In una parola

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a cura di Fatum92

Violenza. Una parola che può suscitare reazioni contrastanti, ma che solitamente genera ribrezzo nella comunità sociale. Una parola che troppo spesso viene usata per puntare gratuitamente il dito verso una forma artistica e di intrattenimento come il videogioco. Da quando l’uomo è sulla Terra ha dovuto fare i conti con la sua natura più animalesca e bestiale. Che piaccia o meno, giusto o sbagliato che sia, la violenza, la rabbia, è una parte insita in ogni essere umano, che può anche assumere forme verbali e non solo fisiche. Un istinto da accettare, non da reprimere a tutti i costi, ma da controllare e dominare. La Storia è testimone di atti brutali, di guerre e stragi attuate per le più stupide e disparate ragioni, a riprova dell’instabilità dell’animo umano, che moralmente ripudia qualsiasi atteggiamento violento, ma che, al contempo, ne rimane affascinato e attratto. Semplice curiosità? Forse si, forse no. Per quanto intollerabile e ripugnante, è innegabile che ci si possa esprimere anche attraverso la pura violenza, inscenando spettacoli sadici, perversi, eppure in grado di catturare con forza gli occhi di chi guarda. A dimostrarlo vi sono opere cinematografiche e persino dipinti e quadri. E poi, ovviamente, ci sono gli immaturi videogame, ricchi di esempi su questo scomodo tema. Oggi, però, ne basta solo uno: Kratos.

Brutalità al servizio del giocatoreQuando God of War si mostrò per la prima volta al pubblico spiccò immediatamente per il tasso di violenza proposto, spettacolarizzato da uccisioni brutali e filmati dalla pregevole fattura. Sangue, sangue e ancora sangue; ma non è mai abbastanza per placare la sete del tormentato protagonista e, con lui, del giocatore, sempre più bramoso di scatenare l’ira funesta del guerriero. Perché la soddisfazione di spargere indicibili sofferenze alle sciagurate creature mitologiche, squartando, decapitando, massacrando, è semplicemente impagabile: una scarica di adrenalina. La serie di God of War poggia le sue fondamenta proprio su questo, inscenando una tragedia greca in chiave moderna che racconta una storia di vendetta di proporzioni epiche, portata avanti da un antieroe letteralmente accecato dall’ira. Sono forti i sentimenti suscitati dalle sue gesta: rabbia, insofferenza, odio. Odio verso gli dei. Odio verso sé stesso.E se nel primo capitolo il focus della narrazione si concentra sull’oscuro e disonorevole passato di Kratos, distrutto dal dolore in seguito alla morte di moglie e figlia per sua stessa mano, e sulla figura di Ares, con l’uscita di scena di quest’ultimo e la salita al trono dello spartano come nuovo dio della guerra, la vendetta si espande: Ade, Poseidone, Elio, Ercole, Hermes, Zeus, nessuno sarà risparmiato.Il difficile compito di mettere in pratica questa implacabile collera è affidato al gameplay. Attraverso dinamiche semplici da apprendere, si scatena quindi questa furia inarrestabile, con risultati spesso convincenti e appaganti. Violenza, spettacolarità, impatto visivo maestoso, epicità, insieme plasmano anima e cuore di God of War.

Anche un dio può sanguinarePotenza. Così può essere definita la sensazione che pervade chi si impersona in Kratos mentre trucida minotauri, strappa con una sola mano l’occhio di un ciclope o sviscera qualche altro ripugnante essere. Senso di genuina potenza. Ciò non si traduce necessariamente in combattimenti facili da gestire (perlomeno alla difficoltà più elevata), poiché a restituire questa impressione sono proprio le immagini mostrate a schermo, la ferocia delle esecuzioni, la credibilità delle animazioni, non la superiorità in sé e per sé del fruitore rispetto ai nemici. Le avventure dello spartano più arrabbiato di sempre non sarebbero le medesime senza la barbara crudeltà messa in scena scontro dopo scontro, culminante nelle sequenze in quick-time-event, capaci di mostrare con fermezza la forza bruta del protagonista. Non sempre l’illusione regge e colpisce a pieno, lasciando talvolta indifferenti dinnanzi all’ennesimo bagno di sangue. Tuttavia, i momenti da ricordare non mancando di certo. L’intera epopea del fantasma di Sparta è farcita di attimi assolutamente indimenticabili: dalla vittoria su Ares alla scenografica battaglia conclusiva di Ghost of Sparta, dall’epico incipit di God of War II fino ad arrivare alla carneficina di dei di God of War III. Più sanguinosi e crudeli, più memorabili. E nove volte su dieci prendono il nome di boss-fight. Escludendo l’episodio originale, povero sotto questo punto di vista (ma non meno cattivo e parsimonioso di violenza), i viaggi di Kratos si caratterizzano per gli stupendi, meglio se giganteschi, boss, che racchiudono l’essenza della serie: puro spettacolo visivo, estremamente cruento ed epico. Possente.

