PS Store cancella la storia: un archivista ci spiega perché è un problema

Digitale e fisico, cloud, pirateria: qual è la strada per la conservazione dei videogiochi?

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a cura di Paolo Sirio

Il caso, un po' anche caos, della chiusura di PS Store sulle piattaforme “legacy” di Sony ha riaperto una ferita mai chiusa, un dibattito sempre aperto, legato alla conservazione dei videogiochi e della memoria storica di quest'industria. E, in un momento in cui le compagnie del gaming diventano grandi quasi o forse più dei giganti della tecnologia, in una fase nella quale si va persino oltre il digitale pensando al cloud, fa specie già che siamo qui a discutere di un argomento del genere.

Con una mossa repentina ma non di certo inaspettata, uno dei colossi del settore darà un colpo di spugna a 2200 titoli PlayStation sparsi tra PSP, PS Vita e PS3, che come per magia si ritroveranno esclusive console Xbox e PC; addirittura, 138 non potranno più essere acquistati per un possesso digitale, il che vuol dire che se li avete già comprati, li avete fisici o avete (per una manciata di loro) un abbonamento ad un servizio on demand, bene, sennò addio.

Ciò significa che, al netto della crescita del business dovuta alla pandemia e al progressivo invecchiamento del preconcetto “nerd”, letteralmente nessuno è al riparo dal rischio dell'oblio: non lo è una piattaforma di grande successo come Wii, il cui store digitale è durato appena 13 anni nonostante avesse venduto oltre 100 milioni di unità (cancellando addirittura gli acquisti fatti online), né una uscita da relativamente poco – PS Vita è arrivata nei negozi poco più di un anno prima di PlayStation 4.

E questo ci dice fondamentalmente che ad oggi stiamo mettendo la nostra passione, i nostri ricordi e, elemento non da poco, i nostri soldi in mano ad etichette come Sony e Nintendo che, non ce ne vogliano, nel giro di 10-15 anni smontano baracche e burattini, passando alla loro next big thing senza guardarsi alle spalle (e senza alcun rimorso: legalmente, una console come PSP Go dal prossimo luglio non servirà in pratica più ad alcunché).

È una faccenda, evidentemente, di mentalità: i videogiochi non si vedono ancora come un'industria culturale, ma vivono se stessi quali intrattenimento usa e getta – finito un gioco si passa ad un altro che sarà sicuramente migliore. «È letteralmente instillato nel loro business model che il prossimo gioco è sempre il più eccitante, quello che devi avere, e che il precedente è ora obsoleto», e questo, spiega Iain Simons (responsabile della cultura al National Videogame Museum di Sheffield) a GamingBible, è il motivo per cui siamo così indietro rispetto a musica e cinema sull'argomento della conservazione.

Ma l'espansione e la crescita di un settore non possono iniziare da un punto stabilito arbitrariamente, che sia il migliore in termini di qualità o meno (chi lo decide che sia il migliore, poi, resta da vedere), e soprattutto non può non passare per il rispetto di una memoria storica comune. Il PC, con iniziative antesignane come quelle dello store GOG.com, ha tanto da insegnare e nel mondo console non a caso è stata solo Microsoft, azienda con una lunga tradizione in quel ramo, a raccogliere la sfida: Xbox Series X ha ancora diversi limiti a livello di catalogo ma, per ora, è quanto più si avvicini a quel risultato in salotto, implementando addirittura taluni miglioramenti come un aumento della risoluzione, l'applicazione di filtri disparati, l'Auto HDR e l'FPS Boost – in gran parte dei casi senza che gli sviluppatori debbano muovere un dito.

Perché è importante la conservazione dei videogiochi?

Ma perché è importante la conservazione dei videogiochi? Abbiamo girato questa domanda (e tante altre) ad Andrea Dresseno, responsabile dell'Archivio Videoludico nato nel 2009 presso la Fondazione Cineteca di Bologna con l'obiettivo di salvaguardare il patrimonio storico del medium e testimoniarne l'importanza culturale.

Stuzzicato sull'argomento, l'archivista parla subito di «patrimonio ormai cospicuo» che corre il rischio di essere perduto irrimediabilmente. «Il videogioco non è un medium così giovane e senza adeguate pratiche di preservazione potremmo perdere una quantità notevole di giochi, in particolare quelli più vecchi che non hanno mai ricevuto una distribuzione digitale».

