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Recensione

Dear Esther

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Avatar di andymonza

a cura di andymonza

Pubblicato il 14/02/2012 alle 00:00
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Dear Esther non è un videogioco. Prima di approfondire l’analisi di uno dei progetti più bizzarri e coraggiosi degli ultimi anni, è bene precisare quanto sopra, così che non possano esservi fraintendimenti di sorta. Nato come mod di Half Life 2 e supportato dall’università di Portsmouth (con sede nell’Hampshire, in Inghilterra), il progetto porta la firma di Dan Pinchbeck e della software house thechineseroom. Rilasciata il 29 giugno del 2008 in forma del tutto gratuita, la mod ha riscosso buoni consensi per l’approccio audiovisivo sperimentale, per l’ambientazione eterea e per l’utilizzo della colonna sonora e di certi elementi scenografici, risultando peraltro abbastanza grezza dal punto di vista tecnico, soggetta a diversi glitch e bug di level design.Grazie al lavoro di Robert Briscoe, ex dipendente presso DICE (tra i lavori a portare la sua firma c’è Mirror’s Edge) il progetto è stato completamente ricostruito, lasciando intatta la sceneggiatura e l’ambientazione ma riprogettando interamente l’impianto grafico e tecnologico. Il risultato è una criptica esperienza d’esplorazione e introspezione, capace di suscitare emozioni solo a patto di affrontarla con il giusto spirito.

L’isolaTralasciando la possibilità di muoversi più o meno liberamente in uno spazio tridimensionale, Dear Esther non prevede alcun tipo d’interazione da parte del giocatore. Cliccare con i tasti del mouse o premere i pulsanti della tastiera aggiungerà solo fastidiosi rumori meccanici alla musica e al monologo di sottofondo. Proprio questi ultimi rappresentano l’unico filo conduttore utile a dipanare il criptico enigma proposto dai suoi ideatori. Chi o cosa siamo non ci è dato saperlo. Spettatore, anima, spirito, mente liberata dalle catene del corpo, chi può dirlo. Il dove è senza dubbio più tangibile, ma nondimeno indefinito. Un’isola che per morfologia e paesaggio potremmo ricondurre all’arcipelago delle Ebridi, il cui stato di abbandono, la cui forma erosa e rovinata suggerirà ben presto una natura forse del tutto eterea, il parto di una psiche compromessa dal dolore della perdita.Ci troveremo dunque ad esplorare questo non-luogo, accompagnati solo dai paesaggi mozzafiato e dalla voce narrante, che leggerà lettere indirizzate alla “Cara Eshter” del titolo, volutamente criptiche e vaneggianti, contraddittorie in più punti. In questa valanga di parole il filo conduttore emergerà lentamente, rivelando come Eshter sia probabilmente una nostra conoscenza coinvolta in un incidente automobilistico, vittima di freni malfunzionanti o, forse, di un autista ubriaco.Accompagnati da questa progressiva rivelazione, sempre più vaneggiante via via che il percorso volge al termine, possiamo solo osservare i panorami, ora meravigliosi, ora deprimenti e rovinati dal tempo e dall’abbandono.Il videogiocatore medio si troverà probabilmente a muoversi in questo mondo virtuale nella costante attesa (speranza?) che qualcosa effettivamente accada, che il vaneggiare dell’io narrante lasci il passo al più rassicurante suono di una qualche minaccia in arrivo (cos’è un videogioco, senza una minaccia da sconfiggere?), che il terribile e sconcertante vuoto degli immobili paesaggi si riempia con qualcosa con cui interagire, da uccidere, con una sfida da portare a termine. Fedele fino in fondo alla sua natura, Dear Esther non vi concederà nulla di tutto questo. Si farà guardare ed ascoltare, vi farà aspettare, per poi farvi scoprire che ad attendere è invece “lui”, il progetto stesso, l’esperienza, l’idea. Aspetterà che siate voi a rileggerlo, a cercare una risposta o ad accettarne la totale mancanza, a concedergli quel pezzetto di voi in cui è racchiuso un ricordo affine, di tristezza, di solitudine o di perdita. Aspetterà che vi schiudiate e comprendiate che l’importante non è la meta o la risposta alla domanda, ma il percorso fatto, il quesito stesso, puro e perfetto nella totale assenza di soluzione.Volendo dunque classificare al meglio Dear Esther, si potrebbe parlare di “esperienza multimediale”, tralasciando del tutto il termine “interattiva”, dato che di interazione non ve n’è traccia, se non a un livello profondo tutto a discrezione del fruitore: ponendo eteree domande e seminando vacue risposte, il lavoro di Briscoe e Pinchbeck può germogliare solo nella mente dello spettatore, suscitare riflessioni, gettare un ponte fatto di interpretazioni, ricordi personali, deja vu. Potrebbe addirittura commuovere, se sottoposto a soggetti che abbiano subito perdite personali importanti, recenti o meno. Oppure potrebbe lasciare del tutto indifferenti, un incantesimo rotto dalla domanda più semplice e spontanea: perché? Di fronte ad essa, il delicato e fragile intreccio si scioglierebbe e farebbe rimpiangere il prezzo del biglietto.Non c’è un perché, dietro a Dear Esther. C’è più che altro la voglia di condividere, di suscitare uno stato emotivo che potremmo riassumere in una parola, tristezza, che in quanto tale è limitativa nei confronti delle infinite sfumature in cui essa può presentarsi al singolo.

