So che i soulslike non fanno proprio per me, quindi mi sono giocata Bloodborne

Ci sono cose a cui non giocheremmo mai, perché sono lontanissime dalla nostra comfort zone. E faremmo male.

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a cura di Stefania Sperandio

Editor-in-chief

In realtà lo avevo già capito, da prima di fare il test. Quando una persona a me molto cara mi propose di misurarmi con la tassonomia dei videogiocatori di Richard Bartle, che lo studioso aveva inizialmente elaborato per "inquadrare" gli appassionati di MMO, ma che ben si applica a tutti, sapevo che risultato sarebbe venuto fuori.

Sono una explorer. Uno di quei videogiocatori a cui interessa il mondo in cui immergersi, che vogliono scoprirne tutto, che vogliono curiosare, collegare puntini e soprattutto scovare il modo di farlo. Questo mi porta a essere molto lontana dai giochi ideali per i giocatori killer, quelli che amano la sfida, la competizione, l'avere ragione del nemico in virtù delle proprie abilità.

Immaginate quanto questo già dica del mio possibile rapporto con i soulslike. Amo i giochi di ruolo e sono abbastanza anziana da amare il grinding nei giochi di ruolo: ricordo pomeriggi di ingenua gioventù trascorsi ad accumulare punti esperienza rimbalzando tra un Final Fantasy e un Dragon Quest, ma quando l'azione si fa in tempo reale il discorso è diverso. Per me la sfida, in un'esperienza videoludica, è l'ultima delle cose che importi. Non mi interessa essere messa alla prova dal gioco, mi intriga vederlo snodarsi davanti a me, sorprendermi, appesantirmi.

Videogiochi come quelli di From Software e Hidetaka Miyazaki, sono lontanissimi dalla mia comfort zone – non fate i finti tonti, tutti ne abbiamo una. Il che è il preciso motivo per cui mi sono armata di coraggio e ho giocato Bloodborne. E per cui so che ho fatto bene.

Per la tuttologia? In fondo a destra

Chiariamo subito questo punto: noi videogiocatori siamo sempre piuttosto affamati e onnivori. A volte la curiosità, meglio ancora se con modelli di acquisto che permettono di accedere a tanto con poco, spinge a sperimentare anche su videogiochi su cui normalmente non si metterebbero mai le mani.

So che a molti piace spacciarsi per "tuttologi", ossia ritenere di avere le stesse competenze e la stessa impeccabilità davanti a qualsiasi tipo di sfida un videogioco li ponga davanti, ma non è il mio caso e la tuttologia mi è anzi anche un po' indigesta. Dico nitidamente che grazie al cielo esiste Daniele Spelta, perché se avessi dovuto recensire io Crusader Kings III sarei ancora lì a spulciare ogni minima schermata del tutorial. Lo avrei fatto? Certamente sì. Sarei stata nella mia comfort zone? Evidentemente no. Ho provato il gioco lo stesso e ci ho passato un po' di ore? Certo che sì, come potevo esimermi?

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Il succo è proprio questo, con una differenza: io nemmeno volevo provarlo, Bloodborne. E questa cosa mi rodeva, perché ero affascinata dal suo mondo e le sue atmosfere. Quando la suddetta persona cara giocò il titolo, diversi anni fa, mi ritrovai a sbirciare la sua run, perché volevo saperne di più, trincerata dietro al «un videogioco che mira a non perdonarti niente non fa proprio per me».

Senza nemmeno sottolineare i tanti spunti ricevuti da colleghi (Domenico può testimoniare) e dai ragazzi che ci seguono quotidianamente su Twitch, alla fine – complice la disponibilità del gioco nella PlayStation Plus Collection – mi sono buttata.

Diario di una che pensava di aver capito tutto ma moriva ogni volta

Ho messo a scaricare Bloodborne e l'ho provato. Il mio unico impatto avuto con un soulslike in precedenza fu con Demon's Souls, ai suoi tempi: morii tre o quattro volte di fila e decisi che sarebbero state le ultime. Per sempre, all'incirca. Poi, invece, ho avviato Bloodborne.