Quando si parla di conservazione, tuttavia, non si fa riferimento soltanto al mero riscatto di una key e alla possibilità continuata nel tempo di accedervi. Confezioni e manuali sono ugualmente «materiale prezioso», echi sempre più lontani di un'epoca che, spesso con il pretesto dell'ambientalismo, si è praticamente chiusa.

«Vero è che esistono i collezionisti, ma si tratta di fondi privati, non accessibili a chiunque. Il tema della conservazione deve andare di pari passo con quello dell'accessibilità pubblica», ammonisce del resto l'archivista, richiamando per la prima ma non ultima volta il tema della responsabilità statale e comunitaria: le compagnie che operano nel settore sono private e agiscono in base a logiche legate a bilanci, e nel momento in cui entrano in gioco i freddi numeri c'è poco da biasimare.

«Conservare permette inoltre di costruire una solida base per la diffusione di una cultura legata al videogioco, perché attraverso la memoria storica si possono concepire percorsi di riflessione e ricerca», in aggiunta, e questo vuol dire che se un giorno, per una tesi o per un articolo o per il design del vostro gioco, vorrete consultare la squisita fusione tra direzione artistica e giocato dell'italiano Murasaki Baby, avrete grossi problemi già solo nel reperirlo.

Eppure, si potrebbe ribattere che i giochi acquistati potranno essere ancora scaricati, e che non si capisce perché si stia montando un caso così rumoroso sulla chiusura del PlayStation Store per le piattaforme più datate di Sony. «Questo in parte può essere visto come un elemento rincuorante. Quando nel 2019 venne chiuso lo store digitale di Wii se ne andò anche la possibilità di riscaricare titoli regolarmente acquistati», è la giusta osservazione del nostro ospite su questo punto.

E, d'altronde, è bene sottolineare che la disponibilità al download pure con il negozio offline non è un dogma e che pure quest'altra spina potrebbe essere staccata presto o tardi, quando i conti non torneranno più. «Non sappiamo fino a quando sarà possibile riscaricare i propri giochi», spiega infatti Dresseno, e «in seconda battuta, penso a tutti quei titoli disponibili solo in formato digitale ed esclusivamente su quelle tre piattaforme: come potremo recuperarli dopo luglio/agosto 2021? Eventi come questo mettono appunto a repentaglio la salvaguardia e, soprattutto, l'accessibilità di titoli distribuiti esclusivamente in formato digitale».

Il tema dell'accessibilità è un dettaglio di non poco conto: le compagnie attive nel gaming dovrebbero operare per rendere più facile il raggiungimento di tutti i loro titoli, a cominciare dai classici per il valore storico, culturale e artistico che rappresentano, mentre in questo caso specifico «rendono più difficoltoso accedere a una consistente quantità di videogiochi».

Il cloud potrebbe dare una mano (e persino i remaster)

Con un tempismo tutt'altro che casuale, Microsoft – che da anni batte sul tasto della retrocompatibilità, più che per filantropia, perché sa che si tratta di una nota dolente in una concorrenza che sta facendo finta di niente su un'intera generazione (quella di PS3) – ha annunciato l'arrivo dei suoi classici sul cloud. Una mossa che, nonostante sia legata al paywall di un abbonamento come Xbox Game Pass Ultimate, potrebbe rappresentare la strada giusta o almeno l'inizio di un percorso positivo.

«Ben venga l'attenzione di Microsoft per il cloud gaming o la retrocompatibilità: sono dopotutto forme comode di accessibilità a posteriori», è il pensiero del responsabile dell'Archivio Videoludico, il cui intento principale sembra l'accessibilità dei contenuti a prescindere da dove, e persino come, vengano presentati. «Ho sempre giudicato positivamente qualsiasi pratica consenta di far giocare oggi titoli del passato. Persino le remastered, spesso molto criticate, sono secondo me ottime modalità per far riscoprire i classici di una volta. Nulla vieta di pensare che, a partire dalla remastered, un giocatore o una giocatrice possa poi decidere di tornare all'originale, anzi, potrebbe essere uno stimolo».

L'ideale sarebbe ovviamente far funzionare le copie fisiche e digitali che sono già in nostro possesso, magari, in un futuro, in collegamento con dei server che potrebbero riconoscerne la proprietà e non richiedere quel paywall – com'è anche il caso di PlayStation Now, spesso il solo modo per gli utenti PS4 e PS5 per riprendere i classici dell'era PlayStation 3.

