Arte? No, per l'industria i videogiochi sono solo usa e getta

Dobbiamo fare i conti con la dura realtà: il valore dei videogiochi non interessa quasi a nessuno.

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a cura di Domenico Musicò

Deputy Editor

L'industria ha un enorme problema con la percezione del valore culturale dei videogiochi: se da un lato si bea dei complimenti e degli attestati per l'elevata cifra artistica che alcune opere confermano di avere, dall'altro non fa assolutamente nulla per preservarle e mantenerne intatta la memoria.

È un paradosso non da poco, che in fin dei conti non fa altro che certificare in maniera chiara il totale disinteresse delle grandi aziende, completamente incuranti del fine ultimo di tali creazioni e sempre più centrate per sfruttarne i profitti sul breve e medio termine. Sono due linee di pensiero poste su mondi distanti, che cozzano con violenza quando si vuole intraprendere un discorso del genere; e di fatto, non si vede alcun tipo di compromesso utile a valorizzarli degnamente.

Ma quale arte? Semmai solo oggetti

Si ritorna sempre sulla stessa domanda che sbuca fuori a ogni pie' sospinto da almeno una decina di anni: i videogiochi sono arte? Sicuramente sì, questo è innegabile, ma evidentemente non per tutti. Che i giocatori siano i più strenui difensori del proprio oggetto di culto è cosa risaputa, e difficilmente si può dare loro torto. Anche la stampa specializzata e la critica - benché certe argomentazioni siano sempre più rarefatte - tentano di spiegare i motivi per cui non si tratta solo di una nomina affibbiata in modo aprioristico. Eppure tutto tace, nulla si muove e dal punto di vista della preservazione siamo ancora nel paleolitico.

Badate bene che la questione è molto più grave di quanto possa apparire, perché nel frattempo le opere continuano a fioccare in modo incontenibile, diventa sempre più difficile stargli dietro, il mercato è sostanzialmente saturo e sin troppi videogiochi rimangono totalmente nell'ombra, sconosciuti ai più. Soprattutto questi ultimi sono destinati all'oblio, morti ancora prima di nascere, forieri di potenziali innovazioni e mai presi in considerazione da nessuno. Succedeva anche all'alba dei tempi: quanti videogiochi non conosciamo? Quanti sono andati perduti per sempre? Perché non si è fatto nulla per salvarli?

La risposta è molto semplice e dobbiamo darla in modo chiaro e netto: non gliene importa niente a nessuno. Non esiste un ente davvero forte e influente che possa archiviare ogni videogioco e renderlo fruibile per sempre, la digitalizzazione non viene sfruttata a dovere e i produttori scelgono di lasciare indietro i loro stessi figli, abbandonandoli al proprio triste destino.

Fa abbastanza ridere che in molti se ne siano accorti solo adesso, proprio in concomitanza col polverone che si è alzato da quando Sony ha deciso che lo store di PSP, PS3 e PSVita non è più profittevole ed è diventato persino una palla al piede. Meglio rendersene conto tardi che mai, si potrebbe dire; e invece no, perché nel frattempo abbiamo perso oltre quarant'anni di storia del videogioco. O quanto meno, ne abbiamo perso una parte considerevole, che le nuove generazioni non conosceranno mai.

La questione potrebbe servire per far muovere i primi passi a qualcuno di importante, che abbia davvero a cuore la questione e che sia pronto a invertire una brutta tendenza, ma al momento non si scorge minimamente la luce fuori dal tunnel. Al di là di sparuti gruppi amatoriali, collezionisti e piccoli movimenti a difesa della memoria del videogioco, la situazione è davvero in alto mare, apparentemente senza via d'uscita.

Videogiochi a tempo

Si potrebbe dunque pensare che almeno i produttori abbiano la forza per preservare le proprie creazioni, e che in fin dei conti ne abbiano anche tutto l'interesse. Non è vero: i giochi vecchi da mantenere su uno store o da qualunque altra parte rappresentano solo un costo, e i costi che non generano profitto causano perdite. E le perdite devono essere arginate, tagliando via i rami secchi.

Tutti i bei discorsi sull'arte e sulla preservazione del bello da tramandare nel tempo vanno in malora quando ci si deve scontrare con una realtà oggettiva e incontrovertibile: i videogiochi sono semplicemente dei prodotti sviluppati da aziende, che per vivere hanno la necessità di vendere in quel preciso momento e fare uno sfruttamento selvaggio della propria creazione. Quando si esaurisce la coda del gradimento (a volte molto lunga, altre volte brevissima),  l'oggetto smette di essere "usato" e può essere "gettato via". Senza remore e senza rancori: semplicemente non serve più.

