Quando nel 2001 arrivò nelle sale Metropolis, diretto da Rintaro e scritto da Katsuhiro Otomo, il pubblico dell’animazione giapponese si trovò di fronte a un’opera che, pur basandosi su un manga del 1949 di Osamu Tezuka, appariva come un prodotto profondamente radicato nel presente e nel futuro dell’anime. Il film era un tributo esplicito alla tradizione, ma anche un manifesto delle possibilità tecniche e stilistiche di un’epoca di transizione in cui la CGI iniziava a dialogare con l’animazione tradizionale senza sostituirla.
In un periodo dominato da sperimentazioni estetiche e da una crescente internazionalizzazione dell’anime – gli anni in cui Spirited Away di Miyazaki conquistava l’Oscar e Cowboy Bebop: Knockin’ on Heaven’s Door dimostrava il potenziale cinematografico delle serie TV – Metropolis emergeva come un progetto che voleva guardare indietro, alle radici del manga e al tempo stesso spingere in avanti il linguaggio visivo dell’animazione giapponese.
Metropolis di Rintarō e Katsuhiro Ōtomo torna sul grande schermo in versione restaurata per un evento speciale in programma il 13, 14 e 15 ottobre.
Cultura POP è media partner dell'evento. L’elenco delle sale e prevendite sono disponibili su nexostudios.it.
L’impronta “cartoonesca” di Tezuka: un’innocenza grafica in un mondo distopico
La base estetica di Metropolis è il design originale di Osamu Tezuka, spesso definito il “Dio del manga”. Il suo stile, nato in un Giappone post-bellico, si ispirava fortemente all’animazione occidentale – in particolare a Disney e Fleischer – con occhi grandi, proporzioni morbide, linee pulite e silhouette infantili, tratti che resero iconici personaggi come Astro Boy. Nel film del 2001 questi tratti sopravvivono quasi intatti: il contrasto tra figure “cartoonesche” e un mondo urbano ipertecnologico e stratificato genera un impatto visivo volutamente straniante.
Questa scelta stilistica non era priva di rischi: negli anni 2000, quando l’anime cinematografico tendeva a prediligere estetiche più realistiche e dark, il mantenimento della "dolcezza grafica" di Tezuka appariva quasi anacronistico. Tuttavia, è proprio questo contrasto a rendere Metropolis unico: personaggi tondeggianti e quasi innocenti abitano un universo dominato da torri d’acciaio, neon e macchine gigantesche, amplificando l’alienazione e il conflitto emotivo al centro della storia. L’opera di Rintaro, in tal senso, si pone come un dialogo intergenerazionale: l’innocenza visiva del manga degli anni ’40 incontra il cinismo del cyberpunk maturo.
L’incontro fra animazione tradizionale e CGI: un laboratorio visivo dei primi anni 2000
Se da un lato Metropolis onora le radici grafiche di Tezuka, dall’altro abbraccia le nuove tecniche digitali dell’epoca. L’animazione dei personaggi resta interamente disegnata a mano, rispettando la fluidità e l’espressività tipiche dell’anime classico. Gli ambienti urbani, invece, sono in larga parte modellati in CGI: grattacieli, meccanismi industriali e panoramiche della città verticale vengono creati in 3D e poi integrati con la pittura tradizionale.
Questa commistione tra vecchio e nuovo non è solo un esercizio tecnico, ma diventa parte del linguaggio narrativo: la città artificiale sembra sovrastare i personaggi “umani” in 2D, sottolineando il tema della disuguaglianza e dell’oppressione sociale che attraversa la storia. È un approccio che anticipa, in parte, i metodi che lo Studio Ghibli avrebbe raffinato in film come Howl’s Moving Castle (2004), dove CGI e disegno tradizionale coesistono senza fratture evidenti.
All’inizio degli anni 2000, questo era un terreno inesplorato: l’uso della CGI non era ancora standardizzato nell’anime e molti progetti sperimentavano soluzioni ibride con risultati incerti. Metropolis riuscì a distinguersi per coerenza estetica e per un impianto spettacolare che, pur con qualche rigidità tecnica visibile oggi, contribuì a rendere la città protagonista silenziosa del racconto.
Metropolis, Akira e Ghost in the Shell: tre epoche a confronto
Metropolis non può essere compreso appieno senza metterlo in dialogo con altri due capisaldi dell’animazione giapponese: Akira (1988) e Ghost in the Shell (1995). Tutti e tre affrontano il rapporto fra umanità e tecnologia, ma con prospettive e linguaggi visivi differenti.
Akira, diretto da Katsuhiro Otomo – che curiosamente scrisse la sceneggiatura di Metropolis – fu il manifesto di un’animazione urbana e apocalittica, caratterizzata da un disegno realistico, espressionista e da un’animazione fluida che privilegiava la fisicità dei corpi e la distruzione delle architetture. Era il riflesso di un Giappone ancora segnato dalla Guerra Fredda e dalle paure nucleari, con un’estetica che puntava alla concretezza e alla potenza visiva del movimento.
Ghost in the Shell, firmato da Mamoru Oshii, rappresentò invece l’approccio cyberpunk più filosofico e minimale: ambientazioni urbane iperrealistiche, palette fredde e un’animazione che univa dettagli tecnologici a una riflessione sull’identità.
Metropolis si colloca come un ponte tra queste due visioni: eredita da Akira l’idea della città come organismo vivo e da Ghost in the Shell il conflitto tra umano e artificiale, ma lo reinterpreta attraverso la lente del design di Tezuka e una sensibilità visiva che rifiuta il realismo cupo in favore di un contrasto poetico tra forma infantile e tragedia adulta. Così facendo, si inserisce nel contesto del cinema d’animazione dei primi anni 2000 come un esperimento che celebra le radici storiche del manga, mentre abbraccia le sfide tecnologiche del nuovo millennio.
Un’eredità che guarda avanti
A oltre vent’anni dalla sua uscita, Metropolis resta un caso di studio fondamentale per comprendere come il cinema d’animazione giapponese abbia affrontato il passaggio di secolo. La sua fusione tra l’innocenza cartoonesca di Tezuka e le possibilità scenografiche della CGI ha dimostrato che tradizione e innovazione possono dialogare in modo armonico, offrendo una prospettiva visiva unica nel panorama anime.
In un’epoca in cui l’ibridazione tra 2D e 3D è diventata prassi – basti pensare a opere come Demon Slayer o Arcane – Metropolis appare oggi come un precursore, un film che ha mostrato il potenziale narrativo della contaminazione tecnica e stilistica. Collocandosi tra i giganti come Akira e Ghost in the Shell, rimane un tassello imprescindibile per capire l’evoluzione dell’anime e il modo in cui il medium ha saputo preservare la propria identità visiva pur abbracciando il futuro digitale.