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Le microtransazioni: un'analisi sulla controversa e diffusa pratica

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Avatar di Francesco Corica

a cura di Francesco Corica

Staff Writer

Pubblicato il 10/11/2017 alle 00:00

Un argomento piuttosto caldo sui siti e forum videoludici di tutto il mondo riguarda l’utilizzo delle microtransazioni da parte dei publisher all’interno dei titoli più attesi; un dibattito riaccesosi improvvisamente dopo la rivelazione del loro inserimento all’interno di titoli come L’Ombra della Guerra. Ma sono davvero il “male supremo” che sembra trasparire dal web? Secondo molti opinionisti ed influencers, che probabilmente cavalcano la moda del momento, sì; noi invece, a costo di sembrare impopolari e di prenderci insulti, vi diciamo l’esatto opposto. E vi spieghiamo anche il perchè, chiedendovi di abbandonare momentaneamente la vostra rabbia e di cercare di seguire il nostro ragionamento.
Cosa sono?
Iniziamo ponendoci una domanda: cosa si intende quando si parla di “microtransazioni”? Si tratta di contenuti aggiuntivi che si possono comprare all’interno di un gioco, sia che esso sia un Free to Play oppure un gioco Tripla A da 60 euro già completo, e servono solitamente per ottenere un vantaggio rispetto a chi gioca normalmente. In alcuni casi potrebbero essere paragonati ai cheat codes di una volta, ma non sono le uniche forme di microtransactions: a fare polemica di questi tempi sono infatti le cosiddette “Lootboxes”: forzieri da aprire senza la garanzia di poter trovare esattamente ciò che l’utente stia cercando, ma nei quali comunque si troverà sempre qualcosa. Le lootboxes vengono spesso paragonate al gioco d’azzardo, un paragone che sia l’ESRB che il PEGI (i sistemi di classificazione dei videogiochi americani ed europei) hanno già provato a smentire, affermando che loro non lo considerano gioco d’azzardo, dato che nonostante l’elemento “casuale” si ottiene sempre e comunque qualcosa acquistandole, anche se, in casi estremi, non è l’oggetto sperato. Il paragone che decidono di utilizzare, per spiegare la loro logica, è quello con i giochi di carte collezionabili: a volte si otterrà la carta olografica super rara, molte altre volte ci si ritroverà con un’ammucchiata di carte comuni ed inutili. In entrambi i casi inoltre non sono né messi in palio soldi veri, né ci sarà mai una possibilità di ritrovarsi senza avere letteralmente nulla: cosa ben diversa dal gioco d’azzardo dove, come ben sappiamo, dopo aver speso soldi ci si ritrova senza neanche un pugno di mosche in mano. C’è chi ha avuto da ridire anche su questa definizione, paragonando i cosiddetti oggetti “inutili” in maniera identica ad ottenere 0 monete dopo una giocata in una qualunque slot machine. La riteniamo sicuramente esagerata perchè molti videogiochi offrono un sistema di compensazione per assicurarsi che l’utente finale non resti mai a bocca asciutta: oggetti duplicati potrebbero automaticamente essere convertiti in crediti utilizzati in-game a seconda della loro rarità, oppure essere “rivenduti” manualmente dall’utente stesso; per ritrovarsi effettivamente senza aver nulla non dovrebbe nemmeno esistere questo sistema.
Le Lootboxes vengono accusate dall’utenza di essere mezzi utilizzati per indebolire l’esperienza di gioco normale, obbligando l’utente a compiere un “grinding” eccessivo a meno che non accetti di sborsare ulteriori soldi all’interno di un gioco già acquistato. A tal proposito riteniamo inevitabile non parlare del già citato Shadow of War, al centro di un vero e proprio massacro da parte di influencers e di opinionisti del web da quando venne rivelato il loro inserimento all’interno del titolo, che ha scaturito diverse discussioni perfino tra i nostri commentatori. La preoccupazione da parte degli utenti era che, dato che nel primo titolo esse non fossero presenti, l’esperienza dell’ultimo capitolo sarebbe stata condizionata dal loro inserimento; significa che, in poche parole, il gioco sarebbe uscito fuori meno divertente a causa di un gameplay condizionato per spingere l’utente a spendere soldi per avere la vita facilitata. Ed alla fine, come abbiamo già avuto modo di spiegare nella nostra recensione, non è così: L’Ombra della Guerra è ampiamente godibile senza bisogno di spendere nemmeno un singolo centesimo. La preoccupazione nelle fasi di sviluppo iniziali poteva insomma essere lecita, ma una volta avuta la conferma che gli utenti possono dormire sogni tranquilli, la questione avrebbe dovuto essersi risolta. Ed invece è andata, e continua, ad andare avanti, con diverse persone che continuano a considerarlo non all’altezza a causa del loro inserimento, senza nemmeno avere avuto modo di provarlo di persona. Nessuno ha intenzione di puntare agli utenti una pistola dicendo che devono usufruire per forza delle microtransazioni, ed allo stesso tempo è giustissimo “votare col portafogli” (scegliere quali titoli decidere di comprare coi propri soldi, tenendo in considerazione tutto ciò che offre il prodotto da noi scelto), così com’è giustissimo che gli utenti dicano la propria opinione su pratiche che ritengono discutibili. Ma quando le discussioni continuano ad andare avanti a distanza di settimane, in maniera sicuramente esagerata, viene da domandarsi se non sia il caso di fare un passo indietro. E chi vi scrive questo articolo non ha mai acquistato una lootbox in vita sua, né è intenzionato a farlo.
