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Corte d'Appello - Crash Bandicoot: L'Ira di Cortex

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a cura di Nicolò Bicego

Redattore

Nella prima puntata della nostra Corte d’Appello, vi avevamo parlato del gioco che riuscì, da solo, ad “uccidere” il franchise di Spyro. Come anche il passato recente ci ha dimostrato, il destino del brand di Spyro è sempre stato legato a doppio nodo a quello del franchise di Crash Bandicoot: le due serie hanno sempre proceduto su percorsi a dir poco simili, e questo vale anche per le loro origini. Dopo l’ottima trilogia originale, infatti, anche Crash si trovò ad affrontare un cambio di sviluppatore (oltre che di piattaforme), con un gioco che, anche in questo caso, avrebbe compromesso per molti anni l’immagine del peramele più famoso dell’universo videoludico. Stiamo parlando, ovviamente, di Crash: L’Ira di Cortex.

Traveller’s Tales entra in gioco con Crash

Dopo l’abbandono del brand da parte di Naughty Dog, Universal cercò nuovi possibili sviluppatori per il successivo episodio di Crash Bandicoot. Inizialmente, l’intenzione era quella di portare la serie al livello successivo: Universal aveva infatti pensato di affidare il ruolo di designer a Mark Cerny, che avrebbe voluto rendere il nuovo episodio un open-world. Nell’aria c’era anche un contratto con Sony, che avrebbe fatto rimanere Crash un’esclusiva Playstation anche con il passaggio a Playstation 2. Le trattative, però, non andarono a buon fine, e sia Cerny che Sony abbandonarono il progetto. Questo lasciò Universal da sola alla scelta di un nuovo sviluppatore. A differenza di quanto successo con Spyro, la scelta ricadde sui veterani di Traveller’s Tales. Anche in questo caso, però, Universal voleva un gioco in fretta: l’intenzione era quella di avere un nuovo episodio pronto per le vacanze natalizie del 2001. Traveller’s Tales aveva così dodici mesi di tempo per consegnare un prodotto finito. Come se non bastasse, da Universal arrivò un messaggio chiaro: non correre rischi. L’idea di trasformare Crash in un open-world venne così accantonata, in favore di un gioco che riprendesse in pieno la formula degli episodi precedenti. Traveller’s Tales riuscì nell’impresa, e Crash Bandicoot: L’Ira di Cortex raggiunse gli scaffali americani nell’Ottobre 2001, nella sua versione Playstation 2 (le altre versioni sarebbero arrivate in seguito). Lo sviluppo affrettato era comunque ben visibile: i lunghi tempi di caricamento tra un livello e l’altro sono un ricordo indelebile per chiunque abbia giocato la versione originale del titolo (essi vennero infatti ottimizzati in occasione del rilascio sulle altre console e della versione Platinum su Playstation 2). Il vero problema dell’Ira di Cortex, però, stava altrove, al cuore del gameplay. Critica e pubblico, infatti, accusarono il gioco di essere fin troppo simile ai suoi predecessori, con la colpa aggiunta di non essere un “vero” platform a causa della grande mole di livelli su veicoli, che oscurava i livelli classici.

Crisi d’identità per il nostro Bandicoot

I livelli su veicoli erano diventati una presenza importante già in Crash Bandicoot: Warped, dove erano stati inseriti allo scopo di rendere più variegato il gameplay ormai classico della serie. La loro cadenza era stata però ben dosata: questi livelli erano inseriti ad intervalli più o meno regolari tra esperienze puramente platform, dove le meccaniche viste nei primi due episodi erano state rifinite al massimo delle possibilità. In L’Ira di Cortex, invece, le cose vanno diversamente: già nella prima tranche di cinque livelli, i veicoli occupano una corposa parte dell’esperienza, arrivando quasi ad oscurare la parte platform del gioco; una costante che rimarrà per tutta la durata dell’avventura. Sia chiaro, alcuni dei livelli su veicoli sono divertenti: la girosfera è una trovata simpatica, così come anche la jeep, che rappresenta un passo avanti rispetto alla moto guidata nel terzo episodio.

