Dark Souls II: storia di un Souls “sbagliato”

Passati abbastanza anni, prendiamo coraggio e trattiamo a mente fredda il Soulslike più chiacchierato della storia: Dark Souls II.

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a cura di Adriano Di Medio

Redattore

I Souls di FromSoftware: opere dark fantasy complesse e stratificate, fatte di gameplay punitivo e trame profonde ma piene di inferenza, ambientati in mondi immaginari ma eccezionali nella costruzione e nell’atmosfera.

Una formula che ha continuato a funzionare anche quando lo studio ha deciso di passare ad altro, prima con Sekiro: Shadows Die Twice nel 2019 e poi con Elden Ring (lo trovate qui su Amazon tutte le sue edizioni) tre anni dopo. Ma non è stato tutto irreprensibile, e la “macchia” in questione ha un nome ben preciso: Dark Souls II.

Perché? Ragioniamo a mente fredda e proviamo a capirlo insieme.

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L’entusiasmo triste dei fan

Non avremmo mai creduto di doverlo scrivere, ma ritrovarsi a parlare oggi di Dark Souls II fa piuttosto male. I fan di FromSoftware hanno seguito la sua gestazione con gioia ma anche con ansia, premiandolo poi con una pubblicazione di grande successo.

Dark Souls II è stato omaggiato con grandi onori; l’avevamo acclamato e promosso, estasiati e increduli del fatto che davvero potesse esistere un sequel di quel Dark Souls che tanto ci aveva vessato ma anche divertito, intrattenuto, commosso, insegnato.

Dark Souls II non era semplicemente un "Dark Souls con altre mappe", era l’occasione per espandersi e provare qualcosa di nuovo, in tutti i sensi.

Nuova ambientazione, nuova storia, nuova tecnologia, animazioni realizzate con il motion-capture, nuove statistiche, nuovi equipaggiamenti. Il tutto appaiato alla certezza di ritrovarsi a casa ritrovando estetiche, meccaniche e cosmogonia narrativa.

Una rassicurazione divenuta palpabile grazie al co-regista Tomohiro Shibuya e alla sua immediata garanzia di non toccare il sistema di controllo. Un cespuglio di rose che aveva anche delle spine, e non erano quelle già messe in conto.

All’inizio era solo un sospetto, che però ha continuato come il più classico dei diavoli tentatori a sussurrarci «sì, è difficile ma anche divertente, la sensazione di crescita è palpabile e rende tutto stimolante… ma è comunque tutta una ripetizione del 2011, peraltro pure poco ispirata!».

Certo, nel 2014 era solo una brutta sensazione in mezzo a un mare di novità, quindi è finita in fondo alla mente, bollata come pignoleria passeggera. Eppure, anche a futuro giocato e finito (tra Dark Souls III, Bloodborne, la remastered del primo e pure Elden Ring) quella sensazione non è andata via, anzi è diventata più forte.

Però a Dark Souls II abbiamo giocato, giochiamo e giocheremo. Appurato quindi che c’è del buono, dell’intelligenza, della passione e del lodevole in Dark Souls II, dobbiamo girare la medaglia e dire pure che in lui c’è anche molto che non va.

Dark Souls II e il problema della trama

E non possiamo che partire dalla parte peggiore: la trama. L’eredità di Dark Souls II è travagliata tanto quanto il viaggio che il nostro Non-Morto deve compiere nel regno di Drangleic.

Ha dovuto raccogliere il pesantissimo testimone di saper trasformare la cripticità in punto di forza, usandola come pennello per dipingere una cosmogonia e un racconto fatti di silenzio, nonché striati di inferenza, il tutto senza dimenticarsi di chiarire i punti oscuri del prequel.

A fronte di una cosmogonia già avviata, almeno la transizione di tematiche è stata indolore: dove il primo parlava del potere e della sua capacità di dare alla testa, Dark Souls II è una triste parabola sul desiderio.

Fin qui tutto bene, se non fosse che nei mesi successivi alla pubblicazione la trama è andata subendo pesanti modifiche. Il culmine è stata la riedizione Scholar of the First Sin, arrivata ad aggiungere un secondo finale onde collegarsi e giustificare l’allora futuro Dark Souls III.

