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Bruce Straley (ex Naughty Dog) sulla dissonanza ludonarrativa e l'importanza di creare nei videogiochi

Bruce Straley, ex direttore di Naughty Dog su giochi come Uncharted e The Last of Us, discute dell'importanza di innovare nei videogiochi – e di fare a meno di sparare

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a cura di Stefania Sperandio

Editor-in-chief

Pubblicato il 07/01/2020 alle 15:38 - Aggiornato il 08/01/2020 alle 14:01

I videogiochi sono un’industria più grande che mai, in questo momento. Sappiamo che il gaming fattura numeri da capogiro, così come sappiamo che ci sono sempre più produzioni indie che sperimentano con meccaniche e comparti narrativi unici, capaci di distinguersi e di osare. Cose che, di recente, sta cominciando a tentare anche l’industria AAA, prendendosi dei rischi e dando maggior equilibrio alle necessità del gameplay e della storia, anziché sbilanciarsi prepotentemente verso il primo.

Cosa succede, infatti, quando il gameplay prende il sopravvento su quello che si vuole raccontare? Si crea una dissonanza ludonarrativa. Si tratta di un tema che abbiamo già trattato sulle nostre pagine, e un caso particolarmente famoso fu quello del reboot di Tomb Raider: all’idea della scrittrice Rhianna Pratchett di una giovane Lara che aveva appena concluso gli studi e affrontava i suoi primi traumi (e il primo omicidio) sull’isola di Yamatai si legavano, infatti, le necessità del sistema di gameplay scelto da Crystal Dynamics, in cui nel giro di qualche minuto la giovane archeologa si trasformava in una macchina da guerra capace di uccidere centinaia di nemici.

tomb raider humble store

Si tratta di un problema che, secondo Bruce Straley, si è presentato anche in Uncharted, e che Naughty Dog – software house in cui è stato co-director e che ha lasciato di recente – ha risolto con il successivo The Last of Us.

La dissonanza ludonarrativa secondo Naughty Dog

Intervistato dai colleghi di GamesIndustry, Straley ha spiegato che, sebbene Nathan Drake venga introdotto come un uomo tranquillo che va in cerca delle sue avventure, nel corso delle meccaniche di gameplay di Uncharted si trasforma, di fatto, in tutt’altro che il tizio medio e piacevole, considerando che uccide centinaia e centinaia di nemici. Anche in questo caso, ha esposto il direttore, era una necessità legata al gameplay, che niente aveva a che fare con la caratterizzazione del personaggio:

Nathan Drake è un uomo d’azione e avventura, ma la minaccia che affronta è una minaccia ‘da videogioco’. L’antagonista, in un videogioco, di solito ti manda contro i suoi minion, in maniera tale che devi affrontare degli ostacoli, se vuoi portarti a casa il tesoro. Che si tratti di un puzzle game o di uno shooter, devi proporre delle meccaniche interessanti per fare in modo che il giocatore rimanga coinvolto. È il nostro problema in quanto game designer: nel 2007, l’industria era esattamente al punto in cui eravamo noi. Non avevamo ancora i mezzi, o se vogliamo dire la chiarezza, che abbiamo adesso come autori di videogiochi.

Ecco perché una dissonanza ludonarrativa come quella di Uncharted non venne nemmeno avvertita in modo particolare – non, sicuramente, come la si avvertì nel 2013 in Tomb Raider. Anzi, secondo Straley quanto proposto, anche nella caratterizzazione netta di Drake, era rivoluzionario per l’epoca: nei videogiochi c’erano molti eroi muti, che accoglievano in qualche modo “l’anima” del giocatore. Nathan, invece, parlava e aveva una personalità tutta sua. Così, se prima le emozioni dell’utente diventavano direttamente quelle del protagonista (che era di fatto “vuoto”), con personaggi come Drake invece c’erano le vere emozioni del personaggio, che dovevano essere espresse nel comparto narrativo.

La soluzione di The Last of Us

Così, se Drake diventava un assassino inarrestabile per motivi di gameplay, pur avendo dalla sua il fatto di essere un personaggio a 360°, Naughty Dog ha trovato in seguito un modo di ovviare alla dissonanza ludonarrativa: fu con The Last of Us. Nel mondo di gioco proposto da questo titolo post-apocalittico, infatti, le minacce sono ovunque ed è necessario essere disposti a uccidere, per sopravvivere. Ecco perché le mani sporche di sangue di Joel (o di Ellie) stonano molto meno di quelle di Nathan.

the last of us

Nelle parole di Straley, che parla del mondo creato per The Last of Us:

Vedendo che c’era un problema nella costruzione del mondo, siamo riusciti a creare una minaccia che potesse mettere in gioco molta posta. Questo ti fa realizzare, come giocatore, che ti stai giocando davvero molto, che gli altri esseri umani che incontri all’interno del mondo sono motivati dalla necessità di sopravvivere. Ogni personaggio di The Last of Us ha una sua bussola morale, dalla quale viene guidato: questo significa che potrebbero perfino ucciderti per un paio di scarpe o una bottiglia d’acqua, perché questo potrebbe significare che riusciranno a sopravvivere per un altro giorno, in un mondo come quello che avevamo creato.

