God of War e il dio in esilio - Ep 1 | L'umanità di Kratos c'è sempre stata

Primo episodio di una serie di video approfondimenti dedicati alle tematiche di God of War: oggi, scopriamo l'arte dell'inversione nella saga di Sony Santa Monica

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a cura di Adriano Di Medio

Redattore

Sono ormai passati più di due anni da quando Santa Monica ha spiazzato tutti con God of War, il sequel mascherato da reboot dove Kratos deve fare i conti con il passato e con la paternità. Un videogioco eccellente e come tale considerato tanto dalla critica quanto dal pubblico, entrambi rimasti stupiti da come Cory Barlog e i suoi ragazzi siano riusciti a reinventare un personaggio unilaterale come Kratos. Pure se l’entusiasmo non si discute, ciò che è stato offuscato è che in realtà Barlog e i suoi potrebbero aver reinventato meno di quanto percepito. Con l'annuncio di PlayStation 5 e del prossimo capitolo in arrivo nel 2021, approfondiamo questi concetti.

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God of War e l’equivoco del 2010

Partiamo da un punto focale: prima del 2018 la maggior parte della critica e del pubblico aveva etichettato Kratos come un personaggio monocorde, una rappresentazione umano-divina della rabbia. Qualcosa di giusto, ma allo stesso tempo anche ingannevole. Non è scarsa lungimiranza o tendenza a semplificare da parte loro, quanto piuttosto il fatto che la saga sia stata vittima di se stessa.

La visione di Kratos come personaggio monocromatico viene infatti da God of War III dove egli, guidato semplicemente dalla propria ira e sete di vendetta, arrivava a distruggere gli dèi dell’Olimpo e il mondo da loro amministrato. Anche qui è tutto vero, ma allo stesso tempo è anche un grosso equivoco: ci si dimentica che God of War III è il punto finale di un percorso ben preciso, iniziato col primo capitolo del 2005.

I quattro videogiochi (sei, contando anche quelli su PSP) della prima era del brand erano infatti impostati come una sottesa tragedia, un viaggio senza ritorno nella parte peggiore dell’umano. Dal primo capitolo fino alla fine Kratos veniva lentamente spogliato di tutta la sua umanità, succhiatagli via tanto dagli dèi quanto dal contesto ormai collassato.

Il suo è stato un sacrificio anche drammaturgico, che aveva il compito di trasformarlo in quell’esecutore abbastanza spietato da distruggere l’autorità divina. In questo senso possiamo dire che God of War ha recuperato la definizione più antica, enciclopedica della tragedia: un dramma di coscienza che, dopo un crescendo di pathos, avrebbe trovato finale e risoluzione solo in un evento catastrofico. Di qui il fatto che, passata la rabbia bruciante della prima run, anche il meno attento dei giocatori doveva ammettere che col Kratos di God of War III era assai difficile anche solo empatizzare.

Il punto di rottura

Allo stesso tempo però, God of War III andava oltre questo scenario: la distruzione dell’Olimpo c’era, ma verso il finale si ricolorava di una componente umana e familiare. I due personaggi con cui ciò si esplicitava erano prima Atena (o meglio, il suo spettro) e poi Pandora. Un’inversione sottesa ma esplicitata nel finale, quando Zeus liquidava con sufficienza la ricerca di Pandora da parte di Kratos come un patetico tentativo di rimediare alla distruzione della sua famiglia.

Malgrado sia emerso maggiormente solo nel 2018, il tema della famiglia e dell’umanità residua di Kratos era presente fin dall’inizio, solo che appunto era nascosto dietro gli strati rocciosi dell’impresa e della cattiveria con cui il Fantasma di Sparta si accaniva su mostri e non-morti. Prima del 2018 un tentativo di inversione se vogliamo era già stato fatto con l’ormai misconosciuto God of War Ascension, ma non era riuscito perché appunto inserito dentro a una saga concettualmente sviluppata all’esatto opposto.

La famiglia è da sempre presente nella parabola di Kratos, e anzi la morte della sua prima moglie Lysandra e di sua figlia Calliope (tutto un crudele inganno da parte di Ares) è il motore scatenante di tutto. Kratos si odia profondamente per questo suo gesto, e non manca di farlo costantemente notare, tanto che, quando in God of War II viene a sapere della fine di Sparta, ha una visione in cui si scusa con sua moglie per tutto il male che ha portato prima a lei e poi alla città.

La scena tra l’altro aggiunge di nuovo una sottesa (e crudele) componente manipolatoria alla storia, in quanto sotto le spoglie della moglie c'è la titanessa Gaia, che di fatto si approfitta del trauma del Fantasma di Sparta per spingerlo avanti nel suo progetto di vendetta contro Zeus.

In effetti, al di fuori del gameplay, fin dall’inizio Kratos è stato dipinto sì come un uomo profondamente devastato (e in tal senso tutto il primo gioco è una metafora di quanto la guerra possa distruggere l’essere umano) ma anche come un padre amorevole. I capitoli per PSP mostrano i suoi traumi emotivi alla ricerca della famiglia che sappiamo gli verrà brutalmente strappata (il finale di Chains of Olympus è probabilmente il punto più straziante mai toccato dalla saga, oggi come ieri), ma tale concetto si affaccia anche nelle opere derivate.

L’ormai poco conosciuta miniserie a fumetti in tre volumi di Wolfman e Sorrentino (uscita in Italia nell’autunno 2010, di recente invece è arrivato il romanzo scritto da J. M. Barlog) raccontava non solo di come Kratos avesse conosciuto la sua prima moglie Lysandra, ma anche della sua ricerca dell’ambrosia per guarire la figlia Calliope, nata affetta da un male (la peste) incurabile dalle arti degli uomini.

