Ogni volta che un fatto di cronaca nera scuote l’opinione pubblica, il meccanismo si ripete con la precisione di un orologio svizzero. Una sparatoria in un liceo americano, un atto di bullismo filmato con lo smartphone, un’aggressione senza senso in pieno centro.
Puntuali, i titoli dei giornali generalisti rievocano il legame presunto tra videogiochi e violenza. È una narrativa che ha più di trent’anni, eppure continua a riaffiorare come un disco rotto, incapace di consumarsi.
Perché? La risposta è ovviamente semplice: i videogiochi sono un capro espiatorio perfetto.
Facili da incolpare, difficili da difendere in modo immediato. E soprattutto, rappresentano quell’oggetto culturale “alieno” che una certa classe dirigente (politica, giornalistica e accademica) non ha mai davvero compreso.
Ancora colpa dei videogiochi
La storia inizia negli anni Novanta, quando titoli come Mortal Kombat e Doom entrano nell’immaginario collettivo. Sangue, smembramenti, demoni infernali: ecco il materiale da prima pagina.
Ogni generazione politica sembra destinata a rispolverare la stessa polemica, spesso ignorando studi scientifici, dati concreti e persino il buon senso. E in quest'epoca di guerre e violenze all'ordine del giorno, è facilissimo che ciò accada.
La verità, ovviamente, è molto più complessa. Esistono migliaia di ricerche accademiche che hanno indagato il rapporto tra videogiochi violenti e comportamenti aggressivi. La maggior parte di esse concorda su un punto: non vi è alcuna correlazione diretta, automatica e univoca tra l’atto di giocare a un titolo violento e l’esplosione di comportamenti criminali nel mondo reale.
Al massimo, ciò che si osserva è un incremento momentaneo dell’attivazione fisiologica, lo stesso che si riscontra guardando un film d’azione, praticando sport competitivi o ascoltando musica particolarmente adrenalinica. Parlare di “causa-effetto” è dunque un’operazione scorretta.
Ma questo non impedisce ai media generalisti di reiterare la formula: videogioco uguale violenza. Punto. Fine del dibattito.
C’è un dettaglio che rende la vicenda ancora più amara. La violenza è sempre stata parte integrante delle narrazioni umane. Dall’Iliade alle tragedie greche, dai romanzi di Dostojevskij ai film di Tarantino, il sangue e la brutalità hanno sempre avuto un ruolo nelle arti.
Spesso sono strumenti per riflettere sull’esistenza, per esorcizzare paure collettive, per mostrare il lato oscuro della nostra natura. Eppure, quando la violenza compare nei videogiochi, improvvisamente smette di essere “arte” e diventa “istigazione”. Un paradosso che rivela il pregiudizio di fondo: il videogioco non viene considerato un medium maturo, ma un giocattolo per adolescenti.
E se i ragazzi giocano a qualcosa di violento, allora l’associazione con la devianza diventa automatica. È la scorciatoia perfetta per non ammettere che la realtà sociale sia infinitamente più complessa.
Ma il nodo non è soltanto culturale. C’è anche una questione economica e politica. Attaccare i videogiochi significa evitare di toccare i veri nodi della violenza contemporanea: la facilità con cui negli Stati Uniti si acquistano armi da guerra nei supermercati, il degrado urbano in molte periferie europee, la fragilità dei sistemi educativi, l’assenza di politiche giovanili.
È molto più semplice accusare Call of Duty che interrogarsi sul perché un ragazzo di diciassette anni possa avere accesso a un fucile d’assalto. È più comodo puntare il dito contro Grand Theft Auto che domandarsi come sia possibile che una generazione intera cresca senza prospettive, senza lavoro stabile, senza reti di protezione sociale.
Il videogioco diventa così la valvola di sfogo di un sistema che non vuole guardarsi allo specchio.
Eppure, la discussione sulla violenza nei videogiochi non è da archiviare come irrilevante. Sarebbe ingenuo negare che l’esposizione a contenuti crudi possa avere un impatto emotivo, soprattutto su soggetti particolarmente fragili. Ma questo vale per qualsiasi medium.
La differenza è che i videogiochi aggiungono un elemento di interattività: non sei spettatore passivo, ma agente all’interno di un mondo virtuale. Ed è proprio questa peculiarità a generare paure sproporzionate.
