La nicchia dei giochi investigativi giapponesi meriterebbe molto più successo

Tra Phoenix Wright, Danganronpa e AI: The Somnium Files, i videogiochi investigativi giapponesi hanno tanto da dire, pur essendo ancora oggi una nicchia.

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a cura di Silvio Mazzitelli

Redattore

Niente affascina il pubblico più di un mistero ben fatto. Non per niente, attorno a questo concetto si è creato un intero genere letterario, quei romanzi gialli resi famosi da autori ormai divenuti leggendari come Sir Arthur Conan Doyle o Agatha Christie.

Scrivere una storia che riesca a mantenere il fascino dei suoi misteri vivo fino alla fine non è però affatto semplice: bisogna saper rivelare il giusto per mantenere alta l’attenzione dei lettori, senza svelare troppo per non rischiare di far intuire facilmente ogni cosa.

Se questo è complicato nei libri o nei film gialli, figuriamoci in un videogioco, che si basa quasi completamente sull’interazione e ha solitamente una durata molto maggiore. Eppure, in molti sono riusciti a creare dei “gialli videoludici” appassionanti. Basti pensare a titoli come L.A. Noire, Heavy Rain, Return of the Obra Dinn o a quelli ispirati dal personaggio di Sherlock Holmes di Frogwares.

Questi titoli riescono a catturare l’essenza di film e libri con delitti e misteri da risolvere, dando al giocatore la soddisfazione di indagare e risolvere con le proprie forze i vari casi.

Se la scuola occidentale non va troppo lontano dagli insegnamenti del genere giallo, la scuola giapponese invece li riprende e li sconvolge totalmente, grazie a storie molto sopra le righe per vicende e personaggi oltre che per elementi di gameplay unici e originali, creando un vero e proprio sottogenere alternativo, il cui esponente più illustre è senza alcun dubbio la saga di Phoenix Wright.

Tutto nasce da un avvocato

Era il 2000 quando Shinji Mikami, all’epoca a capo del Capcom Production Studio 4, affidò un compito al giovane Shu Takumi: creare qualsiasi gioco lui desiderasse, ma in sei mesi. Nella mente di Takumi, già da tempo si era formata una vaga idea di un gioco basato su misteri da risolvere e questa era la sua occasione di concretizzare quello spunto in qualcosa di reale.

Phoenix Wright: Ace Attorney, creato da sole sette persone, è riuscito a creare un vero e proprio nuovo genere.
Con un minuscolo team di sole sette persone e dieci mesi di lavoro, nacque Gyakuten Saiban, quello che oggi in Occidente conosciamo meglio come Phoenix Wright: Ace Attorney.

All’inizio il gioco non sembrò impressionare molto i piani alti di Capcom, ma la passione di Takumi li convinse a dare una chance al progetto, che uscì nel 2001 su Game Boy Advance.

Il risultato fu molto sopra alle aspettative per un titolo così di nicchia e nella sua vita su GBA, il titolo arrivò a superare le 100mila copie vendute in Giappone. Il vero boom, però, si ebbe con l’uscita su Nintendo DS nel 2005, quando il titolo arrivò localizzato anche in Occidente. Con sorpresa di alcuni pezzi grossi del reparto marketing di Capcom, il gioco divenne un grande successo anche in Nord America ed Europa.

La saga conta oggi ben sei titoli della storia principale e due saghe spin-off: Miles Edgeworth Investigations e The Great Ace Attorney. Il protagonista che dà il nome alla serie, ossia Phoenix Wright, è ormai considerato un personaggio iconico di Capcom, tanto da essere incluso come personaggio giocabile persino in Marvel VS Capcom 3.

La serie è ancora oggi tenuta in grande considerazione dal publisher, che negli anni recenti ha pubblicato in diverse collezioni tutti i capitoli della saga, tra cui anche i due giochi prequel chiamati The Great Ace Attorney – che mai erano usciti al di fuori del Giappone e vi sono arrivati con ben cinque anni di ritardo.

Si può dire che il successo di Phoenix Wright sia stato tale da aver dato vita a un nuovo genere.

Ormai nel mondo dei videogiochi si fa sempre molta fatica a parlare di generi ben distinti, viste le continue contaminazioni tra varie tipologie: ad esempio, anche i soulslike in sostanza sono degli action RPG, ma sono riusciti a trasformare così tanto la base da cui sono partiti al punto da renderla unica, grazie soprattutto a delle meccaniche innovative ormai entrate nella storia del videogioco.