Chiaramente il discorso cambia quando andiamo a parlare di prodotti free to play, le microtransazioni sono indispensabili e necessarie per poter ricavare soldi, rivelandosi spesso, nel mercato mobile, una strategia più efficace di chi rilascia prodotti a pagamento. Ecco perché non deve stupire la particolare attenzione ed esperimenti dei publisher anche nei prodotti Tripla A, che dopo il periodo di lancio difficilmente riescono a generare un profitto considerevole: si spiega così l’importanza dei Season Pass, contenuti bonus per chi prenota il gioco (acquistandolo dunque a prezzo pieno), le diverse edizioni dello stesso titolo (le “Gold” disponibili al lancio, le “Game of the Year” o “Complete” con tutti i dlc inclusi a distanza di tempo e così via) e, più recentemente, delle lootboxes. Occorre sopratutto ricordare che l’obiettivo di un publisher è di ricavare quanti più soldi possibili: dopo aver finanziato il prodotto vogliono poter ricavare la maggiore quantità di soldi possibile. Ecco dunque inevitabile porsi un’altra domanda: perché la maggior parte delle volte i prodotti indipendenti ed a basso costo non utilizzano anch’essi pratiche simili? La risposta è abbastanza semplice: uno sviluppatore indipendente, che non deve dipendere dai loro finanziamenti, può permettersi di non utilizzare questi mezzi e lavorare con la sola passione, anche perché il suo obiettivo è convincere gli utenti a puntare sul suo titolo piuttosto che sul prodotto tripla A di turno. Per capire l’effetto mediatico che le lootboxes hanno sul web, basti pensare all’esempio di Dauntless, un titolo che ha di recente fatto notizia per la decisione di rimuoverle perchè non apprezzate dall’utenza, passando invece ad un sistema di microtransazioni che permette di acquistare immediatamente ciò che si desidera.
Le nostre conclusioni
Rispondendo quindi alla domanda iniziale, che ricordiamo essere “le microtransazioni sono davvero il male supremo?”, diciamo di no: le microtransazioni, nella loro essenza, non sono il male e possono essere un modo intelligente di poter ricavare più soldi da quei giocatori che vogliono avere la vita semplificata, lasciando comunque ai giocatori standard tutto il bello del gioco base senza il taglio di alcuni contenuti; ovviamente questo non significa che non vi siano microtransazioni discutibili né cercheremmo mai di far passare il messaggio che bisogna usufruirne in qualunque gioco deciderete di comprare. Quello che cerchiamo di dire è che dovranno essere gli utenti a considerare caso per caso, discuterne di persona e sulla rete se lo riterranno necessario, ma di non condannare per “partito preso” qualunque forma di microtransazione: i costi di produzione dei videogiochi sono aumentati notevolmente, così come anche la concorrenza (basti pensare a questo anno videoludico, ricco di produzioni di altissimo livello) e spesso le microtransazioni aiutano i publisher a trarre un buon profitto dal proprio titolo, anche in casi di vendite non ottimistiche nei giorni di lancio; questo lascia anche gli sviluppatori liberi di lavorare sul proprio titolo nel migliore dei modi, permettendo quindi a noi giocatori di usufruire del prodotto senza problemi. Naturalmente, qualora ciò venisse meno all’interno di un titolo e le microtransazioni dovessero effettivamente risultare invasive, saremo noi stessi redattori a segnalare queste problematiche in sede di recensione, così come gli altri utenti che avranno effettivamente provato quei videogiochi.

Inutile girarci intorno: le microtransazioni sono qui per restare. Sono un’esigenza del nuovo mercato, ormai ben diverso da quello di nicchia di qualche generazione fa; in fondo, se fatte con la dovuta cura ed attenzione, non sono affatto un male e potrebbero spingere i fan ad ottenere di più dal proprio prodotto preferito. In ogni caso, se la pratica adoperata in un determinato titolo non dovesse soddisfarci (o se, nonostante tutto, continuate a rimanere contrari a qualunque loro utilizzo) c’è una risposta semplicissima: basta tenere il portafogli chiuso. Il potere è dei consumatori, che possono aiutare l’industria a muoversi nella direzione migliore perchè tutti ne possano guadagnare, sia utenti che publisher e sviluppatori.

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