Il punto è che vi piace il marketing, non videogiocare

Zelda: Tears of the Kingdom è un inno universale al videogiocare, ma il dibattito si sta inaridendo su frame rate e comparto tecnico.

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a cura di Stefania Sperandio

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«Sarà stupendo, ma almeno per il comparto tecnico mettetegli 8 e mezzo o 9». Uno dei nostri lettori non ha dubbi, quando commenta sui social la recensione di The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom. Le opinioni si dividono, tra chi fa notare che un comparto tecnico che non ha inciampi che compromettano l'esperienza non sia rilevante, e chi invece gli dà manforte.

«Sembra un gioco del 2005» dice, tra i denti, qualcuno, a cui rispondono «i capolavori non sono per forza in 4K e 60 fps». Qualcun altro fa ironia: «questa PS3 sforna titoli pazzeschi», «lo si potrebbe considerare perfetto se fosse un gioco indipendente prodotto da un piccolo team [...] su PS3 ho visto roba MOLTO più bella da vedere».

«È letteralmente del 2015 dal punto di vista tecnico» aggiunge un altro. «La perfezione no» ci ammonisce un altro lettore, «se era anche graficamente al top, allora sì».

E ancora: «come può attirare un gioco con una grafica da cartone animato per bambini di cinque anni? Mi viene la nausea solo a vedere gli screenshot».

Potrei continuare per un bel po', potrei gironzolare anche tra i commenti di altre testate e – peggio che mai – potrei finire in quelle americane, con il pubblico statunitense che, anche più di quello nostrano, ha un amore particolare per il dare all'occhio la sua parte, che supera tutto. In queste ore, dopotutto, ha sollevato la questione anche David Jaffe (God of War, Twisted Metal), secondo il quale TOTK ha «una grafica brutta, orrendi controlli, ed è un gioco fantastico».

Non ho evidenziato delle parti a caso, in questa introduzione: l'espressione bello da vedere e il fatto che la perfezione sia possibile solo se un gioco è "anche graficamente al top".

Siamo di fronte a qualcosa che ispira una riflessione che riguarda l'industria nel suo insieme: l'esperienza? Importante, certo. Ma il graficone fotorealistico dove lo metti?
Le perplessità, i contro-argomenti e il dibattito fanno sempre bene, ma qua siamo di fronte a qualcosa che ispira una riflessione del tutto diversa, che non è nemmeno legata strettamente a The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom, ma all'industria nel suo insieme.

Ed è il problema per cui una buona parte dei videogiocatori tiene su un altare il fotorealismo, tanto facile da vendere, con i lustrini e le paillettes della risoluzione, del ray-tracing, dei particellari, del frame rate. L'esperienza? Importante, certo. Ma insomma, il graficone irrinunciabile dove lo metti?

Alla fine sta vincendo il marketing con i suoi standard che si vendono da soli: i fiocchetti sul pacchetto del fotorealismo. Vince il trailer in CG che fa partire i pre-ordini alla cieca. E, ancora una volta, all'ennesimo che scrive che «è un gioco per bambini di cinque anni» (dopo il Sacrario di ieri sera in cui mi sono sentita terribilmente stupida, sono sicura del contrario, ndr), c'è anche un'altra riflessione da fare: quella per cui se un videogioco non ha una grafica fotorealistica in cui, per giunta, si spara contro qualcosa, allora è puerile – perché che diavolo d'altro si fa in un videogioco?

Il comparto grafico che si vende da solo

Lo sappiamo, quanto costano i videogiochi. E sappiamo che stanno correndo in direzione di un cortocircuito, considerando che qualcuno tra sviluppo e marketing ha parlato di spese dalle parti del miliardo. Cifre che necessitano di modelli di monetizzazione molto diversi dall'acquisto singolo da 70 o 80 euro, che spingono verso l'entrata persistente, l'abbonamento, la microtransazione, perfino il non-senso degli NFT prezzemolini.

Una buona parte di queste spese è legata anche ai comparti tecnici sempre più articolati. Ci siamo abituati a standard così alti, per i videogiochi che puntano al fotorealismo e alla narrazione simil-cinematografica, che se qualcuno risparmia in termini di facial capture per le cut-scene si nota subito.