Si guarda sempre avanti, si sviluppano troppi videogiochi e il settore corre all'impazzata, mutando e aggiornandosi in modo sempre aggressivo, di pari passo con una tecnologia che per definizione risulta sempre più avveniristica e migliore del giorno precedente. Ma a volte ci si guarda indietro e si compiono operazioni commerciali che da una parte soddisfano quei bisogni nostalgici che sempre ritornano, mentre dall'altra finiscono per essere delle iniziative a colpo sicuro: remake e remastered.

Potremmo affermare tranquillamente che a queste opere si fa in realtà un grande favore, perché di fatto subiscono un trattamento che è in parte paragonabile al restauro delle opere pittoriche, prolungando nel tempo la loro vita e riesumandole dalla putrefazione digitale. Non si faccia però l'errore di farne una visione romantica, dove le aziende tengono ai loro prodotti fino al punto di volerle salvare e mantenerne vivo il ricordo.

In conclusione

I produttori sono cinici, avidi, incuranti di ciò che è stato fatto in passato: lo fanno solo perché si rendono conto che un clamoroso o buon successo del passato possa in parte ripetersi, giustificando i margini di movimento dell'operazione con un introito maggiore dell'esborso. È davvero tutto qui. Alla luce di ciò, perché mai dovrebbero avere l'interesse di salvaguardare un'opera che invecchia con rapidità estrema e che nessuno comprerebbe più, se possono tirarla a lucido e rivenderla col minimo sforzo? Il disinteresse fa il paio con una strategia commerciale che a partire da due generazioni fa si è rivelata essere profittevole, pertanto non è dalle aziende che si può sperare di vedere un cambio di rotta.

Remastered e remake sono pochi, se confrontati con la mole pachidermica rappresentata da tutte le opere uscite fino a oggi. In mezzo non ci sono solo titoli fallimentari, ma anche importanti progetti che finiscono nel dimenticatoio, che fra vent'anni semplicemente quasi nessuno ricorderà o addirittura ne conoscerà l'esistenza. Evitiamo in questa sede di fare discorsi circa i metodi alternativi e per nulla legali per averli in qualche modo nelle proprie case. Non è questo il punto, perché ritorneremmo nella sfera del privato che è di fatto la direzione opposta della fruizione collettiva. Sarebbe anche un discorso che toccherebbe inoltre imperdonabili picchi di egoismo, come per chi si rinchiude in una torre del sapere che crollerà nel momento in cui si verificherà la dipartita dei pochi individui che credono di essere degli illuminati. Non è in questo modo che si sta facendo un favore al videogioco.

Servirebbero accordi tra produttori ed enti in grado di poter garantire ai videogiochi lunga vita, ma ci sono interessi e dinamiche commerciali destinate a cozzare per ovvie ragioni. Oltretutto, per chi pensa che lo streaming e il cloud gaming possano far sì che certi giochi possano essere fruibili per sempre, dimentica che da un momento all'altro ogni compagnia potrebbe potenzialmente fallire o abbandonare il settore o rendersi conto che le spese diventano d'improvviso un gran bel problema. Oggi la scarsa lungimiranza dei più non consente di guardare appena oltre il proprio naso, ma può tranquillamente accadere a tutti (all'epoca, SEGA sembrava una roccaforte), soprattutto in un'era in cui acquisizioni, cambi di casacca e sete di potere delle megacorporazioni sono delle realtà.

Uscire dalla logica del videogioco come prodotto dato in concessione, col giocatore obbligato ad accettare l'uso a tempo di una licenza, è davvero molto complicato. E francamente, una delle speranze più logiche è che almeno i big dell'industria possano avere l'illuminazione di creare una sorta di federazione intercontinentale o quantomeno aprirsi a idee simili, senza per questo dover allentare la presa sui diritti legati proprie IP. Si può fare, ma fin quando certe volontà non scatteranno, il videogioco sarà poco più di un oggetto a cui solo i fruitori danno l'importanza che merita di avere. Fin quando tutto resterà immoto, i discorsi sul valore culturale resteranno chiacchiere da bar o, al limite, dotti scambi di vendute tra sparuti gruppi di accoliti che rifiutano di guardare in faccia la desolante realtà dei fatti.

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