Scatenare l’iraOgni impresa del dio della guerra si apre in maniera vertiginosa, rocambolesca, in un tripudio di spettacolarità che non risparmia attimi al cardiopalma. Il ricordo va al primo viaggio di Kratos, quando l’incontro con l’Idra sprizzava una carica mitica impressionante per quei tempi, ma destinata presto a cedere il passo all’imponenza del colosso di Rodi di God of War II. La tradizione va rispettata ed è per questo che a superare tale apice è proprio lo spaventoso duello tra Kratos e Poseidone, che apre le danze del capitolo più epico dell’intera serie. Un climax da subito in crescendo che si esaurisce proprio come è iniziato, bruscamente, proseguendo con alti e bassi, tra discese e salite. L’ultimo tassello della trilogia è l’esempio più chiaro di questo andamento, oltre che quello in grado di mettere maggiormente sotto i riflettori la furia di vendetta del protagonista, appoggiandosi alla potenza di PlayStation 3 per delineare con minuzia di particolari la cattiveria delle uccisioni. La morte del dio dei mari è solo lo spettacolare inizio di un’avventura che, a singhiozzo, si compone di attimi assolutamente indimenticabili e cruenti. Per quanto meno equilibrato rispetto al predecessore, probabilmente ancora oggi il migliore esponente della saga, God of War III raggiunge picchi ineguagliabili e per farlo gioca con le divinità greche, facendole soccombere una a una davanti all’indomito spartano, generando attesa, aspettativa, nei confronti di cosa potrà riservare il prossimo combattimento, e divertendosi a elettrizzare il giocatore con esecuzioni leggendarie: la testa di Elio strappata con le sole mani riecheggia tuttora nella mente in tutta la sua prepotenza. Non solo il volto del dio del Sole, ma anche quello di Ercole subisce un amaro destino, venendo massacrato e ridotto in poltiglia pugno dopo pugno. Pugni restituiti con efficacia tramite la manesca pressione di un povero e maltrattato tasto. Un’aggressività furibonda che non manca di colpire perfino un titano, Crono. Una battaglia, è proprio il caso di dirlo, di proporzioni mastodontiche, smisurate. Le dimensioni, però, non contano, almeno non per Kratos, che, dopo essere stato ingoiato dal titano, esplode senza alcun sentimento di pietà in un gesto furente, squarciando la dura pelle del gigante da lato a lato, facendone fuoriuscire le enormi viscere. Uno spettacolo disgustosamente meraviglioso, dal quale si evince la superiorità dell’inarrestabile protagonista su tutto e tutti, completamente in balia della sua sete di rivalsa. Nessuno può fermalo.