Con Phoenix Wright è successo lo stesso. Alla base, il gioco è una fusione tra una visual novel e una classica avventura punta e clicca, ma l’aggiunta delle battaglie in tribunale a suon di “Objection!”, di prove da mostrare e falle da trovare nei dialoghi, ha dato un elemento unico e caratteristico alla serie, che ancora oggi la contraddistingue in pieno.

Naturalmente il titolo non sarebbe mai diventato quello che è senza una buona narrativa alla base. Ogni caso di Phoenix Wright: Ace Attorney è estremamente avvincente, sia per la maestria nel gestire i misteri legati agli omicidi e ai colpevoli, sia per la caratterizzazione dei personaggi.

Spesso, anche quando ormai è chiaro chi sia l’assassino, il gioco mantiene alta la tensione, mentre si tenta di incastrarlo cercando di far combaciare tutte le prove. Chi ha giocato la serie si ricorderà delle sette camice sudate in alcuni casi per far capitolare infine le difese del colpevole, tra momenti carichi di tensione e colpi di scena che tengono incollato il giocatore fino alla fine del processo.

Inoltre il gioco riesce benissimo ad alternare momenti estremamente divertenti e a volte folli (come quando viene chiamato a testimoniare un pappagallo) con altri molto drammatici e commoventi, il tutto con una naturalezza tale per cui questi due registri così diversi del racconto non cozzano mai tra loro. Una strana magia che riesce così bene solo agli sviluppatori giapponesi – come, ad esempio, accade anche in Yakuza.

Per creare Phoenix Wright, Shu Takumi si è ispirato a diversi romanzi gialli di alcuni autori giapponesi, tra cui Ranpo Edogawa, un po’ l’equivalente di Agatha Christie in Giappone, ma tra le sue influenze vi sono anche i telefilm del Tenente Colombo e soprattutto di Perry Mason.

Molti tra i più anziani di voi si ricorderanno di Perry Mason come quel telefilm noioso guardato dalle nonne, eppure in origine è il personaggio di una serie di libri gialli dello scrittore Erle Stanley Gardner. All’inizio Phoenix doveva essere un detective privato, ma ciò sarebbe stato un problema dato che un detective non può difendere in tribunale un sospettato.

Nelle storie in cui è protagonista, Perry Mason, nonostante sia un avvocato, indaga in prima persona sui dettagli del caso per difendere al meglio i suoi clienti durante il processo e questo ha dato l’idea di far diventare anche Phoenix Wright un avvocato. Insomma, il titolo di Capcom è un po’ il punto d’incontro tra i romanzi gialli di Oriente e Occidente.

L’influenza di Phoenix Wright fu subito enorme, tanto che molti altri giochi seguirono la strada segnata da questo titolo portando alla nascita di altre interessanti esperienze.

Delitti e misteri del Sol Levante

Prima paragonavamo l’innovazione nelle meccaniche della saga di Phoenix Wright ai soulslike, per l’introduzione di sistemi divenuti poi un marchio di fabbrica. Rispetto a tutti i titoli che sono riusciti a inventare una nuova formula di gioco però, in Phoenix Wright le meccaniche erano talmente situazionali e irripetibili che era impossibile riadattarle per altri giochi con altre ambientazioni.

D’altronde, a differenza di elementi riadattabili in qualche modo, come i falò o i meccanismi delle anime dei soulslike, le sessioni nelle aule giudiziarie di Phoenix Wright potevano funzionare solo in quel contesto.

Eppure questo grosso limite non frenò molti altri sviluppatori, ammiratori della saga di Capcom, nel creare titoli che ne erano profondamente ispirati – anzi, il limite fu anche positivo, perché diede vita a diverse sperimentazioni nel creare delle meccaniche tanto singolari quanto quelle del nostro avvocato videoludico preferito.

Un esempio lampante delle molteplici strade prese dai “figli” di Phoenix Wright si può osservare palesemente in due saghe estremamente popolari: Professor Layton e Danganronpa.

Furono molti i titoli che seguirono le orme di Phoenix Wright, trovando il loro stile unico tra gameplay e narrativa.
Il primo è conosciutissimo in tutto il mondo e con oltre 18 milioni di copie vendute è il titolo più di successo di Level 5. In Europa ha venduto particolarmente bene, diventando “mainstream” persino nel nostro Paese grazie ai suoi rompicapi in stile Settimana Enigmistica.

Creato da Akihiro Hino, CEO di Level 5, è un mix di avventura, visual novel ed enigmi molto vari, con una storia dai toni leggeri e molto in linea a quelli dei film d’animazione per bambini. Per stessa ammissione di Akihiro Hino, il personaggio di Layton è in parte ispirato a Phoenix Wright e questa ammirazione per la serie di Capcom è sfociata poi, nel 2012, nel cross-over Professor Layton VS Phoenix Wright: Ace Attorney, titolo per Nintendo 3DS che unisce entrambi gli stili di gameplay.