Un mondo in cui la violenza è, insomma, di casa – e il fatto che Joel ed Ellie vi ricorrano non sempre più piovere dal cielo per pure necessità di gameplay, secondo Straley.

Si possono creare videogiochi dove non si spara?

La riflessione di Straley è andata avanti quando l’autore si è interrogato in merito alla possibilità di creare videogiochi in cui non ci sia affatto bisogno di sparare, in cui uccidere o prevalere su qualcuno o qualcosa non sia la sfida centrale dell’esperienza. Come spiegato da lui:

Si può creare un gioco che sia interessante, coinvolgente e con al centro i suoi protagonisti, come le storie di Uncharted e The Last of Us, senza che si spari? Io penso di sì. Ovviamente, il concetto da cui partire deve essere ‘come posso creare un mondo che sia abbastanza ricco da consentire di avere comunque delle interessanti meccaniche chiave?‘.

uncharted 4 gun

Straley ammette, insomma, che (come di recente disse anche Mamoru Oshii, se ricordate, in un video a proposito di Death Stranding), spesso di tenti di scegliere la via della sparatoria, come base del gameplay, semplicemente perché si è certi che coinvolga facilmente, che il tipo di intrattenimento che offre sia immediato, facile da interiorizzare e padroneggiare, senza prendersi troppi rischi – e fa da facile motivatore. Per fare qualcosa di diverso, spiega Straley, bisogna farsi delle domande:

Dobbiamo mettere i giocatori in una posizione in cui possano essere coinvolti dal bisogno di superare gli ostacoli che verranno, il che significa che le meccaniche chiave del gioco dovranno offrire opportunità sufficienti da ingegnarsi con una soluzione.

Red Dead Redemption 2, Death Stranding, Inside e il bisogno di rischiare

Nel suo ragionamento, Straley ha evidenziato come i videogiochi propongano, oggi approcci diversi rispetto a quanto facevano all’epoca del primo Uncharted. Quando si cerca di mettere l’esperienza al centro, senza che lo sia necessariamente anche un conflitto che si incentri sullo scontro diretto e sui combattimenti, si può offrire qualcosa di diverso.

Ora, i videogiochi hanno ritmi diversi e si prendono anche dei rischi diversi. Lo fanno spesso gli indie, sottolinea Straley, che non hanno paura di sperimentare ma anzi fanno proprio delle loro differenze il loro cuore pulsante. Lo fanno spesso gli AA e, sottolinea l’ex Naughty Dog, è qualcosa che anche Kojima Productions ha fatto di recente con il suo Death Stranding (e di cui vi parlammo in un articolo in cui discutemmo proprio della volontà di rinunciare al conflitto da risolversi a pallottole e cazzotti come climax della narrazione, che ha creato più di una difficoltà nei vani tentativi di etichettare il gioco). Nelle parole di Straley:

Penso che tutto questo stia cambiando nel gaming, e penso che Hideo Kojima abbia fatto qualcosa di davvero positivo per l’industria, anche solo con il tentare di fare qualcosa che scuotesse un po’ le cose. I videogiochi indie lo fanno da un sacco, ora come ora, e penso che ci siano delle esperienze estremamente coinvolgenti nel panorama indie e in quello degli AA.

L’esempio successivo citato da Straley è quello di Inside. Il designer spiega:

Inside, e i giochi di Playdead, ecco, sono fantastici proprio per questo motivo: sono molto coinvolgenti, eppure non ti fanno sparare. Quindi penso ci sia un cambio di paradigma in questo momento nell’industria, e penso che gli serviranno un po’ di successi [perché si imponga].

E qui si pone, ovviamente, il cane che si morde la coda delle necessità finanziarie dei videogiochi:

Questo è il problema, se si tratta di un videogioco con un grande marketing dietro, se si tratta di una grande compagnia che vuole assecondare le aspettative degli investitori per il prossimo quarto: cercheranno di affidarsi a qualcosa di già provato e concreto, piuttosto che a qualcosa di innovativo, che potrebbe rappresentare delle difficoltà.

Qualche tempo fa, parlammo di quest’argomento in un altro articolo, in cui a partire dall’epidemica diffusione dei battle royale si rifletteva sulle possibilità di libertà creativa degli autori di videogiochi, con casi come quello dello Star Wars cancellato del team di Any Hennig (che rifletté a sua volta sulle dissonanze di Uncharted) e l’impossibilità di prendersi dei rischi a prescindere dalle idee creative. Si genera così una situazione circolare in cui i soldi del pubblico impongono cosa il prossimo gioco deve includere (amano la battle royale? Tutti gli sparatutto con la battle royale) e non è l’autore a esprimere una visione e scoprire se potrebbe piacere al pubblico. Al momento, quando si fa diversamente è un’eccezione e, come spiegato Straley, non sarebbe male se ci fossero maggiori eccezioni, nel prossimo futuro dei videogiochi.

Fonte: GamesIndustry

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