L’idea che “uccidere” in un videogioco possa abituare a uccidere nella realtà si fonda su un fraintendimento grossolano: confondere il simbolico con il reale. Chiunque abbia impugnato un pad per affrontare un boss in Dark Souls, o abbia guidato in modo spericolato per le strade di Los Santos, sa che non c’è alcuna trasposizione automatica.
La sospensione dell’incredulità è totale: il giocatore sa di trovarsi in uno spazio finzionale. Al massimo, la violenza diventa catarsi, valvola di sfogo, simulazione controllata.
Ciò che semmai merita attenzione è la rappresentazione stessa della violenza. Alcuni giochi scelgono di edulcorarla, trasformandola in spettacolo ironico o cartoonesco. Pensiamo a Fortnite, dove la sparatoria è più danza che carneficina, con colori sgargianti e skin improbabili.
Altri titoli, invece, la rendono brutale, disturbante, quasi insopportabile. The Last of Us Part II non ci invita a godere del massacro, ma ci costringe a sentirne il peso, a provare disagio. In questo senso, i videogiochi possono persino essere strumenti di riflessione più incisivi di altri media.
Metterti nei panni di un personaggio e costringerti a compiere atti violenti, per poi farti sentire la colpa di quei gesti, è un’esperienza che un film o un libro difficilmente possono replicare con la stessa intensità. Altro che istigazione: è educazione emotiva.
Eppure, la percezione pubblica resta inchiodata al cliché. Forse perché il videogioco, nel suo essere ancora relativamente giovane, non ha conquistato una legittimità culturale paragonabile a cinema o letteratura. Ogni volta che un regista rinomato mette in scena violenza, si parla di poetica, estetica, linguaggio.
Quando lo fa un videogioco, invece, si parla di devianza. Una doppia morale che rivela tutta la miopia di una certa critica. Ma è una miopia che conviene: serve a mantenere in piedi l’illusione che i problemi sociali abbiano cause semplici, risolvibili con divieti e censura.
Cambierà mai questa situazione?
Alla fine, il nodo è politico. La demonizzazione dei videogiochi serve a costruire consenso facile. I genitori preoccupati applaudono al politico che promette di “vietare certi giochi per proteggere i nostri figli”. I giornalisti in cerca di titoli sensazionalistici hanno un nemico da sbattere in prima pagina.
Gli accademici più conservatori trovano terreno fertile per ribadire la loro visione paternalista. Nel frattempo, l’industria videoludica continua a crescere, ignorando queste polemiche come fastidi passeggeri.
La verità è che i videogiochi non rendono violenti. Al massimo, riflettono la violenza che già permea la società. La rappresentano, la mettono in scena, la trasformano in esperienza ludica. In questo senso, i videogiochi non sono né più né meno pericolosi di qualsiasi altro prodotto culturale.
Se esistono individui che commettono atti efferati, non è perché hanno passato troppe ore su Call of Duty, ma perché vivono in contesti sociali, familiari e culturali fragili. Criminalizzare un medium significa ignorare le vere radici del problema. È come curare la febbre rompendo il termometro.
Ed è qui che il dibattito dovrebbe spostarsi. Non più “videogiochi e violenza”, ma “videogiochi e responsabilità”. Non più censura, ma educazione. Non più divieti, ma consapevolezza critica. Insegnare ai giovani a interpretare le immagini, a distinguere finzione e realtà, a riflettere sul senso delle storie che consumano: questo è il vero antidoto.
I videogiochi, se affrontati con maturità, possono persino diventare alleati in questo percorso. Possono stimolare discussioni, porre domande, mostrare le conseguenze della violenza in modi che altri media non sanno fare. Ma per arrivare a questo serve un cambio di paradigma: smettere di vedere nel videogioco il nemico, e iniziare a riconoscerlo come ciò che è davvero. Un linguaggio, un’arte, uno specchio della nostra epoca.
Finché non ci riusciremo, la storia continuerà a ripetersi. Ogni tragedia, ogni atto di violenza, ogni emergenza sociale sarà l’occasione per rispolverare l’accusa più comoda. E il videogioco resterà lì, condannato a fare da parafulmine. Ma forse, un giorno, qualcuno avrà il coraggio di ammettere che la violenza non nasce da uno schermo, ma dalla realtà stessa.
E che spegnere una console non basterà mai a risolvere ciò che non vogliamo affrontare davvero.