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Recensione

Super Win the Game

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Avatar di Aeffe87

a cura di Aeffe87

Pubblicato il 22/10/2014 alle 00:00
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Il Verdetto di SpazioGames

7.5

Pochi mesi fa, tra i commenti alla review di un piccolo gioco retro-style che trattai personalmente, notai l’intervento di un utente che, pur breve, portò alla luce un paio di spunti di discussione affatto banali. In buona sostanza, la sua riflessione verteva su come, in seguito all’esplosione dello sviluppo indipendente, i titoli realizzati in pixel art fossero prepotentemente tornati alla ribalta dell’intrattenimento digitale, in una sorta di ritorno agli albori che suona sempre più spesso come una moda volta a facili consensi piuttosto che una reale esigenza creativa. L’utente si chiedeva se operazioni di questo genere fossero effettivamente interessanti per il pubblico o se, invece, non fosse più utile – soprattutto per le nuove leve di videogiocatori – recuperare i grandi classici del gaming a 8 e 16 bit, ormai alla portata di molti grazie al digital delivery. Ciò che gli – e mi – risposi fu che sì, avere conoscenza – e coscienza – di ciò che il videogioco è stato in passato è di certo importante non solo per cultura personale, ma anche per comprendere l’evoluzione di un medium che, in quasi mezzo secolo, ha mutato il proprio linguaggio in maniera incredibile. E al contempo, sì, prodotti che omaggiano i tempi che furono possono avere una propria ragion d’essere, a patto che, ovviamente, posseggano una personalità sufficientemente spiccata e, soprattutto, la componente cosmetica non venga usata come pretesto per celare eventuali carenze qualitative. L’anima della discussione derivava, nello specifico, da You Have to Win the Game, diamante freeware allo stato grezzo che il sottoscritto apprezzò per la sua naturale immediatezza, la quale, votata a un tasso di sfida ben sopra gli standard attuali, era in grado di restituire al fruitore un’esperienza di autentico artigianato videoludico – mi scuso col buon Pregianza per l’ignobile furto concettuale. Nel realizzare Super Win the Game, seguito spirituale di un’opera così peculiare, Minor Key Games – nella figura del developer J. Kyle Pittman – si è presa i suoi bei rischi, poiché la tentazione di farne un copia-incolla spudorato senza identità poteva suonare come parecchio allettante. Inutile girarci intorno, il voto lo avete visto. Scampato pericolo.

Saving the hollow king(dom)Sebbene all’interno della sezione Q&A del proprio sito Pittman parli di Super Win the Game in termini di sequel della sua precedente fatica, è evidente fin dalle prime sessioni di gioco che non lo sia, per lo meno in modo diretto. Come vedremo, i due titoli hanno di sicuro diversi elementi di continuità ma risultano essere tra loro alquanto disgiunti, poiché, anzitutto, l’opera seconda del developer texano ha un apparato diegetico da subito dichiarato, laddove, al contrario, You Have to Win the Game faceva della mancanza di trama il suo tratto distintivo. Nei panni del solito ragazzino con cappello a visiera – qui genericamente nominato “wayfarer”, viandate – l’utente si trova catapultato in un regno maledetto, il cui sovrano è ormai sottomesso da tempo al volere di un mago malvagio. Questi, dopo averne spezzato il cuore in sei frammenti e averli gettati negli anfratti più occulti del circondario, ha trasformato il re in uno scheletro senz’anima, rinchiudendolo infine nelle segrete del suo stesso castello. Le premesse narrative sono quindi piuttosto elementari, eppure basta circa un’ora nell’in-game per capire come la storia che fa da sfondo a questa produzione sia ben più articolata di quanto possa sembrare a un primo giudizio affrettato. Dialogare con i NPC sparsi nel mondo messo in scena svela pian piano dettagli su passato e presente della terra senza nome, e quel che sembrava solo un pretesto per giocare si tramuta ben presto in un racconto più sfaccettato, che, tra l’altro, non ha paura di toccare, seppur in forma germinale, tematiche quali conflitto interiore e paura dell’ignoto. Tuttavia, Pittman non ha rinunciato del tutto all’anti-narrazione: Super Win the Game ospita infatti una serie di sequenze oniriche in bianco e nero, accessibili scovando specifici tomi antichi sparsi all’interno dei vari dungeon. In queste occasioni, il giocatore è chiamato a confrontarsi con brevi percorsi caratterizzati da un design strambo e minimale, totalmente decontestualizzato rispetto a tutti gli altri scenari visitati nel corso dell’avventura. Questi sporadici segmenti di gameplay vivono di un’autoreferenzialità manifesta, per mezzo della quale lo sviluppatore ha tentato – per sua stessa ammissione – di rappresentare quel processo creativo che porta un game designer, dall’embrione di un’idea, a realizzare un videogame nella sua interezza. Simpatico easter egg o pretenzioso esercizio stilistico che sia, si tratta senza dubbio di un’aggiunta peculiare e, a suo modo, non priva di sensatezza.

