La forza delle storie, l’odio delle community e il ruolo della critica per i protagonisti di Life is Strange

Abbiamo parlato con Erika Mori (Alex Chen), Han Soto (Gabe Chen) e Jonathan Zimmerman (Narrative Director di Deck Nine Games) di empatia, delle reazioni del pubblico di videogiocatori, e di tanto altro.

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a cura di Valentino Cinefra

Staff Writer

Se avete bazzicato sulle nostre pagine sapete che Life is Strange True Colors mi è piaciuto molto. Ho assegnato al titolo un voto molto alto (lo trovate nella nostra recensione) perché convinto del valore dell’opera di Deck Nine Games. Ma soprattutto perché volevo mandare un messaggio chiaro (visto che ultimamente si parla molto del valore delle recensioni), al team di sviluppo e a voi lettori: abbiamo bisogno di giochi del genere, fatti con questo calore.

Che gli interactive drama come Life is Strange possano non piacere è del tutto pacifico. Così come c’è chi non sopporta l’idea di girovagare in una mappa labirintica di un metroidvania come Metroid Dread ad esempio, ma se c’è una cosa che noi dobbiamo fare è raccontare ciò che c’è di buono in questa industria.

L’ho fatto io con la recensione di Life is Strange: True Colors, e lo faranno anche Erika Mori (Alex Chen), Han Soto (Gabe Chen) e Jonathan Zimmerman (Narrative Director di Deck Nine Games), di cui state per leggere il resoconto di una chiacchierata che ho avuto modo di fare con loro, qualche settimana fa.

Life is Strange ed i suoi personaggi: le storie di Alex e Gabe

Ciò per cui i Life is Strange vengono ricordati è, tra le tante cose, il lavoro fatto sui personaggi, che risultano sempre sfaccettati e molto interessanti da amare e odiare.

Per questo quando tutti si collegano su Zoom e vedo Erika muoversi, sorridere, e parlare esattamente come Alex (un effetto davvero strano, ma in maniera positiva), non posso non chiederle perché i giocatori si sono subito affezionati alla protagonista di True Colors:

«Perché è curiosa riguardo le persone, ed i luoghi. Affronta davvero tutto con curiosità, è facile vedere quella scintilla di speranza in lei, immaginarla pensare ‘mio fratello è qui, e queste persone sembrano carine ed amorevoli’».

Un personaggio, mi rivela Erika, che era già definita dal punto di vista estetico e fisico – visto che l’aspetto della body diversity è molto importante – ma che l’attrice ha contribuito a modificare insieme a Deck Nine rendendola più calda, visto che prima la sua sofferenza era più evidente.

Un lavoro simile per Han, che interpreta Gabe, che secondo l’attore incarna l’idea della seconda possibilità. Come Alex, anche lui è stato sballottato qua e là dal sistema delle famiglie affidatarie, ma ad Haven Springs non solo deve costruire una nuova vita per sé stesso, ma anche per sua sorella.

Chi ha giocato Life is Strange: True Colors ha notato una certa chimica tra i due personaggi, e tra gli attori di conseguenza – una cosa che mi viene confermata non appena vedo i due scambiarsi degli sfottò sulla linea Internet poco stabile di Erika.

Un rapporto, mi rivelano Han ed Erika, che si è sviluppato fin da subito sul set. Han era convinto che lei avrebbe vinto l’audizione, e le ha promesso che si sarebbero rivisti durante le riprese qualche tempo dopo. Cosa che è successa, ovviamente, e fin dal primo giorno di lavoro i due hanno avuto un rapporto fratello-sorella anche fuori dal lavoro:

«Anche dopo aver finito la lavorazione ogni tanto ci sentiamo, nonostante la sua linea Internet a doppino telefonico. Cerco ogni opportunità di interpretare quel ruolo [del fratello], non è difficile: è adorabile, è fantastica, ed è divertente averci a che fare.»

Ciò che importa veramente nei videogiochi

Abbiamo già parlato del terzo capitolo di Life is Strange True Colors e di come, attraverso la fiction del gioco, riesca a far vedere ai videogiocatori come si fanno i videogiochi.

Per fortuna non sono pazzo, perché Jonathan mi conferma che effettivamente è così. Il narrative director lo definisce come Inception, con “livelli e livelli di roleplaying e costruzione del personaggio”. Ma, al di là del discorso sulle meccaniche di gioco, il vero significato del capitolo 3 è ovviamente un altro:

«Quello che ci sta a cuore veramente è il ruolo che Alex deve interpretare nel trauma di Ethan, e come questo le permette di gestire il suo stesso trauma. Come, attraverso lo svolgimento del gioco, possiamo parlare del lutto in uno spazio più sicuro della vita reale, e di come lo si può superare, sempre attraverso il gioco».

Una cosa che c’è sempre stata nei Life is Strange, e che Jonathan ha sempre amato del franchise, il cui primo capitolo definisce “uno dei videogiochi più importanti mai fatti”.

Sì, ho provato a chiedere di uno Strangeverse, ma per ora non ce n’è.