Della stessa materia di cui sono fatti i sogniValutare Dear Esther da un punto di vista puramente tecnico è un esercizio rassicurante, dato che la forza delle immagini, lo studio cromatico, la densità poligonale e gli ottimi shader riportano l’analisi su un piano più terreno e sicuro. E in questo senso, il lavoro di Briscoe è indubbiamente valido: alla totale assenza di interazione sopperisce una capacità di incanalare a dovere il percorso esplorativo dello spettatore, utilizzando i dislivelli e la morfologia dell’ambientazione per ampliare e restringere a piacimento gli orizzonti, valorizzando il percorso visivo con una mano “registica” molto esperta. Il livello di dettaglio, molto alto, l’illuminazione gestita con perizia e la forza dirompente di alcuni scorci fanno il resto, trascinando il giocatore a fondo, convincendolo della credibilità dello spazio esplorato pur nella sua forma evidentemente eterea, spoglia della connotazione di “luogo” fisico e tangibile.Il sonoro è altrettanto curato, alterna i lunghi silenzi al monologo ipnotizzante nella sua cadenza ora tranquilla, ora isterica, vi aggiunge note di piano che lo rendono apparentemente più gradevole, forse solo più inquietante. Interessante tra l’altro come il parlato possa cambiare ripetendo l’esperienza, aggiungendo o sottraendo dettagli, proponendo una sorta di rigiocabilità per il prodotto. Importante infine sottolineare come la fruizione sia legata ad una buona conoscenza dell’inglese: i sottotitoli in italiano non sono infatti previsti nella release iniziale (che comprenderà tuttavia quelli in lingua originale), e potrebbero essere rilasciati successivamente sotto forma di aggiornamento.

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Ritornando a quanto affermato in apertura, consigliare o meno Dear Esther è possibile solo a patto di riuscire a far comprendere la sua natura. Il lavoro di Pinchbeck e Briscoe utilizza il linguaggio del videogioco per proporre qualcosa di profondamente antitetico all’intrattenimento puro e semplice.

Spunto di riflessione, viaggio allucinante e ipnotico, sogno: questi sono i termini che più si avvicinano all’esperienza offerta. I valori ci sono, ma vanno disseppelliti e scovati nelle ore che seguono alla fruizione, ad occhi chiusi, validi più nel ricordo che nel momento stesso della scoperta.

Per questo, ci sentiamo di consigliare Dear Esther solo a patto della piena comprensione e condiscendenza con la sua natura, un necessario prezzo da pagare per aprire la propria mente a ciò che il videogioco può fare ed essere se visto come qualcosa di più (o semplicemente al di là) di mero mezzo d’intrattenimento.

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