L'uscita di Death Stranding 2: On the Beach si avvicina sempre di più, ma per Hideo Kojima non è solo il lancio di un nuovo videogioco.
È anche una riflessione profonda e personale su cosa significa essere soli, su cosa vuol dire connettersi in un mondo in frantumi.
In un’intervista rilasciata a Edge Magazine (via GR+), Kojima ha raccontato un retroscena toccante sul processo creativo del sequel e su come l’esperienza del Covid-19 abbia avuto un impatto emotivo devastante, nonostante la sceneggiatura fosse già pronta prima della pandemia.
Quando la malattia lo ha costretto a fermarsi, Kojima è tornato negli uffici della sua Kojima Productions e li ha trovati vuoti.
Tutti lavoravano da remoto. Il silenzio, l’assenza di colleghi, l’eco di spazi prima condivisi lo hanno colpito nel profondo: «Ho pensato che forse non avrei più rivisto nessuno», ha confessato.
È stato in quel momento che ha percepito sulla propria pelle il peso dell'isolamento, lo stesso che aveva già raccontato, quasi profeticamente, nel primo Death Stranding (che trovate su Amazon), dove la connessione tra le persone è un gesto di resistenza in un mondo devastato.
Questa sensazione di perdita ha però innescato una scintilla creativa. Durante la convalescenza, Kojima ha sentito l’urgenza di creare qualcosa di completamente nuovo, di inseguire un’idea di gioco che ancora non esiste nel mondo. Un atto di resistenza artistica, quasi, contro l’omologazione e la superficialità della connessione digitale.
Dal mio punto di vista, ciò che rende straordinario Kojima non è solo la sua capacità di prevedere i tempi, ma il modo in cui riesce a trasformare il dolore in arte.
L’arrivo di Death Stranding 2, previsto per il 26 giugno, è quindi molto più di un evento videoludico: è il frutto di un percorso personale e collettivo, segnato da isolamento, paura e rinascita (e noi lo abbiamo provato).