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Recensione

Smetto quando voglio - Ad honorem, la recensione

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Avatar di Gottlieb

a cura di Gottlieb

Pubblicato il 23/11/2017 alle 00:00
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Il Verdetto di SpazioGames

7

Sydney Sibilia è un esteta del cinema. Lo aveva accennato nei suoi primi due lungometraggi, ma lo ha confermato con Ad Honorem, la terza declinazione del suo Breaking Bad à l’italiana. Lo è nonostante la fotografia che ci propone, nel terzo film sicuramente più gradevole di quella verdognola che aveva accompagnato le prime due produzioni; lo è nel proporci i time lapse degli angoli di Rebibbia, lo è nel mostrarci La Sapienza con modi quasi malinconici e nella gestione degli slowmo per presentare i suoi protagonisti, le sue maschere. Per questo, ma anche per tanti altri motivi, Smetto quando voglio – Ad honorem riesce a essere una commedia che funziona, non tanto quanto le precedenti due, ma pur sempre quanto basta.

La droga legaleAvevamo lasciato Pietro Zinni (Edoardo Leo) e la sua gang dei professori invischiati nell’inganno ardito dalla polizia romana, che dopo averli sfruttati per scovare Sopox ha deciso di abbandonarli dietro le sbarre di carceri diversi, separati tra di loro, per arginare l’imprevedibilità del gruppo. Mentre quindi Zinni è alle prese con le visite dallo psichiatra, a causa del suo continuare a insistere sull’esistenza di un criminale pronto a utilizzare del gas nervino per una strage su larga scala, un nuovo antagonista si fa spazio sullo sfondo della trilogia. Se d’altra parte il Murena (Neri Marcoré) era stato semplicemente un concorrente nel raket della droga, stavolta con Walter Mercurio (Luigi Di Cascio) l’obiettivo del regista, Sibilia, è quello di creare un vero e proprio cattivo, dalla morale perversa. Non era sicuramente un compito facile, essendo Smetto quando voglio nato sotto la stella della commedia, del genere che deve far ridere in maniera scanzonata, ma così come il tentativo anche la riuscita è gradevole. Walter è un professore che anela la vendetta e anche se il suo personaggio è costruito con numerosi stereotipi dell’antagonista senza scrupoli, ma allo stesso tempo accorto anche alle minuzie figlie del background accademico, riesce a essere l’antagonista di cui il film ha bisogno. La dicotomia, quindi, tra Zinni e Mercurio si sviluppa fino a coinvolgere tutti gli altri elementi della band, che più dei due precedenti film ha un ruolo marginale, relegato a qualche battuta qui e lì, anche molto estemporanea. Molti dei componenti perdono il proprio charme, perdendo anche quei pochi minuti di monologo che nel primo e nel secondo capitolo erano andati a impreziosire le loro interpretazioni: è l’esempio di Bartolomeo (Libero De Rienzo), in ripetute occasioni anche abbastanza fastidioso e ridondante con le sue fisime, ma per fortuna restano in auge alcuni altri personaggi, come l’antropologo Andrea (Pietro Sermonti), forse l’unico della band insieme con Alberto Petrelli (Stefano Fresi) a reggere il peso del ruolo che ricopre: le menti più brillanti d’Italia.

La rosa della risataSmetto Quando Voglio – Ad Honorem riesce in quello che era il suo compito principale, lontano dalla missione nei confronti dello spettatore: la crescita del personaggio di Pietro Zinni. Da professore incapace anche solo di farsi pagare per le ore di ripetizioni concesse ai suoi studenti, l’ex accademico è oramai un uomo fatto e finito, che agisce con grande coraggio e che riesce ad architettare piani sicuramente più elaborati delle sue lezioni all’università. Un riscatto sociale che per quanto non sia riconosciuto dalle istituzioni, che non legittimano le azioni della band dei professori, è sotto gli occhi dello spettatore. Pietro Zinni è stato riscattato agli occhi dello spettatore. C’è comunque da sottolineare che il messaggio scanzonato che inizialmente era dietro il progetto di Sibilia sia diventato qualcosa di molto più grande e di più aulico: il precariato, raccontato a modo suo, ha quasi del tutto abbandonato la commedia per arrivare a uno stallo alla messicana, quasi da film western, con armi da fuoco e attentati su larga scala da evitare. Pur ritrovandosi in una situazione più grande della loro, però, tutti i componenti della band riescono a dare il meglio di loro, limitatamente alle capacità che li hanno resi facenti parte delle menti più brillanti d’Italia. Il modo in cui i dialoghi vengono proposti è funzionale, c’è un’ottima commistione tra tragico e comico, così come la continuità temporale è salva, grazie al riciclo di alcune scene che erano già state mostrate tra la fine del primo capitolo e nel mezzo del secondo. Ad Honorem serve, d’altronde, soprattutto a questo: a chiudere tutti i dubbi che erano sorti e a fornire allo spettatore tutte le soluzioni ai quesiti che all’inizio di quest’anno ci eravamo posti, oltre che mettere in ordine tutte le clip che compivano degli sbalzi temporali. C’è in ogni caso da dire che l’idea di diluizione che si trova dietro al film di Sydney Sibilia è forte e trova giustificazione nel fatto che il terzo capitolo sia stato girato contestualmente al secondo, come un’unica grande pellicola. Quello che è certo è che la band dei professori ci mancherà, così come resta da fare un plauso al giovane regista salernitano per aver messo in piedi un cast che rappresenta, a oggi, la creme della commedia (quella prettamente comica e gradevole) italiana. 

– Un cast variegato…

– Tutti i nodi vengono al pettine

– La commedia abbraccia il thriller

– … ma stavolta poco sfruttato

– Alcuni momenti eccessivamente diluiti

7.0

Sydney Sibilia, come avevamo già avuto modo di apprezzare con il primo Smetto quando voglio, ha un gusto particolare per il cinema, ha dimostrato di essere un fine esteta della telecamera. Quello che ha dimostrato con questa sua trilogia d’esordio è ancora più importante dal punto di vista narrativo: dall’arrivo del primo film, che venne bollato come il Breaking Bad italiano, a oggi è completamente cambiata la percezione della saga. Nessuno ha più parlato di ispirazioni transoceaniche, perché Smetto quando voglio ha saputo trovare la sua identità, così come Sibilia, che ha piano piano lasciato scemare anche quella fotografia verdognola che un po’ tutti gli avevano contestato. Anche se non entrerà nel firmamento della storia del cinema italiano, la saga creata dal giovanissimo regista salernitano diventa una perla cinematografica nel momento in cui ha dimostrato di saper reggere la responsabilità di tre film, tutti di buona qualità. Con il terzo che, però, cede un po’ il passo ai precedenti due. Ora lo aspetta la prova più difficile: confermarsi con un progetto completamente nuovo.

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