C'è un suono che ogni giocatore che ha amato gli stealth game nei primi anni 2000 conosce a piuttosto bene. È un ronzio elettronico, acuto e quasi rassicurante, che si attiva all'unisono con l'accendersi di tre inconfondibili lenti verdi. Quel suono, per me, è stato l'inizio di tutto.
L'inizio di un'era passata nell'ombra, a studiare i movimenti delle guardie, a calcolare la gittata di una luce, a diventare un fantasma. Quello era il suono di Sam Fisher, e l'inizio della saga di Splinter Cell.
Oggi, a più di vent'anni dal nostro primo incontro e in un silenzio assordante rotto solo dalla promessa di un remake che tarda a mostrarsi, sento il bisogno di guardarmi indietro. Di ripercorrere quel sentiero oscuro, illuminato solo a intermittenza dalla luce dei miei visori notturni, per capire non solo cosa sia stato Splinter Cell, ma cosa potrebbe ancora essere.
Quando l'ombra era la nostra unica alleata
Ricordo ancora la prima volta che avviai Tom Clancy's Splinter Cell nel 2002. Ero ancora giovanissimo, un bambino e venivamo dall'era di Metal Gear Solid, un capolavoro che aveva definito lo stealth in termini di narrazione cinematografica.
Ma l'opera di Ubisoft Montreal, nata quasi in sordina da un team di talenti emergenti, proponeva qualcosa di diverso, di più viscerale e, a suo modo, più realistico. L'oscurità non era semplicemente un luogo dove nascondersi, era il nostro habitat naturale, la nostra arma principale.
Il gioco ci presentava Sam Fisher, un veterano della CIA e dei Navy SEAL richiamato in servizio per la neonata Third Echelon, una divisione super segreta della NSA. Non era il classico eroe. Era un uomo di mezza età, dal fisico segnato e dalla voce roca e profonda (resa immortale in Italia dal timbro di Luca Ward), un professionista che eseguiva ordini con cinismo e un'efficienza letale. La sua personalità, tratteggiata attraverso i dialoghi con il suo supervisore Irving Lambert, era tanto affilata quanto profondamente onesta.
Ciò che mi folgorò, però, fu il gameplay. La dinamica tra luce e ombra era rivoluzionaria per l'epoca. Un indicatore a schermo ci diceva quanto fossimo visibili, e il nostro obiettivo primario era mantenerlo a zero. Sparare a una lampadina non era un'azione accessoria, ma un'azione che risultava fondamentale e che cambiava le sorti di uno scontro.
Potevamo appenderci ai tubi, scavalcare recinzioni con uno scatto felino, eseguire lo "split jump" in un corridoio stretto per tendere un'imboscata dall'alto. Ogni livello era un puzzle ambientale da risolvere con pazienza e intelligenza, dove la violenza era sempre l'ultima risorsa, spesso punita con un allarme generale. Non si trattava di eliminare tutti, ma di non essere mai visti. Un mantra che la serie, nel bene e nel male, avrebbe poi rinegoziato.
Da Pandora Tomorrow a Chaos Theory
Se il primo capitolo aveva gettato le fondamenta, i due successivi portarono ai massimi livello il genere stealth. Pandora Tomorrow (2004) fu un'evoluzione diretta, che affinava le meccaniche, introduceva nuove abilità e, soprattutto, introduceva una modalità multiplayer asimmetrica, "Spie contro Mercenari", che divenne leggendaria. Ritengo ancora oggi che l'idea di due spie agili e invisibili contro due mercenari pesantemente armati e in prima persona era semplicemente geniale e creava una tensione tattica che pochi altri giochi online sono riusciti a replicare negli anni avvenire.
Ma fu con Chaos Theory (2005) che la saga raggiunse il suo zenit. Ancora oggi, a distanza di quasi due decenni, è considerato da molti, me compreso, uno dei punti più alti mai raggiunti da un videogioco stealth. Ubisoft Montreal perfezionò ogni singolo aspetto.
La libertà di approccio divenne totale. I livelli erano più ampi, offrendo molteplici percorsi per raggiungere l'obiettivo. Potevamo scegliere il nostro equipaggiamento, optando per un approccio non letale, aggressivo-furtivo o un misto dei due. L'introduzione del coltello da combattimento rese gli scontri ravvicinati più brutali e silenziosi, e la possibilità di interrogare i nemici aggiunse profondità sia alla raccolta di informazioni che alla caratterizzazione di Fisher, le cui battute sarcastiche durante gli interrogatori sono rimaste iconiche (e ogni tanto me le riascolto volentieri).
Chaos Theory era un gioco che premiava l'osservazione e la pianificazione, anche considerando che l'intelligenza artificiale era più reattiva, i nemici notavano porte lasciate aperte e si insospettivano per rumori fuori posto. Per non parlare del motore grafico, che per l'epoca era sbalorditivo, con effetti di luce e ombra che non erano solo un orpello estetico, ma il cuore pulsante dell'esperienza. Giocare a Chaos Theory significava diventare Sam Fisher, sentire la tensione di un'infiltrazione, il brivido di passare a un centimetro da una guardia senza essere visti, la soddisfazione di completare una missione senza lasciare traccia. Era la quintessenza di Splinter Cell.