PS Now rappresenta «una soluzione», secondo VGC, poiché degli 800 giochi ora offerti dalla piattaforma di streaming 134 sono titoli solo digitali proprio del catalogo di PS3 (pensiamo a Rain, per fare un nome). Ma «questo non sarà considerato ideale per molti giocatori. Il game streaming è ancora lontano dall'essere perfetto, e alcuni giochi (in particolare quelli con grafica veloce come i racing o i titoli di Sonic) possono finire con l'essere estremamente pixellati su PS Now, dove il lag è una realtà sempre presente».

Inoltre, alla luce di quello che sta accadendo su PlayStation Store e al ricalibramento promesso da Sony per il servizio (che non sappiamo ancora cosa farà da grande), «non c'è alcuna garanzia che questi giochi rimarranno sulla libreria di PS Now per sempre – o persino che lo stesso PS Now rimanga attivo per un lungo tempo».

Dresseno tiene a sottolineare che «sono pur sempre aziende, non enti di beneficenza. Credo sia naturale che un'azienda voglia vendere i propri prodotti, siano essi vecchi o nuovi». A tal proposito, però, «l'accessibilità gratuita dovrebbe semmai essere garantita da altri soggetti (enti pubblici, istituzioni culturali, ecc.). Ciò non toglie che una collaborazione pubblico-privato possa rivelarsi la soluzione migliore, soprattutto per un contesto "costoso" come quello videoludico».

Ma, specialmente in un Paese come il nostro che ha varato soltanto da pochi mesi e tra mille difficoltà ideologiche un piccolo fondo per gli sviluppatori di videogiochi, un ragionamento simile appare come un'utopia più lontana di Rapture.

La pirateria è l'unica strada?

In tanti stanno usando questi accadimenti per lanciarsi in apologie della pirateria, una piaga endemica del gaming che è stata spesso ritenuta alla base del successo o meno di una console e, sebbene sia stata fortemente ridimensionata nel giro di un paio di generazioni, miete ancora vittime – che siamo noi consumatori, chiamati a pagare di più per compensare incassi che non arrivano, o gli sviluppatori, che perdono lavoro e chiudono studi quando i loro prodotti non hanno un successo “ufficiale”.

Senza mezzi termini, la pirateria è sbagliata e pensare ad un patto col diavolo per dare una mano alla conservazione della memoria storica in qualunque medium è un errore grossolano, che si rivela sì una strada facile e immediata nel piccolo di un privato ma sottolinea, con la penna rossa, cosa sia andato storto nell'affrontare l'argomento come comunità.

«Certo è che quando un gioco smette di essere accessibile attraverso canali legali, non ci si può poi stupire se qualcuno decide di rivolgersi a canali meno legali, né ci si può stupire se vengono pubblicati articoli e post che, forse anche con tono provocatorio, dichiarano che la pirateria sia l'unico modo per preservare la storia dei videogiochi. Come vedi, è sempre una questione di accessibilità. L'utente deve essere facilitato nell'accesso alle opere, sia esso gratuito o a pagamento», asserisce l'emiliano, pur precisando che «mi occupo di un archivio di videogiochi, per cui semmai vi consiglierei di venire a fruire di quel gioco in archivio».

«Però è giusto riflettere sulle cose, porsi delle domande, se necessario lanciare delle provocazioni affinché l'attenzione venga posta su tematiche che devono prima o poi essere affrontate, anche a livello istituzionale», aggiunge, ed è una considerazione che lo trova allineato a Simons, secondo cui «non possiamo far finta che [la pirateria] non esista. Dato che il nostro interesse è documentare le complesse storie della cultura dei videogiochi, lo sviluppo e l'industria, fare ricerca e raccontare le storie della pirateria è fondamentale nello sviluppare la nostra comprensione».

Attraverso questo mezzo, pensiamo ad esempio all'emulazione, si perde però una parte essenziale dell'esperienza. Per le piattaforme con gimmick come i controlli di movimento in stile Wii, la conservazione del prodotto non passa solo attraverso il semplice software, che perderebbe parte della sua integrità senza una determinata periferica.

