Andiamo così di fretta che stiamo uccidendo i videogiochi stealth

Come mai i giochi basati su attesa e la pianificazione, come gli stealth, sono diventati la nicchia di una nicchia? Non abbiamo più pazienza?

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a cura di Stefania Sperandio

Editor-in-chief

Mi si sono accese diverse campanelle d'allarme, in queste settimane: è stato un percorso. Ho dedicato un appuntamento del nostro RetroGiovedì a giocare con voi a Tenchu 2: Birth of the Stealth Assassins, uscito nel 2000. In quello successivo abbiamo giocato insieme a Hitman: Blood Money, datato 2006. In questi giorni ho sviscerato Hitman III, la conclusione della trilogia del World of Assassination, per misurarmi con la nuova proposta stealth di IO Interactive. E, in tutto questo, sono arrivate le dichiarazioni di Harvey Smith, metà del cuore di Dishonored, che ha parlato della grande difficoltà che i giochi stealth incontrano nell'imporre degli spostamenti necessariamente lenti.

Così, mentre insieme a voi ero acquattata in un bagno dell'Opera di Parigi e aspettavo che un innocuo e incolpevole operaio usufruisse dei servizi per stordirlo, rubare i suoi vestiti e avvicinarmi nel dietro le quinte ad Alvaro D'Alvade, mi sono resa conto che anche i videogiocatori e il mercato, precisi come un sicario, stanno mietendo una vittima — e quella vittima sono i giochi stealth.

L'intoppo degli stealth

Partiamo dalle dichiarazioni di Smith, che ai microfoni di Vandal ha spiegato qual è l'idea di base su cui è stato costruito il suo Dishonored: evitare che il giocatore sia costretto a spostarsi lentamente. Su questa idea vennero costruiti alcuni dei poteri dell'Esterno a disposizione di Corvo prima e di Emily poi, in maniera tale che tra gli stumenti sandbox a disposizione del giocatore ci fosse anche, se desiderato, la possibilità di spostarsi in modo rapido.

Nelle parole di Smith:

Una delle cose che allontanano le persone dai giochi stealth è il fatto che vengano percepiti come una specie di castigo, perché vengono avvertiti come giochi lenti.

E, senza il bisogno di aggiungere nemmeno troppo, il re è già nudo: in un mercato videoludico sempre più enorme e più eterogeneo, che va di pari passo con una società dove andiamo sempre più di corsa, i videogiochi lenti vengono percepiti come una punizioneun castigo.

Si tratta di un ribaltamento sorprendente, se pensiamo che "solo" una ventina di anni fa – concedeteci le virgolette, perché vent'anni nei videogiochi sono almeno due ere geologiche – i videogiochi stealth erano la punta di diamante dell'industria.

Gli stealth game, uccisi nell'ombra

1998, Metal Gear Solid. 1998, Tenchu. 1998, Thief. 1999, Syphon Filter. 2000, Hitman. 2000, Tenchu 2. E senza nemmeno andare a scomodare i Deus Ex o gli Splinter Cell. Sul finire degli anni Novanta e a cavallo degli anni Duemila, sappiamo che i videogiochi stealth hanno avuto la loro golden age.

Tantissimi sviluppatori hanno dato la loro interpretazione del genere, tra il rimanere nell'ombra, il nascondersi in piena vista, la declinazione in salsa ninja e quelle incentrate sulla distopia: il filo portante era sempre studiare i nemici e gli scenari, attendere il momento giusto per rimanere celati e poi spostarsi, perché il gioco non avrebbe premiato le uccisioni e l'approccio diretto, ma la capacità di agire nell'ombra.

Abbiamo citato franchise che hanno trovato grande fortuna, che sono evoluti, che hanno tentato di adattarsi al cambiamento portato da un'industria in cui i giochi "davvero" ambiziosi sono sempre più grandi. In un certo senso, sempre più aperti.

In Metal Gear Solid V: The Phantom Pain, l'ultima esperienza della saga stealth di Hideo Kojima e Konami, le meccaniche stealth hanno raggiunto il massimo della profondità per il franchise, aprendosi a un open world che però è migliorabile in diverse scelte di level design – che ovviamente influiscono sull'esperienza di infiltrazione e azione nell'ombra. Dopo il divorzio tra il publisher giapponese e il game director, sappiamo che la saga è finita in una soffitta impolverata e che la prima idea di Konami è stata quella di ibridare le meccaniche a quelle di un survival animato da infetti/non morti. Una scelta non del tutto sorprendente: già di suo, The Phantom Pain mescolava la sua anima stealth a una forte componente gestionale su cui tutti abbiamo passato decine di ore, costruendo la nostra Mother Base perfetta, un soldato e una pecora alla volta.

