Sono sincero, c'è stato un tempo, non molto tempo fa, in cui ho temuto che il videogioco horror, quello vero, viscerale, capace di insinuarsi sotto la pelle e di non lasciarti dormire la notte, fosse morto.
O peggio, che fosse diventato una parodia di se stesso, un'ombra sbiadita che scimmiottava i fasti del passato senza più comprenderne l'anima.
È stato un periodo buio, un limbo desolante per chi, come me, ha sempre trovato nel terrore digitale una forma d'arte sublime, un modo unico per esplorare i recessi più oscuri della psiche umana e, paradossalmente, per sentirsi incredibilmente vivi.
Lo ricordo bene quel periodo, a cavallo tra la fine del primo decennio del 2000 e i primi anni del successivo. L'era del "più grande, più grosso, più spettacolare". L'horror, per sopravvivere nell'arena dei blockbuster, è sembrato costretto a spogliarsi della sua essenza più intima, la paura, per indossare i panni fracassoni dell'azione.
E i grandi nomi, i capolavori su cui avevamo costruito le nostre notti insonni, cadevano uno dopo l'altro, vittime di questa insensata corsa al mainstream..
La caduta dei giganti
Il colpo più duro, per me, è stato assistere al lento e inesorabile spegnersi di Silent Hill. Dopo i primi quattro, indimenticabili capitoli, la nebbia che avvolgeva la cittadina maledetta si era fatta più rada, ma non per lasciar spazio al sole, bensì a una serie di interpretazioni che ne tradivano lo spirito.
La profondità psicologica, il terrore esistenziale, il design mostruoso che era metafora di traumi repressi... tutto svanito, sostituito da tentativi maldestri di replicarne la formula senza capirne il cuore. La cancellazione di Silent Hills di Hideo Kojima e Guillermo del Toro fu il chiodo definitivo sulla bara, un "what if" così doloroso da far sanguinare il cuore di ogni appassionato.
Poi c'è stato Dead Space. Il primo capitolo era stato un fulmine a ciel sereno, un capolavoro di tensione e gore fantascientifico che aveva ridefinito il survival horror nello spazio. Isaac Clarke, un ingegnere e non un soldato, armato solo di attrezzi da lavoro contro orrori indicibili: l'eroe imperfetto in cui era impossibile non immedesimarsi.
Dead Space 2 tutto sommato si rivelò comunque molto bello, più cinematografico ma ancora fedele alle sue radici. Ma con Dead Space 3, la deriva fu palese, purtroppo.
L'introduzione della cooperativa a tutti i costi, le microtransazioni, le orde di nemici che trasformavano l'USG Ishimura in un poligono di tiro... la tensione claustrofobica, la solitudine opprimente, tutto sacrificato sull'altare dell'azione più becera. Il franchise, e con esso lo studio Visceral Games, si spense poco dopo.
E infine, il re. Resident Evil. La serie che aveva praticamente inventato il genere sembrava aver perso la bussola. Dopo il capolavoro rivoluzionario di Resident Evil 4, che aveva sapientemente innestato elementi action in una struttura horror, la formula era stata spinta all'eccesso. Resident Evil 5 era diventato un action game in terza persona con elementi horror, divertente in co-op ma privo di vera tensione.
Resident Evil 6 fu il punto di non ritorno: un'accozzaglia di campagne interconnesse, esplosioni, inseguimenti e quick time event che di horror aveva solo il nome.
E non parliamo nemmeno di abomini come Operation Raccoon City, uno sparatutto a squadre che calpestava senza ritegno la sacralità di uno degli scenari più iconici della storia dei videogiochi. Sembrava che anche Capcom avesse dimenticato cosa significasse davvero "survival horror".
La speranza
La speranza si era rifugiata nell'inaspettata (ma sempre sorprendente) scena indipendente. Ma prima che il sottobosco indie diventasse la nostra unica via di salvezza, bisogna fare un passo indietro e dare comunque atto che, persino nel cuore dell'industria AAA, qualcuno ha provato a remare controcorrente.