Danganronpa invece è una storia dai temi totalmente all’opposto di quelli del Professor Layton. Potremmo definirla come una fusione tra una classica storia di detective e quella del romanzo Battle Royale. La saga è composta da tre titoli principali più alcuni spin-off; ogni capitolo ha un incipit simile, in cui un gruppo di studenti viene rinchiuso da un misterioso orso meccanico chiamato Monokuma in luoghi da cui è impossibile fuggire, come la scuola del primo capitolo.

Monokuma sfida gli studenti a commettere un omicidio senza venire scoperti: soltanto in questo modo potranno vincere il suo gioco perverso. Il gameplay, anche in questo caso, è diviso in momenti di investigazione, momenti da visual novel e Class Trials, che ricordano in parte le sessioni nella corte di Phoenix Wright: Ace Attorney, ma in questo caso divise in diversi minigiochi.

Questi hanno poi degli elementi maggiormente ludici, in cui, ad esempio, il gioco diventa un third person shooter molto semplicistico in cui sparare dei “proiettili della verità” per vanificare gli alibi degli avversari.

Kazutaka Kodaka è la persona dietro quest’opera, che negli anni si è espansa in altri media con manga, light novel e diversi anime. Inizialmente Kodaka puntava a diventare uno sceneggiatore nel settore cinematografico, ma ben presto decise di puntare al mondo videoludico per avere più possibilità di creare una sua opera originale.

La sua carriera nel mondo dei videogiochi iniziò con Clock Tower 3, in cui lavorò come assistente del director del gioco. In alcune interviste Kodaka ha rivelato di essere stato influenzato, per le sue storie, da diversi registi occidentali, come Quentin Tarantino e David Lynch, e di ammirare i giochi di Suda 51, che ha anche citato in alcune sue opere.

Kodaka non si è però fermato a Danganronpa, ma ha realizzato altri titoli dalla struttura simile, ossia World’s End Club e il recente Master Detective Archives: Rain Code, esclusiva Nintendo Switch (qui la nostra recensione).

Quest’ultimo titolo (che potete trovare anche su Amazon) riprende molti elementi dei Danganronpa, ma in chiave maggiormente noir; i punti di forza restano comunque i personaggi carismatici e un’ambientazione unica. Anche le fasi di gameplay sono maggiormente votate all’azione, prendendo stavolta degli elementi anche dai JRPG.

Nel 2017, Kodaka, insieme ad altri suoi ex collaboratori di Danganronpa, fondò la casa di sviluppo chiamata Too Kyo Games, che in collaborazione con Spike Chunsoft pubblicò proprio Rain Code.

Kodaka però non è l’unica star dei videogiochi basati su misteri e indagini a far parte del team di Too Kyo Games; insieme a lui è presente un altro pezzo da novanta di questo genere in Giappone: Kotaro Uchikoshi. È lui la mente dietro ad altre due saghe basate su misteri e delitti molto famose, ossia la trilogia di Zero Escape e i recenti due titoli della serie AI: The Somnium Files.

I primi due titoli della serie Zero Escape uscirono nel 2009 e nel 2012, ottenendo in realtà uno scarso successo in Giappone. Fortunatamente, con gli anni molti fan del genere riscoprirono i titoli e chiesero a gran voce un nuovo capitolo, che arrivò nel 2016 concludendo la trilogia.

Gli Zero Escape fondono elementi da visual novel con fasi concitate realizzate nello stile di una Escape Room, dove il giocatore deve risolvere un enigma dietro l’altro entro un determinato limite di tempo. Anche in questo caso i giochi hanno per protagonisti diversi personaggi rapiti senza un apparente motivo da uomini mascherati e costretti a partecipare a dei giochi mortali.

I toni della narrativa di questa saga sono molto più seri e realistici rispetto alle follie di Danganronpa, sfociando in teorie e discorsi che si basano su filosofia, scienza e fantascienza. Non è un caso, infatti, che Asimov sia una delle massime ispirazioni nelle storie di Uchikoshi. Una particolarità dei titoli firmati da Uchikoshi è che entrambe le sue saghe hanno finali multipli e per ottenere il vero finale del gioco bisognerà prima scoprire tutti quelli precedenti.