Tenchu? Quasi ironicamente, Tenchu nessuno lo ha più visto. Oltre vent'anni dopo la nascita, la serie dedicata al clan dei ninja Azuma si è dispersa nei corridoi dell'industria e viene riesumata di tanto in tanto dai ricordi degli appassionati. Chissà, potrebbe avere un ritorno nel prossimo futuro, ma per il momento siamo nel puro campo delle ipotesi, come spiegato dall'autore.

Thief? Sparito dai radar dal 2014, sotto etichetta Square Enix. Syphon Filter? Nemmeno il sempreverde Gabe Logan avrebbe fatto perdere le sue tracce in modo così accurato, con il team autore del franchise che ha virato sull'evidentemente più vendibile Days Gone.

Splinter Cell? La saga di Sam Fisher, come sappiamo, ormai è un tormentone. Diceva saggiamente il nostro Valentino che "Sam Fisher è in qualsiasi gioco, ormai, meno che in Splinter Cell". Una frase che riassume perfettamente l'uso che Ubisoft sta facendo dell'IP basata sul personaggio di Tom Clancy, che si prepara al massimo al caschetto della realtà virtuale.

Forse è ancora più doloroso venire al caso Deus Ex, che dopo il riuscitissimo Mankind Divided nel 2016 è finito chiuso in una soffitta a doppia mandata, con buona pace dei suoi cliffhanger – perché è tempo di dedicarsi a un'esperienza persistente dedicata agli Avengers che uscirà quando il treno di Endgame sarà già ampiamente trascorso. Sempre meglio che sviluppare un nuovo Deus Ex, con quello che costa.

E poi c'è Hitman. Il franchise di IO Interactive è l'unico tra quelli della storia recente del genere stealth, che si è salvato dalla strage, e solo per un motivo: Square Enix lo ha scaricato, ma ha consentito a IO Interactive di tenersi l'IP. Ossia, il publisher giapponese, traduciamo, non vedeva più potenziale commerciale in una proprietà intellettuale che aveva acquistato con Eidos e che gli apparteneva di diritto, al punto che ha preferito lasciarla in mano ai suoi autori originali, che ha messo in vendita.

In sintesi, Hitman è ancora convintamente Hitman, in tutta la sua lentezza e le sue attese – che pure strizzano l'occhio a un pubblico più ampio grazie ai livelli di difficoltà, alle classifiche online, alle Storie di missione che vi guidano nell'ordire il piano perfetto – solo perché lo sviluppatore ha deciso di sposarne a piene forze l'unicità e di farne il selling point del suo franchise. Solo perché è sopravvissuto a un'uscita da un'episodio al mese con cui Square Enix aveva voluto sperimentare. Solo perché, di fatto e con le dovute proporzioni relative ai suoi numeri (parliamo comunque di un team che conta circa duecento dipendenti), IO Interactive è a tutti gli effetti una compagnia indipendente che sviluppa e pubblica da sé.

E, bisogna dirlo, lo è anche perché è uno stealth in cui ci si nasconde in piena vista. Rimangono spesso le attese, rimane una fortissima componente di pianificazione, ma c'è anche tanto fare, all'interno di ogni Hitman. Un "fare" che a volte si traduce in "tentare" per scoprire cosa accade a incastrare equipaggiamenti, scenari e NPC in un dato modo. Si tratta di un'esperienza stealth che, in un certo senso, sposa quel concetto a cui faceva riferimento Harvey Smith, pur rivolgendosi alla nicchia di una nicchia: in Hitman passo tanto tempo a capire dove il mio target vada e quando la sua guardia del corpo smetterà di fissarlo anche solo per un secondo, è vero. Ma ne passo di più o altrettanto a sperimentare nuovi costumi e, più semplicemente, a rispondere ai vari che cosa succede se... che mi pongo appena noto ogni dettaglio.

Possiamo fare anche un altro nome, dato che abbiamo aperto con lui la nostra riflessione: Dishonored. Dopo il premiatissimo episodio originale nel 2012 e il seguito nel 2016, la serie è – indovinate un po' – in pausa. Non sappiamo a cosa stia lavorando ora Arkane Austin, la divisione che firmò Prey e che oggi è guidata da Harvey Smith, che in precedenza aveva diretto proprio le avventure di Corvo, mentre sappiamo che la divisione di Lione (esattamente quella di Dishonored) sta realizzando l'altisonante Deathloop. E se c'è una cosa che i trailer di Deathloop hanno messo in chiaro, quella è che l'azione, anche spettacolare, sarà ben più predominante del rimanere celati cercando di uccidere meno guardie di Dunwall e Karnaca possibile.

Non ne vale la spesa

Com'è successo, allora, che quel genere che era così ricercato, così imitato e studiato, nel giro di qualche generazione sia diventato uno scomodo ingombro sopravvissuto agli anni Novanta? I motivi sono da ricercarsi nell'evoluzione dell'industria – e non scopriamo oggi che l'industria va dove vanno i soldi dei giocatori.