«Da archivista ritengo che giocare un titolo sulla piattaforma per cui è stato concepito sia sempre l'esperienza migliore, se non altro dal punto di vista di chi fa ricerca», commenta Dresseno. «Certo, talvolta può essere scomodo, altre volte richiede particolare pazienza (chi ha detto caricamenti del C64?), però il vero 'storico del videogioco' non può prescindere dall'esperienza originaria. Per cui l'unica via è quella di conservare le piattaforme e i controller d'epoca e di renderli fruibili il più possibile».

Ovviamente, si tratta di una prospettiva teorica: nella pratica, aggiunge, ci sono tante collection che fanno degnamente il loro lavoro adeguando in maniera sottile i comandi originali a quelli moderni e rappresentano «compromessi il più delle volte accettabili». Molto dipende «dagli obiettivi di chi fruisce l'opera» e, se parliamo ad esempio di un recupero tematico, narrativo, delle atmosfere, quando ben fatto un port su una Xbox o una PlayStation non dovrebbe fare particolari danni, anzi.

La sconfitta del digitale?

Più o meno allo stesso modo, c'è chi sta vedendo nelle chiusure di PlayStation Store un'affermazione della vittoria fisica sul digitale – l'onda anomala dei “te l'avevo detto” potrebbe aver causato uno tsunami da qualche parte sulla Terra. Ma è davvero così, in un momento in cui la transizione digitale viene ormai data per assodata (sebbene non ancora completa) e si sta pensando a quella sul cloud?

«I dati in realtà ci dicono tutt'altro, ovvero che il digitale sta prendendo sempre più piede a discapito del supporto fisico», è la corretta osservazione dell'archivista, sostenuta dai numeri che abbiamo pubblicato di recente relativi alle vendite dei big e nel complesso dell'andamento del mercato negli ultimi tempi.

«Dubito che il trend possa cambiare», aggiunge a proposito dello shock impresso dalla notizia, «però è bene fare attenzione ai limiti di un supporto che di fatto non possediamo e che è sempre in balia degli store (che appunto possono chiudere) o degli aventi diritto (penso a quei giochi rimossi dai negozi online per questioni legate ai diritti). Un formato che è volatile per definizione».

Quelli che cantano vittoria stringendo tra le mani la confezione magari sigillata di un classico potrebbero presto essere beati, ma «nemmeno la copia fisica offre comunque sufficiente garanzia: prima o poi i supporti si deterioreranno, per esempio, e non saranno più leggibili, o le piattaforme su cui li giochiamo potrebbero abbandonarci e non funzionare più».

Non c'è via d'uscita, allora? Rimanendo nell'alveo dell'industria così com'è oggi, parrebbe di no: la tensione è sempre a creare qualcosa di tangibilmente nuovo e lo abbiamo sottolineato parlando del design (e di alcune delle funzionalità) di PS5; nella stragrande maggioranza dei casi, l'interesse delle grandi aziende è a rompere col passato per presentarsi come rivoluzionari e irrinunciabili, non a preservarlo e curarlo.

E, visti i ritmi di una società che genera un fenomeno non più all'anno, non più a stagione, non più al mese ma ormai alla settimana, non stupisce che discutere di retrocompatibilità e salvaguardia culturale sia quasi una noiosa conversazione da boomer quando dovrebbe essere una conquista assodata - specie se parliamo di titoli della prima PlayStation, di una PSP o di una PS Vita, non esattamente di dispositivi antidiluviani.

«Qualsiasi soluzione secondo me non può essere affidata a un soggetto unico. Le aziende produttrici e gli studi di sviluppo difficilmente possono avere tra i loro focus principali quello della salvaguardia, ed è comprensibile», è il parere del responsabile dell'Archivio Videoludico.

«D'altra parte, sul fronte pubblico mancano del tutto politiche di conservazione che abbiano per oggetto il videogioco, probabilmente anche per ragioni economiche: la conservazione è una pratica costosa e complessa» e figurarsi se nelle condizioni sociali in cui versiamo oggi un intervento simile troverebbe il favore della collettività. «Per questo si dovrebbero forse pianificare soluzioni che coinvolgano i diversi attori: sia per suddividere gli sforzi, sia per arrivare all'obiettivo in maniera solida, condivisa e strutturata».