Praticamente, siamo in una situazione in cui troviamo "8K" stampato sulle scatole delle console, anche se queste devono mettere più di un paletto per avere il 4K nativo (bloccando il frame rate, ad esempio), perché la super-grafica è una leva di marketing potentissima.

Non so se sia un rimasuglio atavico. Da bambina, ricordo quando i giocatori di FIFA 99 mi stupivano perché «sembrano veri», rispetto ai giochi di calcio a cui ero abituata. Sta di fatto che, oggi come allora, il graficone si vende da solo.

Di recente ho recensito Burning Shores, l'espansione di Horizon: Forbidden West (gioco che dal maestro Zelda: Breath of the Wild ha attinto con la pala – e giustamente), che rappresenta quanto di più impressionante io abbia mai visto girare su una console.

E, a tal proposito, c'è una sequenza che molti giocatori hanno definito «spettacolare», «leggendaria», «epica» proprio per il suo impatto visivo, per la sua messa in scena. E lo è, capiamoci. Poco male che da giocare avesse invece il design di una boss fight di Crash Bandicoot 2 o al massimo 3: è meravigliosa, perché da vedere è una grandissima figata, punto e capo.

È una situazione paradossale per cui quello che succede controller alla mano, il vivere quella scena, è un contorno rispetto alla meraviglia che coglie l'occhio nel guardarla – e non l'opposto. E allora sta vincendo il marketing, quello dell'impatto immediato del graficone che si vende da solo. Delle conferenze da tre ore e mezza dove non distingui lo stacco pubblicitario dalla world premiere dell'ennesimo gioco dove spari a qualcosa e «guarda! Sembra vero!». Quello che ci ha ripetuto così tante volte, che la grafica di qualcosa era amazingincredible, che abbiamo finito per ritenerla davvero la cosa fondamentale.

Su Tears of the Kingdom, poi, ci sarebbe in realtà tanto da dire. Sul considerare che abbia una brutta grafica, come suggeriva Jaffe – ad esempio. Ha ovviamente il comparto tecnico ritagliato su misura per Nintendo Switch, ma giocando in modalità handheld (e, eccezione per me, devo dire anche in modalità TV su un full HD da 40") il tutto è delizioso e la direzione artistica è da togliersi il cappello. Ho già trovato veri e propri momenti contemplativi per cui interrompo ogni scorribanda per fermarmi a guardare il tramonto. Un lago. Un villaggio. C'è una personalità fuori scala, in questa Hyrule, che riempie il cuore e non solo l'occhio.

Immaginate se provassimo ad applicare questi ragionamenti ad altri media ritenuti "alti": sul cinema parleremmo di tipi di pellicola e 24 fps, sulla letteratura di grammatura e brossure.
C'è qualche calo di frame, è vero, ma perché è rilevante se non ha un impatto sull'esperienza di gioco? Perché ci siamo abituati a proporzionare l'esperienza di gioco al counter degli fps in alto sullo schermo, anche quando questo counter degli fps non ha nessun impatto su quello che stiamo vivendo?

È una visione che mi ricorda un commento ricevuto qualche tempo fa da un lettore, che suggeriva di strutturare tutte le recensioni come le analisi di Digital Foundry. È una delle cose più mortificanti che abbia mai letto per il videogioco: prendere in analisi il solo comparto tecnico, il come gira qui e ora – ché alla prossima patch gira in modo diverso – mentre dell'esperienza, dell'opera che c'è sotto la patina di texture e frame che si avvicendano, a chi importa?

Immaginate se provassimo ad applicare questo ragionamento ad altri media ritenuti "alti": la critica cinematografica parlerebbe di tipi di pellicole, 24 fps, forse di coloring (ma con quello forse siamo già oltre). Quella letteraria vi offrirebbe delle belle disamine su grammature e varianti di brossura. Non conosco amanti della settima arte, né dei libri, che si augurerebbero una cosa del genere, per il dibattito sul loro medium preferito: la tecnica è una sua parte, ma non il suo cuore.

E vedere parte dei videogiocatori stessi, invece, che invocano la centralità della tecnica, che richiedono il graficone come unità di misura centrale, ispira più di una riflessione. E nessuna è edificante per la crescita di questo medium.

Sono giochi per bambini!