Con videogiochi che costano sempre e sensibilmente di più (qui il nostro speciale con tutti i numeri), come dimostra il fatto che System Shock 2 nel 1999 costi $1,7 milioni, mentre Metal Gear Solid V nel 2015 ha richiesto $80 milioni, non si possono biasimare i publisher per il voler fare spese oculate e sempre meno rischiose. E gli stealth game sono, senza giri di parole, un rischio.

Lo sono perché i videogiochi possono permettersi di costare più di $120 milioni, come Cyberpunk 2077, solo se riescono a rivolgersi al più ampio pubblico possibile, ossia se riescono ad attrarre la più ampia fetta possibile di quell'enorme platea che è diventato il videogame. Se a videogiocare fossimo ancora io, mio fratello e i nostri quattro amici delle scuole elementari, insomma, non potrebbero esistere videogiochi che richiedono investimenti da $120 milioni.

Non posso scoraggiare una fetta consistente di pubblico, che al giorno d'oggi è attratta soprattutto dall'azione, dall'immediatezza, perché propongo un'esperienza di gioco che è lenta. Che se non ti perfezioni può diventare frustrante. Un'esperienza in cui sparare è un errore, non un merito, perché per fare le cose al meglio dovresti solo camminare nell'ombra. A volte strisciare, lentamente. Rimanere appiattito contro una parete sperando che quella sentinella non si volti. Che è la grande meraviglia degli stealth e della loro atmosfera. E il grande repellente dei tantissimi che si sentono meglio rappresentati dai gunplay.

La regola dei primi dieci minuti

Qualche mese fa, vi riportai sulle nostre pagine un'interessantissima intervistaBruce Straley, una delle ex menti creative di Naughty Dog e un papà di The Last of Us, che ragionò sul fatto che i videogiochi, con quello che costano oggi agli investitori, devono rapire nei loro primi dieci minuti. Dopo è troppo tardi.

Immaginate uno stealth in cui magari i primi dieci minuti di gameplay li passate a rimanere fermi in un vicolo perché la maledetta guardia sta fumando una sigaretta. Anzi, immaginate nel 2021 uno stealth game dove i primi dieci minuti li trascorrete ad aspettare un ascensore.

Spiegava Straley:

Personalmente io, come giocatore, voglio qualcosa di innovativo. Voglio qualcosa che sia differente, penso che ora ci sia più tempo nel gioco per mettere le basi per esperienze di questo tipo. In passato, invece, non si faceva che ripetersi ‘come coinvolgiamo il giocatore già nei primi dieci minuti? Dobbiamo fare questo, cominciamo in medias res, cominciamo con una bella sequenza d’azione, andiamo, andiamo, andiamo!’

E aggiungeva, in un discorso che sicuramente condivideranno i game designer dei giochi stealth:

Dobbiamo mettere i giocatori in una posizione in cui possano essere coinvolti dal bisogno di superare gli ostacoli che verranno, il che significa che le meccaniche chiave del gioco dovranno offrire opportunità sufficienti da ingegnarsi con una soluzione.

La domanda, allora, è semplice: sono i soldi di noi videogiocatori a guidare l'industria. Anche noi, come videogiocatori, vogliamo qualcosa di innovativo, come dice Straley? O la maggior parte di noi (e di conseguenza, dei publisher), come suggeriscono i numeri, si accontenta di qualche tratto variato qua e là sullo stesso disegno, a cui appiccica l'etichetta di "gioco nuovo"?

Cosa abbiamo imparato dagli ultimi videogiochi che hanno osato sperimentare, meglio ancora se nei tripla A? A quanto pare, abbiamo imparato che ci fanno arrabbiare, di tanto in tanto sbraitare – su internet abbiamo tutti troppo tempo libero, è appurato. Sicuramente, come community, non abbiamo incoraggiato a prendersi dei rischi. In molti, abbiamo anzi spinto i publisher sempre di più verso la loro comfort zone.

Una situazione con cui stiamo, di fatto, tirando noi la pistolettata alla tempia dei videogiochi stealth, senza nemmeno stare troppo acquattati tra le tenebre. Sperimentare è pericoloso. Le cifre da spendere sono importanti. La lentezza e la pazienza richieste dagli stealth sono tutt'altro che mainstream – e se il mio prodotto non è mainstream non posso spenderci sopra cifre importanti.

Così le meccaniche stealth, con così tanti franchise storici spediti in soffitta ed eredi che non hanno mai generato, abbiamo finito con il vederle soprattutto negli indie: pensiamo, ad esempio, al simpatico Untitled Goose Game. Sui grandi AAA, purtroppo e al massimo lo stealth si è accontentato di essere una delle componenti del tutto, non il tutto: "ci sono anche alcune meccaniche stealth", ci dicono regolarmente. Ma solo alcune, non vi spaventate, gli sviluppatori lo sanno che andiamo di fretta.

Verso dove, poi, ancora non si è capito.

Se volete acquistare un ottimo stealth game, vi raccomandiamo di acquistare Dishonored 2Hitman 3Metal Gear Solid V.