Nel 2014, quasi in contemporanea, due titoli provarono a riaccendere la fiamma del vero survival horror. Il primo era The Evil Within, diretto nientemeno che da Shinji Mikami, il padre di Resident Evil. Fu un'opera sicuramente disturbante, un incubo che mescolava il body horror più estremo con la tensione psicologica. Dopotutto era il ritorno del maestro, nonché un gioco difficile e a tratti respingente, che però trasudava amore per il genere da ogni poro.
Il secondo fu Alien: Isolation. Creative Assembly, uno studio popolare per lo più per i suoi strategici, creò quella che, ancora oggi, considero una delle esperienze horror più terrificanti mai concepite.
Invece di scimmiottare l'action del film "Aliens", si tornò alla suspense claustrofobica del capolavoro di Ridley Scott. Decisero di creare un'esperienza in cui ci misero da soli braccati da un singolo, imprevedibile e letale Xenomorfo all'interno di una stazione spaziale. Un predatore da cui nascondersi, un'IA dinamica che imparava dai nostri comportamenti.
Sfortunatamente entrambi i giochi ebbero un destino agrodolce. The Evil Within fu apprezzato dall'utenza, ma le sue vendite, pur discrete, non furono forse quelle che Bethesda si aspettava, e il suo seguito, pur ottimo, non riuscì a sfondare nel mercato di massa.
Anche Alien: Isolation fu un "insuccesso" commerciale per SEGA, che giudicò le vendite al di sotto delle aspettative, spegnendo sul nascere le speranze per un sequel diretto. Furono due fiammate meravigliose e intense, ma isolate. Dimostrarono che la fame di horror però, esisteva ancora, ma il mercato nel suo complesso non era ancora pronto a scommetterci di nuovo.
Tenere a galla un genere
Mentre i colossi inseguivano il mercato di massa, piccoli studi con budget irrisori ma con una passione smisurata stavano provando a tenere accesa la fiamma.
Abbiamo avuto il piacere di vivere titoli come Amnesia: The Dark Descent che ci avevano ricordato cosa significasse essere veramente indifesi, togliendoci la possibilità di combattere e lasciandoci solo con la nostra paura e un barlume di sanità mentale da proteggere.
Outlast, con la sua telecamera e la sua fuga disperata, aveva amplificato questa sensazione. Erano esperienze pure, concentrate, che dimostravano come non servissero budget milionari per spaventare a morte.
La sua cancellazione è ancora oggi qualcosa che ci fa tutti molto male, ma bisogna dare atto che il suo impatto fu davvero importante, perché aveva dimostrato che c'era ancora fame per l'horror puro, e che il pubblico era pronto. Qualcuno doveva solo avere il coraggio di ascoltare.
Il coraggio di cambiare
Quel qualcuno fu Capcom. Con una mossa che all'epoca mi sembrò quasi suicida, nel 2017 decise di resettare tutto. Resident Evil 7: Biohazard abbandonò i suoi eroi iconici, la visuale in terza persona e le storie in giro per il mondo per rinchiuderci in una casa fatiscente della Louisiana, attraverso gli occhi terrorizzati di una persona qualunque, Ethan Winters.
Fu un ritorno alle origini in tutto e per tutto: l'esplorazione, la gestione delle risorse, l'atmosfera opprimente, la sensazione di essere braccati da una minaccia inarrestabile. La famiglia Baker divenne da subito iconica, e il gioco fu un successo di critica e pubblico. Insomma, Capcom aveva ritrovato la via.
Ma la vera e propria deflagrazione, il momento in cui la rinascita divenne un fenomeno conclamato, arrivò due anni dopo, nel 2019. Non poteva che avvenire con il remake di Resident Evil 2. Una rilettura completa, rispettosa ma coraggiosa, di un capolavoro, se non del capolavoro del genere.
Il team di sviluppo riuscì nell'impresa quasi impossibile di modernizzare il gameplay, passando a una visuale dietro le spalle stile Resident Evil 4 che riusciva però a mantenere una tensione altissima, e di ricreare l'atmosfera del Dipartimento di Polizia di Raccoon City in modo ancora più terrificante.
Resident Evil 2 Remake non solo dimostrò che c'era un mercato enorme per i survival horror classici, ma stabilì un nuovo standard qualitativo per i remake, spingendo l'intero mercato a guardare indietro per poter andare avanti.