Nel nostro Paese, più che in altri, abbiamo un problemino a comunicare i videogiochi. Sarà che si chiamano -giochi, ma vengono traslati automaticamente in "giocattolo" e, quindi, in attività da perdigiorno. «Non sei un po' cresciutella per i videogiochi?» penso sia una frase che vi siete sentiti dire qualche milione di volte, da chi è ancorato peraltro a una visione per cui a giocare non siano certo gli adulti. 

Con davanti un videogioco che influenzerà tutti gli altri, metà della community sta invece discutendo dell'assenza del graficone e della presunta puerilità dello stile.
Per questo è a suo modo affascinante, un po' come l'orrore dilettevole, vedere videogiocatori che accusano un videogioco di essere «per bambini», a mo' di insulto. Se questo vuole alludere alla presunta puerilità del suo stile, in molte caratteristiche adorabilmente giapponese, sospetto che davanti a una manciata di Sacrari tra quelli che ho visto ci sia già la risposta. Ma penso che la questione sia più profonda e collegata all'altra: è per bambini perché ha una «grafica da cartone animato», scriveva qualcuno.

Perché, senza i 4K (upscalati) con i riflessi in tempo reale sui vetri dei grattacieli, cosa videogiochi a fare? E, ancora meglio, se devo gironzolare, costruire, esplorare, ma limitarmi a prendere a badilate dei simil-maiali e dei lucertoloni, come faccio a prendere sul serio la cosa? Insomma, se non ho un nemico contro cui sparare in modo realistico, non è un videogioco adulto. E anche questa, ne parlò Bruce Straley tempo addietro (ex Naughty Dog), è una leva di marketing immediata. Un gameplay incentrato sul prevalere si vende da solo: dà soddisfazione immediata al giocatore, che sa cosa aspettarsi.

È un procedimento che abbiamo visto molto spesso e difficilissimo da scardinare: se un videogioco non traduce il gameplay con gunplay, secondo parte della community allora ha tre etichette possibili. La prima è quella che non è un videogioco: è un walking simulator. Chiedete a Death Stranding, a Firewatch, a What Remains of Edith Finch, Journey – alcune delle cose più travolgenti che si possano vivere in un videogame.

La seconda è che è considerato da molti una lagna. Pensate agli strategici, pieni di testi e statistiche da valutare, o pensate ai giochi di ruolo a turni.

La terza etichetta è che, beh, è per bambini. Da PokémonGiulia Passione, un filone onnivoro di declassamento in cui solo una formula di gameplay è consentita – salvo poi lamentarsi che i videogiochi sono tutti uguali.

È un atteggiamento purtroppo ricorrente ma su cui vale la pena soffermarsi per una riflessione, perché sappiamo che purtroppo parte della community spesso si trincera dietro al fatto che il videogioco non dovrebbe essere per tutti (pensate alle reazioni per la modalità aracnofobia di Hogwarts Legacy, dove l'accessibilità sembra un affronto a qualcun altro e non una conquista), quindi dire che è per bambini fa capire quanto non sia all'altezza, da prendere poco sul serio. Insomma, non è un videogioco vero con cui misurarsi.

Mentre appare evidente quanti passi in avanti devono ancora essere fatti in come si parla di videogiochi, come li si percepisce e come se ne dibatte – in prima persona, da chi adduce di amarli – Tears of the Kingdom se ne sta bello tranquillo con il suo lancio da record. Il portafogli dei giocatori, insomma, pare abbia già votato, ma lo spettro del graficone e dei per bambini continua ad aleggiare ed è il centro del dibattito, in questo momento. Con davanti un videogioco che influenzerà tutti gli altri – come già fece Breath of the Wild, che genera tutt'oggi proseliti – una grossa fetta della community sta invece discutendo dell'assenza della tecnica next-gen e della presunta puerilità dello stile.

Ed essere per bambini è un'accusa mossa spesso a Nintendo, come se fosse un'onta. È che forse vi siete dimenticati di come ci si sentiva – da bambini – a scoprire un nuovo videogioco. A me è tornato in mente in questi giorni: è come mi sto sentendo, meravigliata e curiosa, mentre scorrazzo lungo Tears of the Kingdom.

E allora sì, che è un gioco per bambini. È un complimento meraviglioso. E qui l'età non conta.