Pur se distanziati da molti secoli, il primo e secondo Dark Souls sono da sempre intimamente legati. Tuttavia il Dark Souls II pre-Scholar non rimarcava questo legame, anzi apriva alla possibilità che Lordran e Drangleic fossero due regni confinanti.

Scholar agì in direzione ostinata e contraria: oltre a insistere (a volte inutilmente) sul collegamento con il primo gioco, riassemblò e stravolse nodi essenziali, trasformando il recupero della propria umanità nella folle ambizione di un re accecato da un amore sbagliato.

Parliamo, rispettivamente, di una rivendicazione triste ma epica (solo nella morte possiamo essere umani) e della volontà incrollabile che anima chi è innamorato. Se ben narrate sono entrambe belle storie; il problema è che il loro palleggiarsi il contesto fa perdere senso ai dettagli, ovvero ciò su cui la serie ha fatto e fa tuttora la sua fortuna.

Dark Souls II voleva spiegare tutto o quasi, ha finito con dirci poco o nulla.

Frankenstein? No, Drangleic

Dobbiamo proseguire con l’altra cosa che tutti hanno visto una volta scemato l’entusiasmo: la mappa. Dopo l’enorme lavoro di interconnessione e plausibilità svolto su Lordran, il regno di Drangleic doveva fissare un nuovo standard per il genere dei Soulslike, estendendone la portata e la varietà. La strada era inevitabile: bisognava dare la sensazione che il giocatore si muovesse non in un regno, ma in un enorme continente fatto di tanti contesti.

Una scelta che inevitabilmente ha dovuto confrontarsi con l’obbligo di pubblicare il gioco su una settima generazione fuori tempo massimo. Il risultato è stato impietoso: le ambientazioni di Dark Souls II sono collegate in maniera artificiosa, con un uso ripetitivo di raccordi come fogne, grotte, ascensori o anonimi corridoi sotterranei.

Ecco quindi che sono saltate fuori topografie totalmente insensate, come la torre di Heide in riva al mare che tramite una grotta (sotto il mare) ti fa arrivare ad una banchina a sua volta in riva al mare. O peggio ancora, un mulino in mezzo al nulla cui basta un semplice ascensore in un seminterrato per venir collegato a fortezze di ferro costruite su un vulcano attivo.

Vi sono pur sempre percorsi che conservano senso narrativo (come quello per arrivare da Re Vendrick partendo dal Castello di Drangleic), ma parliamo di sparute ‘isole di lucidità’. Il problema della mappa è alla prova dei fatti lo stesso del background narrativo: pochi nodi fissi che galleggiano in mezzo a un mare di frammenti incastrati in una storia che non era la loro.

Col senno di poi abbiamo capito che quello che Dark Souls II voleva fare era dipingere un grande continente composto da più fazioni eterogenee, un abito d’Arlecchino che dopo anni di conflitti è stato unificato da un unico sovrano. Però, nomi a parte, è una descrizione che pare corrispondere più ad Elden Ring che a Dark Souls II.

Possibile quindi che Elden Ring sia tutto quello che Dark Souls II doveva essere e che causa tecnologia non è potuto essere? Non lo sapremo mai, ma l’ipotesi affascina.

Che l’indicatore ti mostri la via

Ora che l’abbiamo descritto e indagato, facciamo un altro passo avanti e cerchiamo di analizzare ciò che ha fatto Dark Souls II e perché è visto come un errore.

Iniziamo col dire che non è un errore in senso assoluto: anzi, è di suo un grande traguardo di design. Senza scomodare mostri sacri come uno Zelda, prendiamo un Darksiders, un Tomb Raider, un God of War (non solo quello del 2018): il loro problema è riuscire a congegnare ambienti eterogenei.

L’avere sempre chiaro al giocatore dove andare (grazie a diari, mappe, indicatori a schermo o al principio di game design “azione che scorre sempre in avanti”) fa in modo che la correttezza topografica sia di importanza solo relativa.

Nei Souls invece questa assume grande rilievo, e il motivo sta proprio nell’assenza degli ausili di viaggio appena descritti. Nei Souls il giocatore deve costruire da sé dove andare e cosa fare, aiutato da solo da sparuti dialoghi e indizi.

