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Pro
- Estetica potente e disturbante, coerente con i dark fantasy moderni e i videogiochi soulslike
- Ritmo narrativo decompresso ma estremamente immersivo
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Contro
- Trama volutamente scarna, poco adatta a chi cerca una storia articolata
- Protagonista ancora poco caratterizzato
Il Verdetto di Cultura POP
Planet Manga scommette su un autore di culto e amatissimo nel nostro paese, Tsutomu Nihei. Il mangaka di Blame! e Knights of Sidonia, maestro della narrazione silenziosa e delle architetture impossibili – ci catapulta in un universo radicalmente diverso dal suo immaginario fantascientifico. Addio cyberpunk: benvenuti nel cuore oscuro di un fantasy minimale. Scopriamo insieme com'è il primo volume di Tower Dungeon.
Di cosa parla Tower Dungeon
La premessa del primo volume di Tower Dungeon è semplice e diretta, come una quest da gioco di ruolo: un necromante ha assassinato il re e rapito la principessa, rifugiandosi nella leggendaria Torre del Drago, una struttura colossale composta da 100 livelli, ognuno infestato da mostri, trappole e minacce sovrannaturali. Dopo il fallimento delle guardie reali, la missione passa a una seconda scelta: coscrivere i maschi del regno per supportare l'impresa.
Fra di loro, spicca il giovane Yuva. Dinoccolato e ingenuo, il ragazzo è dotato da una incredibile forza sovraumana e di una resistenza fuori dal comune dimostrandosi subito prezioso per la spedizione ma attirandosi anche qualche antipatia fra i cavalieri.
La missione di salvataggio tuttavia nasconde anche risvolti politici riguardanti la successione al trono e il segreto della famiglia reale tant'è vero che, a sorpresa, giungono sul luogo degli emissari per sospenderla. Un manipolo di cavalieri, fra cui Yuva, tuttavia riescono a convincerli a rimanere e tentare di infiltrarsi e ultimare il salvataggio.
Un dark fantasy verticale tra Italo Calvino e i dungeon old school
Nihei struttura la trama come una scalata verticale per la sopravvivenza, spezzata da brevi flashback o digressioni per dare contesto e background ai personaggi. La discesa nell’abisso – o meglio, l’ascesa – richiama il senso di oppressione e smarrimento dei dungeon classici, ma filtrato dallo stile freddo e inesorabile dell’autore.
In questo primo volume non si punta alla complessità della trama quanto a costruire atmosfera e tensione. Il lettore è gettato in un mondo di morte e mistero, dove la regola principale è sopravvivere. In fondo, come spesso accade in Nihei, la narrazione è meno importante del viaggio attraverso l’ignoto: un’esperienza visiva, fisica, quasi liturgica.
Sotto l’apparente semplicità narrativa, Tower Dungeon cela un sottotesto ricco di riferimenti culturali e filosofici. La Torre come struttura verticale e metaforica richiama Le Città Invisibili di Italo Calvino, dove l’esplorazione dello spazio coincide con l’indagine interiore. Come nelle città di Calvino, ogni piano della Torre sembra seguire una logica propria, quasi matematica, ma allo stesso tempo imprevedibile e metafisica. Ogni ambiente è una prova: della carne, della mente, o della volontà.
Yuva, il protagonista, è volutamente anonimo, un avatar privo di qualità eroiche, che serve da filtro tra il lettore e l’orrore della torre. In questo, ricorda i protagonisti muti e spersonalizzati di Blame! o Biomega, ma si colloca in un contesto fantasy marcatamente diverso. Intorno a lui ruotano personaggi secondari che emergono più per la loro funzione narrativa che per la caratterizzazione psicologica: è la Torre, e non gli uomini, a dettare il ritmo e il senso dell’opera.
Sul piano estetico e tematico, Nihei omaggia chiaramente l’immaginario dei dungeon crawler vecchia scuola, ma anche i videogiochi soulslike. I mostri sembrano usciti da vecchi manuali di D&D mentre l’idea di avanzare per piani successivi, senza ritorno, genera un senso costante di ansia e pericolo. Ogni incontro può essere l’ultimo.
Infine, la componente filosofica è sottile ma presente. Il concetto di Torre come simbolo della ricerca, dell’elevazione e della caduta è un archetipo millenario. Ma qui, Nihei lo declina in chiave quasi nichilista: scalare significa morire più in alto. Non c’è salvezza, forse neppure redenzione. Solo l’ascesa.
Estetica minimale e bianco e nero chirurgico
Il tratto di Tsutomu Nihei in Tower Dungeon conserva tutta la potenza visiva che lo ha reso celebre, pur adattandosi a una grammatica nuova. Niente più megalopoli cybernetiche e architetture impossibili: qui domina la pietra, la carne, il buio. I livelli della torre sono ambientazioni claustrofobiche ma diversificate: ogni tavola sembra scavata nella roccia, pesante, opprimente.
Il design dei mostri è uno dei punti di forza dell’intero volume. Lontani dagli stereotipi fantasy classici, questi esseri sembrano mutazioni innaturali di uomini e animali, con anatomie sproporzionate o che si rifanno al body horror. Più che nemici, sono incubi radicati nell’ambiente, fusi con la torre, come se questa li avesse partoriti per proteggersi.
Nihei usa il silenzio con sapienza. Le sequenze d’azione sono secche, crude, scandite da tavole mute che fanno parlare lo spazio più che i personaggi. È una forma di regia visiva che punta sull’impatto emotivo e sull’immersione. Ogni inquadratura è calibrata per generare disorientamento, stupore o angoscia.
La gestione del bianco e nero è chirurgica: le ombre sono dense, materiche, mentre le luci rare fanno risaltare dettagli essenziali. Anche il character design riflette il tono dell’opera: visi scarni, occhi spenti, corpi segnati. Non c’è bellezza, solo funzione.
Infine, si nota una volontà di sintesi tra il fumetto giapponese e la sensibilità del fumetto europeo: la costruzione delle tavole, l’uso dei pieni e dei vuoti, l’architettura narrativa ricordano certe soluzioni di Moebius o Druillet. Ma filtrate dalla poetica desolante e personale di Nihei.