Ora che Deck Nine ha il controllo del franchise, rivede il primo titolo della serie come una grande ispirazione e, sempre secondo il narrative director, ognuno degli episodi è differente dall’altro ed è impossibile compararli, nonostante i fan ritengano che il primo sia il migliore di tutti.

Ciò che, però, è speciale in Life is Strange secondo Deck Nine è «la libertà concessa a noi sviluppatori di esplorare nuovi territori ogni volta, e raccontare storie diverse».

Come si affronta la bestia delle community di hater

Viste le polemiche sorte nei confronti di Life is Strange: True Colors per le tematiche trattate, l’aspetto di Alex, e la presunta agenda del gender portata avanti da Deck Nine – cose molto simili al terremoto generato da The Last of Us Part II – ero curioso di sapere cosa ne pensasse delle forti reazioni della community chi, queste opere, le crea.

Come gestiscono le critiche tutti i talent coinvolti nella creazione dei videogiochi? E, secondo loro, come possono la stampa e i media in generale cercare di veicolare i messaggi positivi, e magari limitare questo tipo di reazioni?

Le risposte che mi sono state date credo siano riflessioni interessanti, che debbano esser condivise tra i colleghi. Ma anche tra i lettori e chi, di solito, bazzica nelle community legate ai videogiochi.

«Finché c’è una vera fame da parte dei giornalisti, nello scoprire dove queste storie vengono raccontate, e promuoverle così che le persone possano trovarle, in tutti i contenuti che si trovano nel mondo, credo che sia quello che conta realmente.

Credo che le persone che si concentrano su un certo antagonismo verso le cose che non gli piacciono, non rappresentino le cose su cui dobbiamo concentrarci noi. Lasciamo che sia il loro obiettivo, così noi possiamo concentrarci sulle cose che amiamo».

La risposta del narrative director è interessante perché rivolta, giustamente, al lato business dell’industria. Mettiamo al centro del dialogo i videogiochi e ciò che di positivo raccontano, lasciando stare le persone che influiscono negativamente sul dialogo.

Ma ignorarle è davvero possibile? Come si può gestire il carico d’odio che arriva certe volte nei confronti dei videogiochi, e di chi i videogiochi li crea?

«Se c’è una cosa che ho imparato durante la mia carriera è che non puoi soddisfare il 100% delle persone là fuori. Ovviamente vieni a sapere che c’è gente che non è contenta, ma quello che possiamo fare è portare dei contenuti validi.

Voi giornalisti non avete nessuna responsabilità, non dovete supportare nessuna campagna. Riportate la verità e concentratevi sulla positività, specialmente ora in questa società, concentratevi sulle cose positive e non lasciate che la negatività prenda il sopravvento.»

Chi fa l’attore è costantemente sotto osservazione, chiaramente. Se c’è qualcuno che deve gestire fin da subito, nella propria carriera, i giudizi delle persone è sicuramente un attore. In questo senso il pensiero di Han è molto lucido, anche sul fatto che i giornalisti non hanno la responsabilità di ciò che le opere videoludiche innescano nei videogiocatori.

A volte ci casco, lo ammetto, perché sono così coinvolto da una storia da avere il desiderio che tutti la amino come me. Ma, come dice giustamente Han, non si può piacere a tutti.

La risposta di Erika sul tema comprende ovviamente le critiche che il personaggio di Alex ha ricevuto. Le stesse che, mi confessa, le sono capitate a volte anche nella sua carriera:

«Quello che ho imparato dalle avventure interattive è che forniscono uno spazio sicuro per parlare di problemi sociali o traumi personali, in un modo che ti fa sentire al sicuro. È quasi come guardare un quadro che potrebbe riflettere ciò che sta succedendo nella tua vita in quel momento, ma c’è questa distanza per cui non sei tecnicamente tu a prendere le decisioni o vivere la storia. Ti dà un altro strumento per capire meglio te stesso, e lavorare sulle tue zavorre in un modo differente. Penso che questo sia bello: interpretare un personaggio che rappresenta la comunità asiatica, la body diversity, che rappresenta le persone che sono passate attraverso le strutture di affidamento.

Alex è così diversa da me, in cose che non hanno niente a che fare con la razza e il genere. So che ci sono state critiche tipo, e sto parafrasando all’estremo, “non è abbastanza asiatica” o “non ci sono abbastanza cose asiatiche nel gioco”. Che diavolo significa “abbastanza asiatica”? È un commento che ho vissuto su di me in prima persona, nella mia vita. È molto offensivo ma devi lasciar correre perché, per citare Han, non puoi soddisfare tutti.

Credo che Alex sia questo solido, personaggio tridimensionale molto ancorato alla realtà, che parla a molte persone. Ma anche se parlasse ad una sola persona, se le relazioni e la storia di questo gioco parlassero solo ad uno, ne vale assolutamente la pena.»

In fondo, il segreto di un videogioco come Life is Strange: True Colors, e in generale tutte quelle storie che hanno qualcosa da raccontare, non poteva che essere l’empatia.

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