Il ruolo del giocatore

Come accennavamo poco fa, spesso il giocatore, già di per sé storicamente un amante delle esperienze single-player e questo dovrebbe dirla lunga, guarda al suo orticello: pirateria, emulazione e tutti questi discorsi lo mettono in condizione di recuperare quello che gli interessa, talvolta cancellando in pochi minuti il materiale che ha scaricato senza grossi scrupoli di coscienza, ma la cosa finisce lì. In un certo senso, addomesticati dalla cultura dell'hype, non siamo sempre migliori di quelle corporazioni che chiudono gli store e buttano via la chiave, talvolta chiudendoci fuori dagli acquisti che avevamo fatto soltanto pochi anni prima. Ma c'è qualcosa che possiamo fare, evidentemente, per rompere questo circolo vizioso.

«Innanzitutto, a un livello base, possiamo far sentire la nostra voce, esprimere le nostre esigenze. Possiamo contribuire a diffondere dal basso la cultura del videogioco, per far capire la ricchezza del medium e quanto sia importante conservarne la storia», spiega Dresseno a tal proposito, e ciò sta già avvenendo con una petizione lanciata online per provare a far desistere Sony (una goccia nel mare, ma da qualche parte bisognerà pur iniziare). E «possiamo poi cercare di uscire dagli schemi e di approcciare al medium con apertura e curiosità. Là fuori c'è una varietà incredibile di opere, eppure le classifiche italiane ci mostrano ogni anno una certa "chiusura" da parte del pubblico».

«Possiamo infine continuare ad arricchire le nostre collezioni, salvare individualmente il più possibile. E magari un giorno, quando ce la sentiremo, mettere a disposizione degli altri quanto raccolto. In Archivio ci è capitato spesso di ricevere donazioni da parte di privati che magari avevano smesso di giocare e preferivano condividere i loro giochi invece che tenerli in soffitta».

Qualora doveste ascendere ad uno stato di santità videoludica e voleste condividere una parte della vostra collezione, in modo che rimanga a disposizione di tutti alla faccia dei negozi che chiudono, «l'Archivio Videoludico della Cineteca di Bologna è nato nel 2009 col duplice obiettivo di conservare il patrimonio storico e di promuovere percorsi di studio e ricerca».

«Il fondo dei giochi conservati (circa 6000 ad aprile 2021; 34 le piattaforme di gioco) è il fulcro del progetto ma anche il perno attorno al quale ruotano tutte le attività (i laboratori didattici nelle scuole, il Premio AV per le migliori tesi sul videogioco, ecc.) e gli altri fondi: quello dei libri a tematica videoludica, delle tesi e delle riviste specializzate. Tutto il materiale è liberamente accessibile per la consultazione all'interno di appositi spazi. Gran parte del materiale ci viene donato da produttori e studi di sviluppo, negli ultimi anni sempre più spesso in formato digitale. Per cui», tristemente, «noi per primi viviamo le chiusure degli store con un certo timore».

Quello dei giochi persi per sempre è, più che un timore, la triste realtà di un'industria sempre in movimento, che per anni non ha avuto interesse e neppure gli strumenti per preservare il frutto del proprio lavoro. Se vi state chiedendo come mai Snatcher di Hideo Kojima non sia mai stato oggetto di remaster o semplice ripubblicazione, la risposta data da una fonte di GamingBible vi farà rabbrividire: «Konami semplicemente non ha più il codice».

È una storia raccontata con efficacia da Jason Schreier nel suo ultimo libro, Press Reset, in uscita a maggio, nel quale viene cristallizzata la volatilità del settore da tutti i punti di vista: negli anni '80 e '90 i codici venivano persi quando gli studi venivano chiusi perché nessuno si preoccupava di entrare fisicamente negli uffici e andare a recuperare tutto quello che vi era rimasto, e allo stesso modo con grande frequenza non si faceva neppure in tempo ad effettuare copie di backup (e neppure c'era quella cultura. I giochi uscivano nel giro di uno o due anni oppure persino mesi, in qualche circostanza senza nemmeno una grossa documentazione in termini di design) prima che gli sviluppatori venissero “invitati” a lasciare seduta stante il loro posto.

La speranza è che questo sia soltanto un retaggio del passato, che adesso che si parla così tanto di “IP” ci sia un minimo di cura nella materia di cui sono composte e che non ci ritroviamo tra venti o trenta anni a discutere del codice perso di un Cyberpunk 2077. Per amore dei propri interessi, almeno, visto che la brutta faccenda di PlayStation Store ci mostra che la preservazione dei videogiochi e del valore culturale che rappresentano, e non di rado il rispetto del giocatore in quanto consumatore, interessano ancora a pochissimi.

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