Quando ho avuto l’occasione di intervistare Nate Fox, co-director di Ghost of Yotei, ho capito subito che si trattava di qualcosa di speciale. Non solo perché Fox è uno dei nomi più importanti nel panorama dei videogiochi contemporanei, ma perché dietro ogni suo progetto si percepisce un’idea chiara di cosa significhi raccontare attraverso il videogioco.
È un autore che ha sempre cercato di dare un’anima ai propri mondi digitali, e che con Ghost of Tsushima aveva già dimostrato di saper fondere racconto, estetica e azione in un equilibrio raro.
Ora, con Ghost of Yotei, che ho personalmente recensito qui, sembra pronto a fare un passo ulteriore.
Questa intervista nasce proprio da lì: dal desiderio di capire cosa spinge un autore come Fox a tornare su un universo già amato da milioni di giocatori, e come si possa farlo senza ripetersi.
Parlando con Fox, si percepisce subito la sua convinzione che il videogioco non debba soltanto intrattenere, ma anche comunicare qualcosa di personale. Non si tratta di creare "solo" un’altra epopea di samurai, ma di raccontare un conflitto più intimo: quello tra eredità e identità, tra le aspettative del passato e la necessità di trovare una propria voce.
Durante la nostra chiacchierata, non ho avuto davanti un “director” nel senso classico del termine, ma un narratore che riflette sul proprio mestiere, consapevole delle aspettative e dei rischi di chi si misura con un nome così importante.
Insomma, questa prefazione vuole essere il punto di partenza di un confronto più ampio: un dialogo tra chi i giochi li crea e chi li vive, tra la visione autoriale e l’esperienza del giocatore.
Perché Ghost of Yotei non è soltanto un altro grande titolo d’azione a mondo aperto, ma una riflessione su ciò che resta quando il mito svanisce e rimane soltanto l’uomo. Buona lettura!

Ghost of Yotei è stato scelto perché siamo rimasti incredibilmente colpiti da quanto l'Hokkaido sia bello e vario. Nel 1603 a quel tempo si chiamava Ezō. E abbiamo deciso di ambientare il gioco in quella location poiché ai tempi, oltre a essere bellissimo, era al di fuori dello stato di diritto. Se andavi così a nord, nessuno ti avrebbe aiutato se ti fossi messo nei guai. Potevi sopravvivere solo con il tuo ingegno e una spada al fianco. E per un gioco open world, quella sembrava una combinazione davvero forte.


Fortunatamente, siamo membri di PlayStation, che è un'azienda giapponese, quindi abbiamo potuto parlare con i nostri colleghi a Tokyo. Ci siamo circondati anche di consulenti su ogni sorta di cose, dalle strutture religiose ai costumi. Per esempio, abbiamo portato una donna dal Giappone e l'abbiamo sottoposta a motion-capture mentre estraeva le sue spade e le riponeva. Volevamo portare quel senso di autenticità al gioco in modo che le persone in tutto il mondo potessero percepire i dettagli. Abbiamo voluto anche essere rispettosi nei confronti dei giocatori giapponesi, per i quali questa è la loro cultura.
Una cosa che ho trovato davvero stimolante, in particolare mentre lavoravo su Ghost of Tsushima, sono le opere di Sergio Leone, gli "spaghetti western". Gli italiani hanno realizzato film davvero fantastici che non provenivano dalla cultura in cui erano nati, ma erano fan del genere e hanno creato alcuni dei migliori western di sempre.
E così mi piace pensare a Ghost of Tsushima come a un “samurai cheeseburger”, proprio come gli spaghetti western: noi in America abbiamo realizzando una lettera d'amore alle storie di samurai perché le amiamo davvero tanto. Comprendiamo che veniamo da una cultura diversa, ma cerchiamo comunque di contribuire.


L'innovazione è parte di questo. Abbiamo lavorato duramente per non sopraffare i giocatori con icone sparse ovunque sulla mappa. Abbiamo voluto che, quando finivano un segmento di storia e si guardavano intorno, potessero individuare qualcosa che alimentasse la loro curiosità. Ad esempio, una roccia dalla forma strana: il giocatore pensa “cos’è quello?”, ci va, e scopre una storia che non sapeva esistesse.
È lì che abbiamo messo molta della nostra energia: in quel momento in cui i giocatori diventano completamente responsabili della propria esperienza e possono sentirsi vivi. Perché i giochi open world possono dare proprio questa sensazione.


Per esempio, invece di avere un diario con ogni missione scritta su una pagina, abbiamo schede con immagini che rievocano una storia e alcune informazioni che puoi vedere mentre guardi la mappa. Questo ti fa sentire più in controllo, non sopraffatto dall’avventura. Sei dentro al mondo, osservi il paesaggio e decidi cosa fare.


Abbiamo sfruttato un genere familiare a tutti, perché tutti abbiamo visto film western. La musica è il mezzo artistico più potente che ci sia, ed è stato fondamentale usarla in questo modo.




Per far sì che tutti comprendano cosa fanno gli altri team, ogni sei settimane organizziamo dei playtest interni in cui le persone giocano per ore, vedendo cose che non appartengono al loro dipartimento e ottenendo idee su come le loro competenze possano aiutare altri reparti.
Giocare tutti insieme costantemente per anni ha significato costruire un progetto coeso, in cui tutti sono informati e tutti lavorano verso un unico obiettivo creativo.


Oltre a questo, non vedo l'ora di rivederti in Italia e parlarne di nuovo!