La mappa quindi, oltre a non poter essere per forza di cose troppo grande, va progressivamente imparata e ricordata mnemonicamente. Il poter comprendere in qualsiasi momento dove ci si trova (e dove si può andare) è essenziale per innescare il processo di auto-orientamento.

Il valore di sintesi dell’auto-orientamento virtuale sta nel comprendere qual è la costruzione strutturale della propria progressione: di solito, o è orizzontale o è in verticale. Per fare due esempi letterari: la Divina Commedia è verticale, l’Orlando Furioso è orizzontale. Traslato ai Souls, il primo Dark Souls è verticale, Dark Souls II è orizzontale.

Far venire meno tutto questo significa condannare il giocatore alla dispersione e al disorientamento, e la sospensione dell’incredulità ne esce gravemente ferita: ecco perché nei Souls la incorrettezza topografica è un errore. Tanto che pure Elden Ring, appena la mappa è diventata più grande, si è dovuto arrendere a qualche basico indicatore di orientamento (bussola, cartina geografica e post-lancio la posizione degli NPC).

Dark Souls II: quando le origini fanno male

Andiamo avanti: il motivo per cui le ambientazioni di Dark Souls II sono più imponenti ma anche semplicistiche in realtà ha una spiegazione, e si trova nel Dark Souls II Design Works. Nell’intervista lì presente gli sviluppatori espongono le loro ragioni:

TANIMURA: Riguardo al design, ho volutamente evitato di richiedere che il mondo [di gioco] riflettesse il passaggio delle ere. Anche se è vero che è passato molto tempo, e che innumerevoli re e regni sono ascesi e caduti in tale lasso di tempo, alla prova dei fatti non c’è molto progresso di cui parlare. Piuttosto, l’assenza di cambiamenti rilevanti nella civiltà è stato un punto chiave di design. Non ci sono stati grossi sconvolgimenti; il mondo si è semplicemente riavviato ogni volta.

SATAKE: Il mondo del gioco precedente era già in uno stato crepuscolare, con un grande numero di dèi ormai partiti verso pascoli più verdi. Con il potere della fiamma che languiva, abbiamo dovuto domandarci se il mondo si fosse dissolto o se fosse asceso un nuovo re. Adesso, ere dopo, ogni presenza divina è persistente e diluita. Ma pure se si capisce che c’è un odore, una presenza o qualcos’altro, è decisamente lì, dispersa intorno. L’obiettivo era di creare un mondo dove tale presenza era in qualche modo evidente se il giocatore si fosse preso il tempo di osservare e leggere tra le righe. Ma solo un poco. E sottilmente… il direttore si è assicurato che raggiungessimo tale obiettivo.

(Yui Tanimura e Daisuke Satake, 2014-2015, op.cit. p. 204, tradotta dall’inglese per questo articolo; qui il Design Works del primo, su Amazon)

Pur dando per buono il fatto che ci troviamo in un’epoca dove gli splendori di Lordran sono un ricordo sbiadito, lontanissimo e passato pure attraverso numerosi riavvii del mondo (quindi doppia ingenuità), troppe volte si rimane tristemente basiti nel vedere enormi stanzoni completamente vuoti, rovine tutte uguali, nebbie opprimenti e texture piatte.

A questo si aggiungeva un level design che appariva quasi “pigro”, troppo impegnato a far leva sui limiti del giocatore e molto meno a rendere l’insieme creativo, plausibile e coerente.

Che strade anche importanti (come quella del Santuario d’Inverno) abbiano la percorribilità compromessa da dieci centimetri di gradino rotto (perché nel gioco non si può saltare) è solo uno dei tanti espedienti discutibili adottati per Dark Souls II.

Un’altra è stata la gestione della difficoltà: l’unico modo per raggiungere un boss è metterlo alla fine di un corridoio obbligato pieno di nemici minori. Un espediente che vuole creare sfida ma finisce solo con il soffocare la volontà del giocatore, a cui il gioco comparirà difficile solo per il gusto di essere tale.

E infine, il fatto che le finte pareti non siano segnalate da indizi topografici e siano ridotti al muro che rientra se si ha la dedizione (o la fortuna, se non si sa che lì c’è una di quelle pareti) di premere il tasto di interazione quando si è abbastanza vicini.