L’indomabile Ira di Cortex

Il problema sta nel fatto che non tutti i mezzi inseriti sono divertenti da giocare (chi ha nominato il robot?) e nella loro sovrabbondanza. L’impressione che si ha è che gli sviluppatori di Traveller’s Tales temessero di non riuscire a reggere il confronto con quanto raggiunto da Naughty Dog: per questo, anziché giocare sul loro stesso campo, avrebbero preferito puntare su una maggiore varietà piuttosto che puntare a migliorare la componente platform. Quello che ne risulta è un gioco in preda ad una vera e propria crisi d’identità: L’Ira di Cortex mescola talmente tanti diversi stili di gameplay da non sapere mai cosa vuole essere, lasciando il giocatore piuttosto confuso dall’offerta complessiva. Come se non bastasse, i livelli platform non riescono a raggiungere le vette qualitative viste negli episodi precedenti. Sia chiaro, non siamo di fronte a casi di pessimo level design; semplicemente i nuovi livelli faticano a rimanere impressi dopo quanto visto in precedenza. Questo è dovuto anche all’assenza di qualsiasi tipo di novità. Nel terzo capitolo, Naughty Dog aveva inserito tante, piccole migliorie al gameplay, soprattutto sotto forma di power-up da utilizzare nel corso dell’avventura. Quei power-up fanno ritorno anche in questa occasione, ma si tratta sempre delle stesse mosse; e quando non sono le stesse, si tratta di abilità talmente inutili da essere facilmente dimenticate. Ad esempio, viene introdotta la possibilità, per Crash, di attraversare indenne alcune file di casse Nitro: peccato che essa venga utilizzata soltanto in una manciata di occasioni in tutto il gioco e che il suo utilizzo sia puramente circostanziale.

Insomma, l’impressione che lascia il titolo è quella di un’occasione sprecata. Traveller’s Tales era uno sviluppatore capace di regalare ai fan un vero quarto episodio per la serie del peramele, ma così non è stato. I timori di Universal, e forse quelli della stessa software house, hanno portato il titolo a vivere una crisi d’identità: da una parte vive nell’ombra dei suoi precedessori con la consapevolezza di non poterli superare, dall’altra ci prova comunque facendolo nel modo sbagliato, alla ricerca di una varietà che non riesce ad alzare il livello qualitativo dell’offerta complessiva. Ciò detto, il gioco riesce comunque a divertire: siamo ben lontani da un disastro come Spyro: Enter the Dragonfly. A dirla tutta, nonostante i suoi difetti, potremmo definire L’Ira di Cortex un gioco discreto, in grado di regalare una manciata di ore di divertimento a chi ha apprezzato la serie del peramele. Il vero problema, ed il motivo per cui lo giudichiamo colpevole, è ciò che questo gioco sarebbe potuto essere se solo i suoi creatori avessero avuto più coraggio.

Crash Bandicoot: L’Ira di Cortex risulta, in definitiva, colpevole non tanto di essere un pessimo gioco (anzi, potremmo definirlo addirittura discreto), quanto di non essere in grado di raccogliere le redini del suo onesoro passato. La mancanza di coraggio da parte degli sviluppatori porta questo titolo a vivere nell’ombra dei suoi illustri predecessori per la maggior parte del tempo; quando invece prova a distaccarsene, lo fa nel modo sbagliato. Un vero peccato perché, con un pizzico di ambizione in più, L’Ira di Cortex avrebbe potuto mantenere intatta la sudata nomea del franchise.

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Commento

Crash Bandicoot: L'Ira di Cortex risulta, in definitiva, colpevole non tanto di essere un pessimo gioco (anzi, potremmo definirlo addirittura discreto), quanto di non essere in grado di raccogliere le redini del suo onesoro passato. La mancanza di coraggio da parte degli sviluppatori porta questo titolo a vivere nell'ombra dei suoi illustri predecessori per la maggior parte del tempo; quando invece prova a distaccarsene, lo fa nel modo sbagliato. Un vero peccato perché, con un pizzico di ambizione in più, L'Ira di Cortex avrebbe potuto mantenere intatta la sudata nomea del franchise.