I videogiochi difficili a tutti i costi non sono l'unità di misura della qualità

O anche, videogiochi difficili e fenomenologia del "ti deve piacere il genere".

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a cura di Valentino Cinefra

Staff Writer

Avrete sicuramente affrontato una discussione, almeno una volta, con qualcuno che vi ha detto che i videogiochi difficili non esistono più, ne sono sicuro.

Uno dei temi più caldi, in forte ascesa nella community videoludica da un decennio a questa parte, è quello legato al concetto di “videogioco difficile”. La narrazione dei videogiocatori ruota intorno a concetti come “i videogiochi una volta erano più difficili”, “adesso solo i soulslike sono difficili”, “una volta la serie tal dei tali era più difficile ora l’hanno resa più accessibile ai casual gamer”.

Casual gamer e i "non-giocatori", pubblico che Nintendo ha rincorso con Wii per far respirare un mercato videoludico stagnante, un paio di generazioni fa e su cui giustamente tutti hanno capitalizzato in seguito. Wii è, peraltro, da sempre il bersaglio delle critiche di questa frangia di videogiocatori, console colpevole di aver impoverito il game design costringendo gli sviluppatori ad abbassare la sfida per incontrare il gusto di questo nuova utenza potenziale. Il che è quasi vero: rappresenta un percorso che tutti hanno seguito nella generazione di PlayStation 3 ed Xbox 360 proprio per accogliere tutti quei nuovi videogiocatori in un mondo che non conoscevano.

La verità è che un titolo come Ghosts ‘n Goblins, da sempre uno degli alfieri del “ai miei tempi i videogiochi erano più difficili”, è semplicemente un videogioco di un’altra era dove non era necessario, né importante, che ci fosse un bilanciamento o un game design troppo evoluto. Oggi sono prodotti che si devono guardare con l’occhio critico, analitico o almeno curioso di chi fa memoria storica, perché altrimenti crolla il proverbiale castello di carte. Tant’è che Ghosts ‘n Goblin Resurrection, riedizione del grande classico Capcom, offre vari livelli di difficoltà, e non solo perché il pubblico di oggi lo troverebbe complesso, ma lo percepirebbe in sostanza come un gioco completamente avulso e vecchio rispetto a quello che il mercato offre al momento.

In questo senso, oggi, viviamo in un momento storico in cui il senso di sfida rappresenta un’attrattiva molto importante per i videogiocatori come clienti. Il che è comprensibile e anche normale, perché inevitabilmente la soddisfazione generata dall’aver affrontato, e superato, un ostacolo durante un’esperienza videoludica è una sensazione che rimane come bagaglio di emozioni una volta che arrivano i titoli di coda.

Che il videogioco in sé vi sia piaciuto o meno alla fine, quanto sia in sintonia con le vostre corde, si tende a ricordare con più attaccamento un percorso dal quale siamo usciti vittoriosi dopo grande fatica. In perfetta contrapposizione a prodotti come New Pokémon Snap, giusto per citare un esempio recentissimo, che non basa per nulla la sua attrattiva sulla sfida sebbene ci si debba impegnare per completare il Fotodex.

Videogiochi difficili e Teoria dell’Autodeterminazione

È un atteggiamento talmente insito nella natura umana, quello che esplicitiamo nel caso dei videogiochi difficili, che, negli scorsi decenni, anche Richard M. Ryan (psicologo dell’Università di Rochester) ha studiato il medium proprio per riscontrare la presenza dei comportamenti da lui teorizzati nella Teoria dell’Autodeterminazione, uno degli studi più importanti della storia relativi alla comprensione dei comportamenti umani.

La tesi creata nel 1985 insieme ad Edward L. Deci sostiene che il benessere dell’individuo è il risultato della soddisfazione di tre bisogni psicologici di base:

  • Bisogno di autonomia: sentirsi libero in ciascuna azione e sentire che si agisce per propria volontà;
  • Bisogno di competenza: credere di riuscire ad agire con competenza nel proprio ambiente per lo svolgimento di compiti importanti;
  • Bisogno di relazioni: cercare e sviluppare delle relazioni sicure e positive con gli altri nel proprio contesto sociale.

Ryan studiò con grande interesse il mondo dei videogiochi negli anni ’70 ed ’80, il periodo più rampante perché rappresenta la nascita del medium come industria e mercato, e ritrovò proprio gli stessi comportamenti che avrebbe elaborato, poi, assieme a Deci nella Teoria di cui sopra:

“Il gaming è diventato interessante per me quando è esploso tra il 1970 ed il 1980, perché non solo molte persone erano intrinsecamente motivate a giocare ai videogiochi, ma anche nel crearne. […] In ogni buon videogioco, i designer hanno fatto leva in maniera intuitiva sui principi importanti di motivazione e trovato un modo per applicarli.”