Superata la fase iniziale e vagando per quella Yharnam che era affascinante proprio come la ricordavo, nelle sue gotiche vette di desolazione e nei lamenti ferini degli uomini-bestia che anelano il mio sangue, mi sono accorta di cavarmela. Niente di speciale, solo di cavarmela. Penso di aver mandato un messaggio vocale dopo un'oretta a Domenico in cui gli facevo sapere che «tanto dramma per nulla, non è così difficile». Pia anima innocente.

In breve, mi sono trovata in un loop da cui non riuscivo più a uscire e in cui ho rischiato il primo, potentissimo, ragequit (ne ho avuto tre, mi pare): ho scassato l'arma. L'ho scoperto quando il gioco me lo ha scritto, non ricordavo nemmeno ci fosse lo stato di salute degli equipaggiamenti. Morale della favola: la mia arma faceva pochissimi danni. Facendo pochi danni, non uccidevo nemici prima di venire uccisa. Venendo uccisa, perdevo gli echi. Non avendo echi, non avevo la "valuta" per riparare l'arma.

Mi sono trovata in un cul-de-sac e mi sono detta «bene, ho visto abbastanza, addio». E invece, nonostante questo pensiero, ho continuato. Ho accumulato abbastanza echi e sono corsa via alla prima lanterna per riparare l'unica arma che avevo. Sono uscita dal vicolo cieco in cui mi ero messa senza accorgermene. E non sapevo cosa mi avesse spinta a farlo -- forse quel senso di orgoglio ferito nel dover dire «sì, ci ho provato, ma mi sono bloccata già nel primo scenario, non fa proprio per me», che non mi andava giù.

Mi è successo diverse altre volte. Ho preso padronanza con il gioco quando ho capito che si poteva grindare tanto - cosa che mi ha fatto sentire a casa - e ho letteralmente esagerato. Ho letto che potevo avere trenta livelli in meno, quando sono arrivata alla fine dell'ultimo scenario. Ma questo mi ha dato un'altra sberla: ero convinta che grindando tanto avrei risolto i problemi con la difficoltà del gioco, con il mio approcciare i combattimenti a testa bassa perché trovo l'attesa per il momento giusto semplicemente logorante.

Mi sono schiantata contro il Cacciatore della Cappella di Old Yharnam prima e con il Villaggio Invisibile poi. Da "sovra-livellata", come dicevo durante le nostre dirette. Ho fatto ragequit, ma questa volta davvero, a quaranta ore. Quaranta ore passate con un gioco lontanissimo dalla mia comfort zone. Ne ho passate meno su Control, che nella mia comfort zone ci entra bello comodo e che ho amato.

Non farò spoiler a chi non avesse giocato Bloodborne, ma sono giunta a uno scenario a ridosso dell'epilogo in cui esponendosi alla vista di un nemico si perdeva vita. Nel mio caso, se ne perdeva troppa e, usando un checkpoint poco saggio in cui ero circondata dai nemici, mi sono trovata bloccata sempre negli stessi dieci metri. Ho commesso, dopo quaranta ore, lo stesso identico errore fatto all'inizio: la mia fiducia nel fatto di aver padroneggiato il gioco mi ha messa all'angolo.

Ho spento la console. Mi sono detta che non volevo giocarci mai più. Era un sabato sera di zona rossa ed ero già abbastanza frustrata e stanca – «mi ci mancava solo di bloccarmi alla fine dopo quaranta ore in questo gioco». Poi il giorno dopo ci sono tornata. Mi sono sentita come un serpente incantato davanti a un pifferaio magico. Ho imprecato interiormente ogni volta (qualche volta anche non interiormente, ma non diciamolo in giro), poi puntualissima ci sono tornata.

Ho mantenuto lo stesso pensiero fino alla fine, non ho problemi ad ammetterlo: non è per niente la mia tazza di tè. Ho sfidato il boss finale, ormai a livello 96, senza trovarlo nemmeno troppo difficile rispetto ad altro, ma con addosso un'ansia da prestazione fuori scala: lo studiare l'avversario. Aspettare che scopra il fianco. Colpirlo con il fucile al momento giusto per aprirgli la guardia finché hai proiettili per farlo. Inanellare un tempismo perfetto dietro l'altro e non sbilanciarsi, rimanendo imperturbabile per tutto il tempo.