Il paradosso di Marianne

In effetti, il punto di rottura della saga è proprio God of War II: la componente dell’umano, seppur presente, finiva sacrificata verso la dimensione epica che si andava creando. Kratos, un po’ anche per necessità, si è quindi trasformato in quella che oggi chiameremmo la fantasia di potere maschile suprema, perlomeno in campo videoludico. Un realizzatore virtuale di uno di quei desideri se vogliamo più “oscuri” dell’umano, ovvero l’idea di poter distruggere ciò che non può essere distrutto, dell’umano che prevale sul divino.

Interessante poi il fatto che, nel bene e nel male, l’epica di Santa Monica gli affianchi sempre delle figure femminili di rilievo, e che soprattutto utilizzano la parola per aiutare Kratos e indirizzarlo verso i suoi obiettivi. Sua moglie Lysandra era l’unica che avesse la forza morale di contestare il suo operato, mentre Atena funge da sua mentore lungo tutta la saga.

Il tutto però non può che sottolineare il fatto che, con tutto il rispetto per Freya, anche prima di lei il Fantasma di Sparta si è sempre ritrovato ad avere a che fare con figure femminili di carattere. Che tuttavia lo aiutavano o si opponevano a lui semplicemente con la mente. Persino Afrodite, pur perseguendo unicamente il proprio piacere personale, assume atteggiamenti che paiono sottesamente predatori. Dove l’impiego dell'oratoria da parte di tutti questi personaggi era una contrapposizione semantica alla fisicità di Kratos, ciò è anche da imputare a un fatto curioso: quasi tutti i videogiochi della saga condividono la sceneggiatrice Marianne Krawczyk.

Tutto sommato è un allegro paradosso: quella che viene considerata quasi unanimemente la male power fantasy videoludica suprema è sì nata da David Jaffe, ma è stata per somma parte scritta da una donna. Del resto, si è sempre creduto che fosse la vendetta l’elemento cardine dell’era greca della saga, quando in realtà, come diceva Pandora, “è la speranza che ci dà forza, che ci fa lottare. È la sola cosa che ci resta quando tutto è perduto”. Una speranza che, visto il protagonista, potremmo benissimo interpretare come testardaggine o mancata rassegnazione. Ma d’altro canto proprio la caparbietà della razza umana è una di quelle cose che non andrebbero mai sottovalutate.

Il God of War dell’inversione

Quello che hanno fatto i Santa Monica con God of War del 2018 non è stato quindi reimmaginare o riscrivere Kratos come un personaggio improvvisamente “sensibile”, bensì di mettere prima la sua componente emotiva e solo dopo quella bellica. C’è comunque da dire che, a parte l’essere nei fatti l’unica soluzione possibile per sviluppare il brand, è stato qualcosa di candidamente ammesso fin dall’inizio dagli stessi sviluppatori – tanto che una delle frasi più celebri per descriverla è stata “finora avete visto Hulk, adesso è il momento di vedere Bruce Banner”.

Un’inversione di cui però va riconosciuta l’efficacia, in quanto ha reso palese quanto già c’era da più di dieci anni. Un’altra definizione che è stata data di Kratos, specialmente in seguito alla presentazione di lui in compagnia di suo figlio, era la sua mutata considerazione di se stesso. Stando a quelle parole, quello che crede Kratos dopo molti anni  di convivenza con la sua indole è che “essere un dio” sia una malattia e che la rabbia sia una derivazione di tale condizione. Lui l’ha già superata a caro prezzo, ma comunque è terrorizzato dall’idea di aver trasmesso la stessa cosa ad Atreus.

Chi ha giocato a God of War su PS4 avrà già capito che il tiro di queste dichiarazioni era chiaramente sibillino (nel gioco nessuno parla dello stato divino come malattia, ma solo della rabbia; la malattia scaturisce quando non si è consapevoli della propria natura o si crede di averne una differente) ma che appunto serviva a introdurre il tema della consapevolezza e dell’auto-realizzazione del proprio essere, cosa importante considerando appunto che Atreus è preadolescente. C’è però qualcosa di più importante che il God of War del 2018 potrebbe aver introdotto, di nuovo in maniera ancora sotterranea: il punto di vista.

Senza indugiare in spoiler, è palese come molti dei retroscena del viaggio di Kratos e Atreus si basino sul fatto che spesso vediamo solo un lato della medaglia. Lo Sconosciuto che pareva solo un povero pazzo potrebbe avere una motivazione precisa, una strega dal ruolo positivo potrebbe essersi lasciata accecare dalla paura, un abitante di Asgard apostrofato come “il grande idiota” potrebbe non essere così stupido.

Ancora una volta, God of War non presenta né eroi né malvagi, ma solo personaggi più “neutri”, con pregi e difetti e che diventano umani proprio per la loro possibilità di compiere errori. E che forse, l’antagonista più grande della saga non è un personaggio, ma il sentimento della paura e la sua capacità di offuscare la percezione e il giudizio di ciascuno.

In conclusione

Alla fine, la bravura dei Santa Monica non è stato il reinventare. O perlomeno, lo è stato di meno rispetto a quello che ci hanno fatto percepire. Quello che hanno fatto con l’ultimo God of War è stato un lavoro di inversione: hanno messo per prima la componente umana e tormentata di Kratos e solo dopo quella ferale e crudele. Il motivo per cui God of War, tanto nel 2005 quanto nel 2018, lascia ogni volta di stucco il popolo videoludico è in questa semplice ma necessaria alternanza, una rappresentazione di umanità che non fa che aggiungere a Kratos l’ennesima conferma di quanto sia un personaggio universale.

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