Se ci pensate, proprio i tre bisogni psicologici di base della Teoria dell’Autodeterminazione sono le fondamenta della stragrande maggioranza delle esperienze videoludiche, soprattutto quelle più impegnative. Che sia l’apprendimento di un nuovo picchiaduro, giocare a Monster Hunter Rise come primo titolo della serie mai provato, giocare al più difficile degli stylish action o superare un boss di Bloodborne che sembra invalicabile.

In ognuno di questi casi si cercano l'autonomia perché i videogiochi per concezione lasciano all’utente la piena libertà, la competenza nell’imparare i fondamentali e poi gli aspetti avanzati del gameplay, ed infine le relazioni nella condivisione dei propri sforzi che sia con uno screenshot, su una community, o con la produzione di una guida, magari.

Soulslike o scaffale!

Alfieri di questa rinnovata fame di videogiochi difficili sono sicuramente i souslike di Hidetaka Miyazaki. Demon’s Souls, Dark Souls 1, 2 e 3, Bloodborne e Sekiro, da prodotti di nicchia sono diventati negli anni sempre più popolari fino a diventare il punto di riferimento per una parte sempre più ampia di videogiocatori. In un periodo, all’inizio di questo filone produttivo, in cui il livello di sfida si stava abbassando come vi raccontavamo poco sopra, esistevano dei videogiochi che invece non solo non spiegavano niente al videogiocatore, ma non gli lasciavano scampo.

Il risultato è che, oggi, non esiste uscita videoludica che non venga paragonata, anche in una minima misura per un minimo aspetto, ad un soulslike, dove la massima espressione di questo comportamento viene rilevata nel caso si parli di un videogioco action. Il “combattimento à la Dark Souls” è una feature sempre più richiesta, un paragone che viene fatto puntualmente ed una domanda che ci si ritrova a leggere sempre di più in occasione dell’uscita di una recensione o di un’analisi approfondita.

A ragione il lavoro di Miyazaki è diventato un culto, intendiamoci. Il discorso che faccio non vuole in alcun modo sminuire i soulslike né l’idea che un videogiocatore possa ricercare esperienze del genere. Io stesso ne ho vissute, come amo dedicarmi a videogiochi che non possono essere giocati con leggerezza ma, anzi, hanno bisogno del massimo impegno per essere appresi. È inevitabile evidenziare come, però, la community dei videogiocatori sia entrata in un loop da cui sembra impossibile uscire.

È quello dei videogiochi difficili a tutti i costi, dove un titolo viene denigrato per forza rispetto ad un altro solo perché non è “impegnativo”. E non si parla di gusti, attenzione, ma di una valutazione spacciata per oggettiva e fattuale ma relativa solo a, invece, un gusto, una preferenza o un dettaglio che si ricerca all’interno di un’opera. Un vero e proprio cortocircuito che porta anche al più classico dei cliché, in cui tutti cadiamo per vari motivi, relativo a: “ti deve piacere il genere”.

Fenomenologia del “ti deve piacere il genere”

Un qualsiasi soulslike viene consigliato a prescindere ad un videogiocatore curioso, qualunque sia il suo background ludico. Un titolo talmente bello ed importante che va giocato a tutti i costi e poco importa che, statistiche alla mano, solo una piccola percentuale di chi ne acquista uno poi lo porta a termine tra PC e console. Invece un gestionale, un simulativo o anche un Monster Hunter viene descritto come titolo su cui fare attenzione perché complesso, poco accessibile e da acquistare solo “se ti piace il genere”.

Un fenomeno interessante che sono sicuro sia capitato anche a voi, in prima persona oppure che abbiate assistito. Certo è semplice capire come muoversi e come attaccare in Demon’s Souls per PlayStation 5, lo potremmo quasi definire più “accessibile” rispetto al dover capire le regole di base di un Monster Hunter o di un Civilization, ma non appena ci si ritrova a combattere il primo manipolo di mostri arrivano i dolori per un giocatore inesperto. Al contrario, un gestionale o proprio l’hunting game di Capcom accompagnano molto di più il giocatore novizio nelle fasi iniziali del gioco.

Davvero un Bloodborne è da giocare assolutamente mentre per un Returnal ti deve piacere il genere? Proprio nel caso della nuova esclusiva PlayStation 5 ho visto più volte dei giocatori domandarsi se l’esperienza possa essere troppo frustrante, mentre Hades (che accessibile o semplice non è affatto) per fare un esempio è stato accolto – giustamente e meritatamente – con le lodi più sperticate.

La celebrazione dei videogiochi difficili come uniche, vere, esperienze videoludiche ha inevitabilmente annacquato il dialogo nella community dei videogiocatori. La diffusione di questo concetto ha modificato la percezione che gli utenti hanno rispetto ai videogiochi in confronto a come siano in realtà e questo, oltre a creare paradossi per cui prodotti altamente impegnativi vengono consigliati come se fossero alla portata di tutti e non il contrario, crea anche dei gravi precedenti.