Electronic Arts, vedendo il trionfo di Capcom, si rese conto dell'errore commesso con la propria serie di punta e diede il via libera al remake di Dead Space.
Uscito nel 2023, il gioco è stato un altro trionfo di critica, una lettera d'amore all'originale che ne ha smussato le spigolosità, ne ha approfondito la narrazione e ha reso l'orrore a bordo della Ishimura ancora più palpabile e terrificante. Peccato solo per le vendite poco soddisfacenti che non convinsero EA a osare con il remake del secondo episodio.
Persino la nebbia su Silent Hill ha iniziato a diradarsi. Konami, dopo anni di silenzio e di pachinko, ha finalmente capito di avere tra le mani un tesoro da riportare a galla.
Ha annunciato una serie di nuovi progetti tra cui Silent Hill f (uscito di recente e ben accolto dai media, compresi noi), e la scelta di affidare il remake del capitolo più amato, Silent Hill 2 (qui la nostra recensione), a Bloober Team, uno studio che con giochi come Layers of Fear e The Medium ha dimostrato di saper maneggiare il terrore psicologico.
Un segnale di intenti dapprima sottovalutato, ma che ha saputo dimostrare nvece un grande valore dal punto di vista qualitativo, tanto da spingere Konami ad affidare a Bloober Team anche il remake del primo capitolo.
Questa nuova età dell'oro, innescata dal coraggio di Capcom, non si è limitata a resuscitare vecchi capolavori, ovviamente. Ha creato un terreno fertile per la nascita di nuove IP, anche se non tutte di successo.
La voglia di ripartire
The Callisto Protocol, The Chant e Fort Solis sono stati infatti dei titoli deludenti, ma in mezzo abbiamo avuto anche l'ottimo Cronos: The New Dawn (qui trovate la nostra recensione) di Bloober e il meraviglioso Alan Wake 2 di Remedy, un survival horror che fonde la scrittura meta-narrativa con un'atmosfera opprimente e un gameplay teso e gratificante (di fatto, un gioco completamente nuovo considerando quanto si sia dimostrato differente rispetto al primo Alan Wake).
Due nomi, in particolare, sono decisamente molto attesi e stanno catalizzando le speranze e le attese di molti appassionati. Il primo è il nuovo progetto di Hideo Kojima, OD, sviluppato in collaborazione con Xbox Game Studios, è avvolto nel mistero più fitto, ma le prime immagini suggeriscono un'esperienza che mira a trascendere il concetto stesso di videogioco, fondendolo con il cinema in un modo completamente nuovo.
Dopotutto, siamo sinceri, dopo il trauma collettivo della cancellazione di Silent Hills, vedere Kojima tornare a cimentarsi con l'horror, forte della sua visione unica e del supporto di un colosso come Microsoft, è un segnale da non sottovalutare.
L'altro nome è più popolare, nonché la chiusura di un cerchio. Si tratta di Resident Evil 9, intitolato Requiem e in arrivo il prossimo 27 febbraio. Capcom, dopo aver magistralmente resuscitato la serie e aver stabilito nuovi standard per il genere, sembra intenzionata a portare a compimento l'arco narrativo iniziato in quella villa spettrale nel lontano 1996. Resident Evil: Requiem potrebbe essere il (speriamo) terrificante, addio che questa leggendaria saga merita.
Guardando indietro, a questi ultimi dieci anni, il percorso è stato quasi sorprendente. Siamo passati dalla desolazione più totale, dal timore che un intero genere stesse scomparendo inghiottito dalla logica del mercato, a una delle epoche più floride e creative di sempre per il genere e anche una riscoperta dei suoi elementi fondamentali: la vulnerabilità, l'atmosfera, la narrazione ambientale, la capacità di generare tensione.
Con maestri come Kojima pronti a sperimentare e pilastri come Capcom che si preparano a chiudere un'era, possiamo certamente scrivere oggi che il futuro dell'horror videoludico non è mai stato così luminoso (o oscuro, se vogliamo essere più precisi). E io, da vecchio cuore tremante, non potrei esserne più felice.