A differenza di altri difetti di Dark Souls II, perlomeno per quest’ultimo conosciamo le origini: fa tutto parte del modus operandi dei King’s Field, antenati e precursori dei Souls. Non a caso al design del gioco troviamo Naotoshi Zin, che oltre ad aver creato appunto King’s Field è anche il fondatore di FromSoftware stessa. Per il buon Naotoshi, Dark Souls II ha rappresentato un ritorno al lavoro diretto dopo anni passati a fare il produttore e il supervisore.

Soluzioni come quelle che abbiamo descritto potevano aver senso negli anni Novanta, sia perché era un’altra epoca sia perché ai tempi le ambientazioni erano molto meno estese (e quindi era più sopportabile tornare più volte negli stessi luoghi o armarsi di santa pazienza). Riproposte nel 2014 sono solo un altro esercizio di frustrazione.

Ah, il mio vecchio nemico… L’Asset Riutilizzato!

E badate bene, tutte queste considerazioni non vanno intese in senso assoluto. Pur se in somma parte concordi sul ritenere Dark Souls II come debole, pure i fan hanno sempre avuto l’onestà di dire che non tutto era da buttare.

Tale pensiero riguardava sia le ambientazioni che i combattimenti: la calda luce di Majula infonde un’aura dolce e familiare, e la Torre della Fiamma di Heide rimane essenziale ma non ha mai perso fascino. Boss come Cavaliere dello Specchio sono ricordati come veramente belli nella loro riuscita combinazione di scenografia, avversario e varietà di approcci, pure al netto della pesante riduzione del dettaglio.

E a questo punto non è un caso che la prima demo di Dark Souls II mostrasse proprio il duello con il nostro Cavaliere dello Specchio. Che comunque, è bene specificarlo, non era solo: basti pensare (facciamo solo i nomi per evitare spoiler) a Velstadt o a Sir Alonne; quest’ultimo è tra l’altro puntualmente inserito tra i migliori scontri in assoluto nei Souls.

Qual è il problema in questo senso? Che in qualunque altro Souls sequenze carismatiche come quelle che abbiamo elencato sono la norma e non l’eccezione. Tra giganti scoordinati, combattimenti collettivi dove si è costretti a rovistare in mezzo ai tirapiedi, demoni ricolorati da rosso a blu e draghi che si sono dimenticati come si combatte, Dark Souls II è purtroppo pieno di episodi infelici.

Fino all’esempio estremo del fare il copia-incolla di un avversario dal gioco precedente e ricolorarlo per fare un combattimento memorabile, ovvero quanto successo con il Vecchio Ammazzadraghi. Può essere tutto il fanservice che volete e potete spiegarlo con le speculazioni più belle e poetiche, ma se l’hanno fatto vuol dire anche che qualcosa è davvero andato storto in Dark Souls II.

Conclusione: la maledizione di un nome

C’è chi dice che per la videoludica è un momento oscuro. Non nel senso di basse vendite, ma del fatto che dopo il buonismo generalista di fine anni 2000, il videogioco abbia ripreso a indugiare più nel noir, nel dark e nel malinconico.

E probabilmente, nessuno ha rappresentato questo cambio meglio dei Souls. Oltre a essere videogiochi di qualità spesso eccelsa, le creature di FromSoftware erano anche speranze travestite da nichilismo, divenute mainstream con il primo Dark Souls.

Un fenomeno che aveva bisogno di un erede per far scattare in avanti una trilogia già delineata. Dark Souls II ha vestito sì i panni del successore, ma anche della vittima sacrificale, dove un altro autore ha dovuto portare avanti una poetica non sua, mentre l’originale demiurgo faceva nascere un altro capolavoro (Bloodborne, tra l’altro lo trovate su Amazon in edizione completa).

Quindi, dove ha “sbagliato” Dark Souls II? Esattamente come l’universo che racconta, Dark Souls II è stato maledetto dal suo nome, che l’ha caricato di aspettative folli. Che tutto sommato è stato già un miracolo che sia riuscito a soddisfare anche solo in parte.

Dark Souls II non è un brutto gioco, è “solo” un Souls troppo diverso e troppo incerto. Con l’ultimo colpo di grazia di soffrire della sindrome che affligge l’episodio centrale di ogni trilogia: non ha né inizio né fine, e qualunque cosa faccia non la inizia né la completa. Così come i cicli di cui racconta.