“Git gud” ed il videogioco dei miei tempi signora mia

Mi riferisco alla filosofia del git gud, il get good, l’idea del doversi migliorare e di potenziare le proprie capacità, termine diventato un tormentone online ma, come sempre accade in questi casi, trasformato in una bestialità con l’accezione negativa dell’insulto. Il git gud diventa un “sei scarso/a devi migliorare”, dove all’inizio rappresentava invece uno slang delle community di giocatori per spronarsi a migliorare.

Ricordo a questo proposito un curioso siparietto di qualche anno fa della redazione di Nerdist, magazine online statunitense dedicato alla cultura pop, che coinvolgeva tra gli altri anche Jessica Chobot. Il video lo trovate qui sotto perché, al di là di tutto, è molto simpatico da vedere:

Si parla di quando, di fronte ad un errore in una sezione di gioco, ci si ritrova a caricare a mano un checkpoint per evitare di perdere tempo davanti ad una sconfitta inevitabile, per la precisione relativamente ad Uncharted 4. A quel punto Chobot si infervora, confessando simpaticamente poco dopo di essere in uno stato psicofisico alterato per aver fatto le ore piccole proprio sul lavoro di Naughty Dog, perché secondo lei un videogiocatore dovrebbe subire la sconfitta e lasciare che sia il gioco a scorrere naturalmente, diciamo, ricaricando il checkpoint in automatico.

Un momento ironico e simpatico, ma se estraessimo l’evidente complicità tra le persone coinvolte e l’ammissione da parte di Chobot del fatto che si tratta comunque di uno sfottò amichevole, potrebbe tranquillamente rappresentare uno dei classici siparietti che, purtroppo, si ritrovano di tanto in tanto nelle community dove un hardcore gamer ne insulta un altro per le sue scarse abilità. Git gud, appunto. Cosa che succede spesso su Twitch, come racconta Polygon attraverso un’analisi di qualche tempo fa.

Tra marzo ed aprile la streamer Ashley Roboto si è espressa in maniera abbastanza netta contro chi, tra i suoi spettatori, si lamentava del fatto che giocasse a Kingdom Hearts 3 alla minima difficoltà per concentrarsi sul capire la storia:

“Lasciate che le persone giochino ai videogiochi nel modo che preferiscono! […] Non tutti vogliono giocare ed essere continuamente infuriati e fuori di testa per tutto il tempo. Non fate gatekeeping su come le persone giocano ai videogiochi”.

Uno sfogo che è stato rapidamente accolto da molti altri streamer che si sono trovati nella stessa situazione, anche loro infastiditi da chi offende e si accanisce con veemenza solo perché si gioca alla difficoltà più bassa, e che è inevitabilmente una stortura rispetto al discorso che stiamo affrontando.

Imparate a capire cosa sono davvero i videogiochi

Questo non significa che tutti i giocatori di soulslike sono degli animali che vanno a rovinare le vite altrui, tutt’altro. Ma è inevitabile constatare che comportamenti del genere siano una deriva, oltremodo estremista, di questa rincorsa al concetto di difficoltà elevata come unico valore di un’opera videoludica. Non è neanche un problema solo da individuare nel gatekeeping, perché non si parla di “non devi giocare a questo videogioco perché ai miei tempi i videogiochi erano migliori”, ma è un vero e proprio attacco alla libertà di godersi i videogiochi come si vuole.

Specie per uno streamer che, tra le altre cose, deve intrattenere il pubblico. Immaginate se, dal 7 maggio prossimo, uno streamer dovesse iniziare a giocare a Resident Evil Village per poi scoprire di non esserne in grado, morendo in continuazione e creando uno spettacolo decisamente poco divertente da vedere. Per il caso di Ashley Roboto e degli altri content creator di Twitch, così per tutti gli altri videogiocatori che, in tutto il mondo, continuano a divulgare il verbo della massima difficoltà assoluta come unico assunto per godere di un videogioco, credo il problema sia uno solo, ed è sempre quello che emerge in casi del genere: la mancanza di approccio attivo.

Non capire che è un problema se durante una live si muore in continuazione per la difficoltà elevata, così come il fatto che Sekiro e Days Gone sono due videogiochi meritevoli della stessa attenzione, il cui valore può essere simile se valutato con parametri differenti, significa non essere in grado di capire cos’è davvero un videogioco. Per dirla in maniera più semplice: non accendere il cervello.

Un videogioco può essere divertente oppure no, può farci viaggiare oppure farci venire il magone, può farci passare un’oretta in serenità oppure portare ad interrogarci sui massimi sistemi, così come può farci venire voglia di tirare il controller contro il muro oppure regalarci la partitella prima di andare in dormire. Il videogioco può, ma soprattutto deve, essere tutto e il contrario di tutto questo, ma non lo si può capire se si continua a fare a chi ce l’ha più lungo su Dark Souls.

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