Chiudete gli occhi e tornate per un istante al 2001. Ricordate? Il mondo dei videogiochi era un crogiolo di idee, un mercato che stava ancora definendo i confini della propria maturità.
In questi anni, c'è stato un titolo che ricordo con grande affetto e che si affacciò con la promessa non solo di essere un gioco, ma un'esperienza completamente diversa dal solito.
Quel gioco era Black & White, e la mente visionaria (e notoriamente iperbolica) dietro di esso era Peter Molyneux con i suoi neonati Lionhead Studios.
Oggi, a oltre due decenni di distanza, in un'era di mondi aperti fotorealistici e narrazioni complesse, potremmo essere perdonati per aver dimenticato un titolo così tecnicamente datato. Eppure, sostenere che Black & White sia semplicemente "invecchiato" significherebbe commettere una profonda ingiustizia.
La nascita della Mano senza menu
Molyneux in quegli anni era già una leggenda, il padre del "god game" grazie a capolavori come Populous. Con Black & White, l'intento non era semplicemente quello di evolvere il genere, ma di frantumarne le sue convenzioni.
Come riuscirci? Questa era la domanda. L'idea centrale era eliminare ogni barriera tra il giocatore e il mondo di gioco. Niente più menu complessi, niente più schiere di icone a cui impartire ordini. Il giocatore era la divinità, e la sua interfaccia doveva essere la più naturale possibile: una mano.
La "Mano Divina" è stata un colpo di genio, ispirata dalla "Mano del Male" di Doungeon Keeper. Seppur possa sembrare una banalità, controllare una mano grazie al mouse, offrendoci la possibilità di accarezzare il terreno, sradicare alberi, lanciare massi, raccogliere minuscoli abitanti e compiere miracoli attraverso gesti tracciati sullo schermo fu davvero incredibilmente in quegli anni.
Questa interazione fisica e diretta riusciva in qualche modo a creare un legame tattile con il mondo di gioco che poche altre esperienze erano riuscite a replicare.
Anche perché noi non cliccavamo su un'unità per costruire una casa come in un RTS o un gestionale; stavamo fisicamente prendendo un albero, portandolo in un cantiere e osservando i nostri fedeli mettersi al lavoro. Questa immediatezza, nonché questa sensazione di presenza e di potere tangibile, è stata la prima colonna portante della sua genialità.
La rivoluzionaria idea della Creatura
Tuttavia, la vera anima del gioco, il cuore pulsante che ha portato al "successo" tra i tantissimi appassionati, non era soltanto la mano. Era la Creatura.
Poco dopo l'inizio della partita, ci veniva veniva donata una creatura gigante (potevamo scegliere tra una scimmia, una tigre, una mucca). Questa non era un semplice animale da compagnia o un'unità da sfruttare in combattimento.
Era un'intelligenza artificiale complessa, una tabula rasa pronta a essere plasmata con i nostri insegnamenti, un po' come Trico in The Last Guardian.
Questo sistema di apprendimento era gestito attraverso dei "punteggi" che garantivano, a seconda delle situazioni, Bontà e Cattiveria.
Insegnare un miracolo alla Creatura non significava sbloccarlo in un albero delle abilità. Significava compiere quel miracolo davanti a lei più e più volte, finché il suo cervello artificiale non lo interiorizzava. Pensateci: ad oggi, quanti giochi offrono queste possibilità?
La prima volta che, in una situazione di bisogno e senza il mio intervento diretto, la mia Creatura ha eseguita autonomamente un Miracolo di Guarigione su un gruppo di villici malati, ricordo di essere rimasto spiazzato.
Anche perché non era uno script; era il frutto di tutto ciò che le avevo insegnato, un momento di orgoglio paterno digitale che ha creato una specie di legame emotivo. In sostanza, la Creatura cresceva sì, ma non solo in dimensioni e potere, ma anche in personalità, diventando un riflesso diretto, e talvolta inquietante, della divinità che eravamo.