Nord, sud, ovest, est. E forse quel che cerco neanche c’è.In egual misura, è facile riscontrare alcune differenze rispetto al precedente You Have to anche sul versante delle meccaniche di gioco. Il genere di riferimento, ovviamente, non cambia: parliamo di un platformer old school in piena regola, nel quale il giocatore è impossibilitato a uccidere gli avversari ed è quindi spinto a scansarli in salto, pena il respawn dal più vicino check point conquistato. L’incedere dell’avventura porta con sé, come da tradizione pittmaniana, una quantità elevata di tesori da raccogliere e, soprattutto, una serie di preziosi power up aggiuntivi, i quali permettono di accedere ad aree precedentemente precluse, e da recuperare previo superamento di boss fight al fulmicotone, basate unicamente sulla prontezza di riflessi. Dunque, il titolo è ancora fortemente orientato all’esplorazione degli scenari; ciò nonostante, l’utente non è più viaggiatore tra i quadri statici di un non-luogo astratto, abbandonato in balia delle sue sole capacità mnemoniche e d’orientamento, ma ha ora la possibilità di percorrere una mappa geograficamente definita, che connette città di transizione e dungeon in maniera piuttosto chiara e lineare. Si tratta certamente di una mossa comprensibile da un punto di vista meramente commerciale, mirata a facilitare il via vai lungo i quattro punti cardinali e in grado di evitare un possibile senso di frustrazione nel lungo periodo. Non si pensi però che quel senso di mistero e ambiguità che permeava la scorsa produzione sia andato del tutto perduto. Si diceva che i sei frammenti di cuore del “Re Cavo” sono indispensabili per ristabilire l’ordine del regno, ma, come prevedibile, recuperarli sarà tutt’altro che una passeggiata. Il gioco è infatti un ricettacolo di warp zone, stanze segrete, false barriere e ostacoli simulati, che possono esser scovati per lo più grazie a una corretta interpretazione degli enigmatici indizi forniti da alcuni tra i personaggi non giocanti. Si aggiunga poi che, è bene ricordarlo, una delle peculiarità della serie Win The Game risiede nel tasso di sfida ben sopra la media dei prodotti videoludici contemporanei. Va detto che le prove proposte sono meno brutali rispetto al passato, probabilmente sempre in un’ottica di maggiore vendibilità del prodotto. Ciò nonostante, la competizione rimane impegnativa quanto basta per far saltare qualche nervo finanche ai gamer più metodici e pazienti, in un’esperienza che può facilmente protrarsi oltre le cinque o sei ore, specie per i completisti più convinti.

8-bittierIl punto di maggior contatto tra Super Win the Game e il suo parente digitale più prossimo è sicuramente l’estetica. Chi ha avuto modo di provare l’opera prima dello sviluppatore ricorderà certamente il gustoso stratagemma visivo d’incorniciare l’azione all’interno di un vecchio tubo catodico, adottato da Pittman anche in quest’occasione e addirittura affinato nella fedeltà di rappresentazione. Proprio come durante una fruizione di titoli “extremely old-gen”, l’utente non può fare a meno di notare lievi difetti di flickering e il classico effetto scia degli sprite. Sia chiaro, nulla di così accentuato da rovinare l’azione, eppur in grado di strappare un sorriso a denti stretti a quei videogiocatori di vecchia data che con questi problemucci ci sono un po’ cresciuti. Peraltro, tale modalità – denominata CRT – è disattivabile in qualunque momento, permettendo all’uopo una fruizione a tutto schermo e senza artefatti grafici di sorta. Escludendo questo originale marchio di fabbrica metaludico, bisogna ammettere che è invece il level design del titolo ad aver compiuto un notevole balzo in avanti in termini di gradevolezza e citazionismo. Se You Have to omaggiava l’epoca NES in modo abbastanza nascosto, questo episodio sceglie invece di schiaffare una manciata di riferimenti direttamente in muso al giocatore. Non solo il dualismo tra l’inquadratura a volo d’uccello della mappa di gioco e il sidescrolling dei livelli canonici è un omaggio diretto a The Adventure of Link; ci sono dungeon evidentemente ispirati ai set di Super Mario Bros, Metroid e Kid Icarus, così come lo sono gran parte dei nemici in campo – uno tra tutti il simil-Baby Metroid dello stage nelle tubature. Ad accompagnare il tutto, troviamo infine una colonna audio sintetizzata appositamente per ricreare le sonorità dell’era 8-bit. I motivetti presenti sono consoni all’esperienza, ma in verità davvero pochi e rischiano di annoiare dopo breve. In questo senso, un po’ di varietà in più non avrebbe guastato.

– Trama gradevole, che si compone passo passo

– Tanti segreti da scoprire

– Scenari pregni di storia videoludica

– Livello di sfida considerevole

– Leggermente meno accattivante rispetto al suo predecessore

– Colonna sonora per nulla varia

7.5

Rispetto a You Have to Win the Game, il nuovo lavoro di Kyle Pittman non è né qualcosa di più né qualcosa di meno: semplicemente, è altro. Sarebbe dunque sbagliato giudicare Super Win the Game unicamente in contrapposizione al suo parente digitale più stretto, poiché il gioco è volutamente più commerciale e maggiormente focalizzato sulla narrativa, sull’esplorazione semi-guidata e sulla rappresentazione di un mondo ludico molto più aperto e ricco di location – ferma restando la natura low budget del prodotto. Certo, lo sperimentalismo è meno marcato rispetto al passato, e in effetti quest’opera seconda potrebbe risultare meno accattivante per chiunque abbia saggiato il fascino del primo Win the Game. Ciò non ne nega, in ogni caso, lo status di platform che, non soltanto semplice foriero dell’amore che il developer nutre verso la Storia videoludica, beneficia prima di tutto di solide meccaniche e di sfide tanto impegnative quanto appaganti. E non è poco.

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