Double Agent e Conviction
Dopo un tale capolavoro, la strada non poteva che essere in salita. Double Agent (2006) rappresentò il primo, vero punto di svolta, un tentativo coraggioso ma non del tutto riuscito di scuotere la formula. La trama si fece più personale e drammatica: la morte della figlia di Sam, Sarah, lo gettava in una spirale di dolore che lo portava ad accettare una missione da infiltrato in un'organizzazione terroristica.
Qui entrava in gioco la meccanica della "doppia fiducia": dovevamo compiere azioni per soddisfare sia la NSA che i terroristi, spesso con obiettivi contrastanti. Una scelta morale (uccidere un innocente per mantenere la copertura o far saltare la missione per salvarlo) poteva cambiare il corso degli eventi. Sulla carta, era un'idea brillante che prometteva di esplorare le zone grigie dello spionaggio.
In pratica, il sistema si rivelò a volte macchinoso e le due versioni del gioco (una per la generazione di Xbox 360/PS3 e una per la precedente) offrivano esperienze diverse e non sempre coerenti. Pur mantenendo un solido nucleo stealth, Double Agent lasciò intravedere le prime crepe, il desiderio di Ubisoft di rendere la saga più appetibile a un pubblico vasto, introducendo sezioni più action e una narrazione più spettacolare.
La meccanica chiave era il "Mark and Execute": dopo un'eliminazione corpo a corpo, potevamo marcare un certo numero di nemici e ucciderli istantaneamente con la pressione di un tasto, in una sequenza al rallentatore degna di un film di John Woo. Era spettacolare, catartico, ma era ancora Splinter Cell? Per me, e per molti fan della prima ora, la risposta fu un "ni".
Conviction era un ottimo action-stealth game, ma aveva sacrificato la pazienza, la pianificazione e la tensione dei primi capitoli in favore di un'azione più immediata e cinematografica. Sam non era più l'operativo silenzioso, ma una macchina di morte inarrestabile. Un cambiamento narrativamente giustificato, ma che snaturava l'anima del franchise. Tra l'altro, Conviction ebbe anche uno sviluppo molto travagliato e un reboot interno che quasi ne causò la cancellazione.
Blacklist
Blacklist, arrivato solo nel 2013 cercò di fare la pace tra le due anime della saga. Con Sam a capo della nuova Fourth Echelon, il gioco tentò di offrire una sintesi tra la furtività classica e l'azione moderna. E, in gran parte, ci riuscì. Il titolo introdusse tre stili di gioco che venivano valutati alla fine di ogni missione: "Fantasma" (non letale, nessuna traccia), "Pantera" (furtivo ma letale) e "Assalto" (azione pura). Questa flessibilità permetteva a ogni giocatore di affrontare le missioni come preferiva, premiando ogni approccio.
Il gameplay era fluido, il level design intelligente e il ritorno della modalità "Spie contro Mercenari" fu accolto con gioia. Blacklist era, a tutti gli effetti, un gioco eccellente, un pacchetto ricco di contenuti e meccanicamente solidissimo. Eppure, mancava qualcosa. Forse la novità, forse quell'identità forte e intransigente dei primi capitoli. Nonostante le ottime recensioni, il gioco non raggiunse le aspettative di vendita di Ubisoft. E così, dopo Blacklist, Sam Fisher è rientrato nell'ombra. Un'ombra non più tanto amica, ma bensì un oblio durato più di un decennio, interrotto solo da qualche comparsata in altri titoli Ubisoft.
Il futuro incerto del Remake
Poi, nel dicembre 2021, l'annuncio. Ubisoft Toronto, lo stesso team dietro Blacklist, annuncia di essere al lavoro su un remake del primo Splinter Cell, ricostruito da zero con il motore Snowdrop. La promessa è quella di mantenere lo spirito originale, la dinamica luce-ombra, l'approccio lineare, ma aggiornando la narrazione e le meccaniche per un pubblico moderno.
Da allora, il silenzio. Non abbiamo visto un singolo fotogramma di gameplay. Sappiamo che il progetto ha perso il suo game director e che il team sta assumendo personale. Ogni tanto trapela qualche concept art, ma Sam Fisher rimane un'entità astratta, un ricordo. E l'attesa si carica di speranze e paure. La speranza è quella di rivivere la magia del 2002 con la tecnologia di oggi. Di ritrovare quella furtività pura, metodica, che richiede intelligenza e pazienza.
La paura è che "aggiornare per un pubblico moderno" possa significare snaturare di nuovo l'esperienza. Che la tentazione di inserire elementi open world, microtransazioni o di semplificare eccessivamente le meccaniche possa prevalere. Il mondo dei videogiochi è cambiato. Il genere stealth stesso si è evoluto, integrandosi in formule più ampie come in Hitman o The Last of Us.
C'è ancora spazio per un'esperienza così pura e focalizzata come quella del primo Splinter Cell?
Io credo di sì. Credo che ci sia una fame, mai sopita, per quel tipo di sfida. Per la tensione di un'infiltrazione perfetta, per la soddisfazione di essere un fantasma in un mondo di rumore. Splinter Cell ci ha insegnato a rispettare le ombre, a usare l'ingegno prima della forza, a diventare l'agente segreto definitivo.
Mentre aspetto un segnale, un'immagine, un suono che mi confermi che Sam Fisher stia davvero tornando, mi ritrovo a pensare che il mondo ha ancora bisogno di Sam Fisher. E noi giocatori, francamente, anche.