Bianco e Nero
Questo ci porta al secondo pilastro del gioco: la sua interpretazione della moralità. Il titolo, Black & White, non era casuale. L'intero gioco era, a conti fatti, un'esplorazione della dualità tra bene e male, ma la implementava in un modo molto più organico rispetto ai sistemi binari a cui siamo abituati oggi.
Essere "buoni" o "cattivi" non era una scelta in un menu di dialogo come capita ancora oggi in molti giochi. Era la somma delle nostre azioni quotidiane.
Un dio buono vedeva il suo tempio diventare bianco e luminoso, circondato da arcobaleni, con una musica celestiale in sottofondo. Un dio malvagio vedeva il suo tempio trasformarsi in una fortezza oscura, con punte, spuntoni e un'aura di terrore. Anche il mondo stesso reagiva. I villaggi prosperavano sotto la nostra benevolenza o si rannicchiavano nella paura sotto la nostra tirannia.
E attenzione, perché questa scelta morale non era puramente estetica. Influenzava il gameplay in modi sottili ma comunque importanti. Se eravamo buoni guadagnavamo la fede attraverso l'ammirazione e la gratitudine, un processo lento ma comunque stabile.
Se invece decidevamo di essere malvagi, potevamo ottenere enormi quantità di potere istantaneo attraverso il sacrificio umano e la paura, ma era un potere volatile, che richiedeva atti di crudeltà sempre maggiori per essere mantenuto.
Black & White fu uno dei primi giochi a riuscire a porci una domanda filosofica già in quegli anni: è meglio essere amati o temuti?
Certo, sarebbe disonesto non ammettere le imperfezioni del gioco. L'intelligenza artificiale della Creatura, per quanto rivoluzionaria, a volte era frustrante e imprevedibile.
La campagna per giocatore singolo diventava spesso ripetitiva, basandosi spesso su missioni simili tra le varie isole e il combattimento tra Creature era goffo e spesso si riduceva a una caotica zuffa di poligoni.
Anche alcuni gesti per i miracoli erano difficili da eseguire, portando a lanciare palle di fuoco invece di creare scudi d'acqua.
Però erano anche i segni inevitabili di un progetto che aveva come base un'idea ambiziosa e originale. Lionhead non stava cercando di creare un prodotto rifinito e sicuro; stava cercando di creare qualcosa di diverso, di esplorare la natura dell'apprendimento e della moralità in un modo che nessun altro aveva mai tentato.
Ora la domanda è: perché nessuno ci ha più provato? Perché, in un settore che spende centinaia di milioni di dollari per creare mondi sempre più vasti e dettagliati, l'idea di un compagno IA così complesso e malleabile è stata in gran parte abbandonata?
La risposta è probabilmente un mix di fattori: per prima cosa l'enorme complessità tecnica e la deriva del mercato verso esperienze più guidate, narrative o competitive. Creare un'IA come quella della Creatura è un incubo di programmazione, testing e bilanciamento.
Dopotutto, è molto più semplice ed economico creare un cavallo che segue un percorso predefinito o un compagno che recita battute a comando.
Cosa rimane di questo god game?
Black & White rimane quindi una prova tangibile di come un tempo c'era tanta voglia di sperimentare. Non era un gioco perfetto, ma era un god game con una propria anima.
Giocare a Black & White oggi sarebbe più difficile (sì, anche il secondo episodio). Ma chiunque abbia la volontà di guardare oltre la superficie scoprirà qualcosa di unico, ancora oggi insuperato.
Scoprirà un sistema di interazione che sembra ancora fresco, un'esplorazione della moralità che surclassa molti titoli moderni e, soprattutto, riscoprirà il legame indissolubile con una creatura digitale che impara a essere buona, o cattiva, semplicemente guardandoci.
Un peccato che questo mercato abbia perso questa ambizione nel realizzare esperienze così uniche. Ma io sono un sognatore che spera che prima o poi qualcuno osi ancora come Peter Molyneux osò con Black & White..