Anche i due giochi della serie AI: The Somnium Files riprendono molte tematiche ed elementi degli Zero Escape, cambiando però registro e stile di gioco. Il nome del titolo è volutamente ambiguo, incarnando i tanti significati e temi trattati al suo interno.

"Ai" si riferisce infatti alle intelligenze artificiali centrali all’interno della storia, agli occhi (la parola inglese "eye" in katakana è pronunciata sempre "ai") elemento centrale negli omicidi del gioco, e all’amore in tutte le sue forme, dato che "ai" in giapponese vuol dire proprio amore.

Il titolo (lo trovate anche su Amazon) è sempre diviso in parti miste tra visual novel, avventura punta e clicca e le fasi dei Somnium. Nella storia del gioco esiste infatti una macchina che permette di entrare nella mente degli indagati mentre dormono, così da indagare nel loro subconscio proprio tramite i sogni.

Queste sono fasi di gameplay molto particolari, dove il giocatore dovrà affrontare mondi sempre diversi e con regole uniche per scoprire gli indizi necessari a portare avanti il caso. Rispetto agli Zero Escape, la storia ha toni che variano dall’estremamente cupo all’estremamente divertente: basti pensare che ogni gioco finisce con tutti i personaggi che si esibiscono in una coreografia danzante sul tema musicale del titolo.

Quelli citati sono i titoli principali che hanno fatto la storia dei mystery game del Sol Levante, ma ci sono anche molti altri giochi validi: ad esempio, sempre creato dall’autore di Phoenix Wright, Ghost Trick: Phantom Detective, che di recente ha avuto una versione remastered, oppure Hotel Dusk: Room 215 e il suo seguito, dell’ormai scomparsa Cing, che riprendono molto lo stile delle storie noir classiche.

Il motivo per cui questi titoli siano diventati una nicchia così importante nel mondo videoludico non sta però soltanto nell’originalità delle varie meccaniche di gameplay create, ma soprattutto per l’incredibile qualità della narrativa, spesso troppo sottovalutata.

Storie che meritano di essere vissute

Questa particolare tipologia di titoli, nonostante il successo in tutto il mondo, se paragonata a molti altri titoli mainstream, è comunque rimasta di nicchia. Forse tanti giocatori sono spaventati dalla quantità di testo presente o dalle fasi di gameplay atipiche, eppure così si perdono alcune delle storie più appassionanti del mondo videoludico.

Lo storytelling giapponese, in qualsiasi sua forma, è da sempre apprezzato in tutto il mondo per l’incredibile inventiva nella creazione di personaggi e storie, in grado di sorprendere soprattutto chi è abituato allo stile narrativo occidentale (basti pensare al successo di alcuni grandi anime e manga anche solo nel nostro Paese).

Queste caratteristiche di successo sono ancor più evidenti in questi videogiochi dedicati a delitti e misteri, in cui l’ispirazione da anime e manga è evidente, ma in cui c’è anche molto di più.

In molti dei titoli citati in precedenza si può trovare tutto quello che si desidera da una storia scritta bene. Personaggi molto ben caratterizzati, senza che ci siano macchiette o cattivi stereotipati, colpi di scena inaspettati e raramente prevedibili, in grado di lasciare il giocatore a bocca aperta, e infine la cosa forse più importante: la coerenza del racconto.

In questa tipologia di titoli si può trovare tutto quello che si desidera da una storia scritta bene.
In titoli come Phoenix Wright, Danganronpa o AI: The Somnium Files non ci sono mai grossi buchi di trama o questioni lasciate in sospeso per dimenticanza. Se esistono, infatti, è solo per essere riprese nel capitolo successivo.

La cosa in cui questi giochi riescono meglio a livello narrativo sono però le emozioni che riescono a dare. Come avevamo accennato prima, in titoli come Phoenix Wright e AI: The Somnium Files, si passa a scene con omicidi efferati a momenti folli da far ridere a crepapelle senza minimamente rovinare l’atmosfera del racconto.

Lottare con Phoenix in tribunale per far trionfare la giustizia, scoprire i misteri dietro gli assassinii di Ai o comprendere la verità dietro Monokuma sono momenti che, da giocatori, non si possono dimenticare.

Per creare un grande videogioco non c’è sempre bisogno di avere un grande budget o una grafica super realistica e a volte sono i giocatori stessi a precludersi certe grandi esperienze per dei preconcetti spesso sbagliati.

In alcuni casi basterebbe superare l’avversione per qualche linea di testo di troppo o per un gameplay mai sperimentato prima per scoprire magari un titolo che farà passare decine di ore in compagnia di una storia in grado di appassionare e soprattutto divertire, stavolta nel vero senso della parola.

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