fantasy VI, tra rititolazioni, porting, restauri discutibili, traduzioni alla carlona e censure che oggi fanno più sorridere che scandalizzare.

Così come sarà interessante evidenziarne i difetti, o quelle lungaggini e rigidità a cui non siamo più abituati, rimasugli folkloristici di un’epoca ormai lontana. Non è questo il giorno, perché oggi abbiamo ricordato perché Final Fantasy VI non sia stato minimamente scalfito da tutte queste trivialità.

Ancora lontano dalle esplorazioni delle tre dimensioni fatte con il VII e il VIII, dalla bellezza a olio del IX e dal poema epico del X, Final Fantasy VI è un disco d’orchestra che gira veloce e che ci parla d’amore come ogni grande classico.

E si può solo essere contenti che sia qui per restare, anche grazie alla recente Pixel Remaster, sviluppata con la buona creanza di non mettere aiuti totalizzanti, ma di far vivere un’esperienza che sia un giusto falso d’autore.

«A mani nude, vecchio mio».