Impossibile, lo dico. Quando la sua vita era quasi vuota, mi sono buttata di testa. L'ho sconfitto, non chiedetemi come, perché avevo deciso che questo scontro deve finire adesso e ho smesso perfino di curarmi nonostante avessi ancora Fiale del Sangue, buttandomi a capofitto. Aveva una barra vitale residua che forse era al mezzo centimetro e per fortuna è arrivata a zero. Non so come avrei reagito se mi avesse battuta, a quel punto, dopo che mi sono scoperta così perché trovavo il giocare lo scontro in modo attendista, semplicemente, estenuante. Il che, so, è il motivo per cui questi giochi vengono amati, nella loro straordinaria qualità, da chi le sfide le adora.

Il tutto mi ha confermato, dopo le suddette oltre quaranta ore di run e mentre scorrevano i titoli di coda, che questi giochi non fanno parte della mia comfort zone. E quindi sono felicissima di averci giocato.

Deviare dalla bussola

Tutto questo diario mi ha fatto tornare in mente un aspetto che trovo sempre molto intrigante in tutti i media – e ancora di più nei videogiochi,  dove il ruolo cardine è dell'interazione: uscire dalla comfort zone.

Molti di noi appassionati sono diventati adulti fianco a fianco con i videogame e se c'è una cosa che è certa, è che abbiamo tutti meno tempo per giocare per puro piacere rispetto a quando eravamo bambini. E ogni giocatore ha un suo budget che vuole dedicare ai giochi da acquistare.

Questo significa che abbiamo tutti dei paletti entro i cui confini decidiamo a cosa potrebbe valere la pena giocare e a cosa no: decidiamo così i "giochi che fanno per noi". I soulslike, nel mio caso, erano completamente fuori da quest'isola felice. Ho amato Bloodborne e il modo in cui mi ha spinta a prendere a schiaffi le mie certezze, oltre all'immaginario con cui è tratteggiato il mondo di Miyazaki. Il che non cambia che i soulslike rimangano fuori dai miei paletti rigorosamente personali.

Questo si traduce con il fatto che i "giochi che fanno per noi" non corrispondono necessariamente ai giochi che potrebbero piacerci e darci qualcosa. Mi successe qualcosa di simile molti anni fa con la serie Civilization, a cui mi avvicinai con curiosità e un po' di sana diffidenza, e su cui ho passato centinaia di ore di innamoramento puro.

Quando stiamo lavorando a dei giochi da recensire che sono sotto embargo, capita che cerchiate di scucirci qualche piccolo dettaglio: come sono le meccaniche? Che importanza ha la storia? Si spara o l'azione non c'è? A cosa somiglia?. Tutti interrogativi che cercano di capire se il gioco in questione ricadrà dentro o fuori dai propri paletti personali, che però alla fine della fiera ci diamo solo con l'intento di perderci deliberatamente qualcosa.

Abbiamo tutti un'area sicura in cui rifugiarci. A me, ad esempio, non piacciono gli horror. Ho giocato Project Zero II e me ne sono innamorata. Ma non sono cultrice degli horror e questo non cambia. Ci sono libri che non leggiamo, film che non vediamo, storie che non scopriamo, perché il gusto personale è ovviamente una bussola fondamentale.

La raccomandazione, per tutti i videogiocatori più affamati di scoprire quanto il videogioco abbia da offrire, è di fare in modo che non sia sempre solo l'unica. Tenere la stella polare ha senso per orientarsi ma, se lo avessi fatto senza concedermi deviazioni, non avrei mai giocato Bloodborne. E pensate a cosa mi sarei persa.

Se volete uscire dalla vostra comfort zone con dei giochi che potrebbero non fare per voi, valutate di misurarvi con Sekiro, con Death Stranding o con Detroit: Become Human, tutti divisivi per motivi molto diversi tra loro.