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L’epoca d’oro delle Light-Gun - Parte 2: gli Esotici

La seconda parte, meno conosciuta, della Light-Gun: i prodotti più fantasiosi del crepuscolo del genera, a tema dinosauri, vampiri e antico Egitto.

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Avatar di Adriano Di Medio

a cura di Adriano Di Medio

Redattore

Pubblicato il 20/11/2019 alle 10:02
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Il Verdetto di SpazioGames

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Siamo arrivati alla fine di queste retrospettiva sulle Light-Gun. Un genere che, per quanto nato inizialmente senza troppe speranze, ha saputo essere un grande terreno di sperimentazione per i creativi che hanno voluto calcarlo. Ciò ha portato le sale arcade all’ultimo sprazzo di giovinezza, che nonostante si sia dovuto scontrare anche con la grigia cronaca di tutti i giorni era un momento in cui calarsi in contesti irreali e divertirsi nella maniera più esotica possibile. Una tecnologia che, vista la sua dipendenza dal tubo catodico, è destinata a una triste obsolescenza in un mondo di schermi piatti e cristalli liquidi. Eppure non muore mai la speranza che i videogiochi che furono possano essere un giorno riportati alla gloria, magari con una riedizione della vecchia G-Con 3 oppure con una nuova periferica appositamente progettata.

Bentornati a L’Epoca d’Oro delle Light-Gun, lo speciale dedicato alle celebri periferiche a forma di pistola di plastica. Una tecnologia che per quanto “semplice” (il cui cuore è un fotodiodo inserito nella canna) è stata il punto di partenza per numerosi videogiochi. Dai primi esperimenti risalenti al NES per poi passare ai polizieschi figli di Virtua Cop, nella catena di opere che la impiegavano l’anello che l’ha resa maggiormente famosa nel mondo è stato Time Crisis. Ma allo stesso modo la pistola ottica ha avuto variazioni più immediate e carnali, con il gore di House of the Dead. Ma dopo aver trattato il “celebre”, in questa puntata parleremo dell’“esotico” e del fantasioso, scoprendo inaspettati sprazzi creativi.

The Lost World: basta coi proiettili, meglio i tranquillanti

In effetti, è SEGA la seconda casa ad aver raccolto l’eredità della Light-Gun. Ma se Namco puntava verso un moderato tatticismo abbinandolo a trame da chiassoso film d’azione, SEGA trovava la propria ragion d’essere nell’esasperazione della sparatoria, ancora meglio se questa avveniva contro creature grottesche o mostruose. Ma se House of the Dead era ormai consolidato, la formula si applicava potenzialmente a qualunque cosa. E volendo non c’era niente di meglio di un tie-in di una pellicola di successo. È con questa mentalità che nel 1997 viene pubblicato The Lost World: Jurassic Park, realizzato su licenza della Universal Studios e basato sull’omonima pellicola uscita nei cinema nello stesso anno.

Anche se la natura dei due cacciatori di vampiri si sarebbe rivelata solo nel finale, il gioco era interessante anche per i boss alla fine di ciascuno dei sei capitoli. I tirapiedi di Auguste erano infatti personaggi che, per essere dei boss da uno stage e basta, avevano un’inaspettata dose di psicologia: Barthelemy il cavaliere alla ricerca di uno scopo, Guillaume lo scienziato pazzo, Raoul il vampiro redento e Diane, la triste e dolce sirena che svanendo sogna una coesistenza tra umani e vampiri.

Il gioco comunque risentiva della brevità intrinseca dei videogiochi Light-Gun, non avendo quindi l’occasione di approfondire la vicenda. I dialoghi rimanevano quindi eccessivamente allusivi, lasciando forse intendere una trama e un background più approfonditi di quanto non fossero nella versione finale. Di nuovo la versione per PlayStation 2 aggiungeva un po’ di contenuti, tra cui uno Special Mode in cui completare missioni dai committenti in cambio di argento da spendere poi presso l’apposito negozio. La versione console venne accolta tiepidamente, ma il successo in sala giochi non fu entusiastico: erano gli anni del crepuscolo.


L’ultimo stage della grande piramide ospitava invece il personaggio di Pharaoh, boss finale decisamente arzillo per avere seimila anni. Da lui si sarebbe ottenuta la Wand of Pharaoh, l’unico tesoro il cui ottenimento è automatico. Anche se il mondo delle sale giochi stava ormai tramontando nella sua componente più “di massa”, The Maze of the Kings fu ricevuto abbastanza bene: il pubblico ne apprezzò l’ambientazione inedita per il genere e il creativo cabinato. Quest’ultimo, oltre a essere ovviamente costruito con rimandi all’antico Egitto, presentava le Light-Gun completamente ridisegnate. Erano infatti riproduzioni dorate delle aste magiche utilizzate dai protagonisti del gioco, modellate a forma di testa di Anubi e dipinte d’oro. Nonostante gli entusiasmi, The Maze of the Kings andò incontro anche a delle critiche, prevalentemente per via una calibrazione della difficoltà verso il basso. Se da un lato era più accessibile, dall’altro il livello di sfida calava sensibilmente.

Siamo arrivati alla fine di queste retrospettiva sulle Light-Gun. Un genere che, per quanto nato inizialmente senza troppe speranze, ha saputo essere un grande terreno di sperimentazione per i creativi che hanno voluto calcarlo. Ciò ha portato le sale arcade all’ultimo sprazzo di giovinezza, che nonostante si sia dovuto scontrare anche con la grigia cronaca di tutti i giorni era un momento in cui calarsi in contesti irreali e divertirsi nella maniera più esotica possibile. Una tecnologia che, vista la sua dipendenza dal tubo catodico, è destinata a una triste obsolescenza in un mondo di schermi piatti e cristalli liquidi. Eppure non muore mai la speranza che i videogiochi che furono possano essere un giorno riportati alla gloria, magari con una riedizione della vecchia G-Con 3 oppure con una nuova periferica appositamente progettata.

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