Sangue a catinelleCon la dipartita di Crono, il ritmo va poi in calando, non riuscendo a sostenere il confronto con la prima metà dell’avventura e concludendosi con la tanto desiderata battaglia finale: Kratos contro Zeus. Epico sì, ma meno di quanto era lecito aspettarsi, per uno scontro non particolarmente interessante e, purtroppo, tra i meno riusciti. Un peccato, anche per un epilogo che poteva dare qualche spunto in più.Poseidone e Crono, insomma, rimangono sulla vetta e soprattutto il primo viene esaltato da un uso sapiente della camera virtuale, che armandosi di virtuosismi degni di un colossal cinematografico accentua oltremodo l’immersione e il coinvolgimento, tenendo incollati al monitor della TV. Una condizione riproposta nel recente God of War: Ascension, graziato, come da copione, da una boss-battle iniziale di forte impatto, che pur non raggiungendo l’apice del terzo capitolo, si celebra in tutta la sua magnificenza sfoggiando repentini cambi di visuale e inquadrature ancora più incisive e spettacolari, mentre la colonna sonora, oggi come in passato, segue ed enfatizza l’azione con brani imponenti e azzeccatissimi. E anche qui, ovviamente, fontane di sangue non mancano a imbrattare porzioni di schermo.Il nostro eroe si trova così spesso e volentieri ricoperto dal rosso dei nemici. La sua pelle biancastra si bagna del fluido sparso in un contrasto visivamente eccezionale, che da solo testimonia la morbosa violenza consumata. Un’orgia di carne, ossa, arti recisi e zampilli di sangue. Appagante. Un appagamento generato dalla morte dei propri avversari, come può essere la macabra fine di un Mastodonte (creatura su due zampe simile a un elefante), il cui cranio viene aperto in due, accompagnando il cervello fuori dalla sua naturale sede, o l’altrettanto gratificante uccisione di una gorgone, lacerata dalla testa al petto con estrema aggressività.Sopraggiunge comunque un po’ di amarezza quando si prende coscienza della presenza di pochi attimi realmente memorabili in Ascension, almeno se confrontati con quelli passati. L’inizio e la fine. Nel mezzo, poco altro. Un’occasione mancata.Il tasso di violenza rimane soddisfacente, ma non raggiunge, giustamente e per ovvie ragioni, la carica energica e la rabbia che si percepisce nell’ultimo atto della trilogia, quella vendetta pura, furente, da gustarsi con sadico piacere, uccisione dopo uccisione.Per quanto portatore di meccaniche più immediate che tecniche, la giocabilità della serie di God of War appare funzionale al suo compito, ovvero quello di far percepire la potenza, l’odio e la collera di Kratos, equipaggiato delle insostituibili lame del caos: veloci, coreografiche, versatili, letali. Perfette per compiere la loro missione di propagare dolore, perfette per uccidere. Brandendo le sue catene in danze mortali, Kratos, schiacciato dal peso degli orrori commessi, si svela un personaggio carismatico. Ed è proprio quel suo essere unilaterale, perennemente arrabbiato col mondo, con sé stesso e con gli altri, a conferirli carattere. Una personalità che, di capitolo in capitolo (in alcuni meglio, in altri peggio), viene sempre più delineata, mostrando alcune sfaccettature degne di considerazione. Così come il suo aspetto, da solo in grado di raccontare la sua triste e tragica storia. Una storia epica, macchiata del sangue di nemici, innocenti e famigliari. Una storia di sofferenza e tormento. Soprattutto, però, una storia di vendetta.

Le frasi“Gli dei dell’Olimpo mi hanno abbandonato. Ora non c’è più Speranza…”

“Quella notte… cercai di farti diventare un grande guerriero” “Ci sei riuscito!”

“Per tutti gli dei, che cosa sono diventato?”

“Ascoltami dio caduto. Nessuno sfida quanto deciso dalle Parche. È così che deve essere. Solo la morte ti attende alla fine del tuo viaggio” “La mia morte è quella con cui è iniziato” “Le Parche non hanno scelto la tua vittoria. Non troverà mai pace la tua anima per ciò che sei diventato” “Sono stati gli dei a rendermi così!”

“Se gli olimpici si opporranno alla mia vendetta, allora tutti gli olimpici moriranno!”

“Ho vissuto come un guerriero. Sono morto come un dio!”

“È la Speranza che ci dà forza, che ci fa lottare! È la sola cosa che ci resta quando tutto è perduto”

“La mia vendetta, si compie ora!”

Il connubio God of War-violenza è indissolubile. Le atrocità compiute da Kratos si rispecchiano in un gameplay che ne trasmette con efficacia la rabbia e la cattiveria, facendo leva su esecuzioni epiche e cruente, su combattimenti fisici, che mettono in risalto la prestanza del muscoloso protagonista. È in questa ferocia, in questa spettacolarizzazione della violenza, che God of War trova il suo elemento distintivo. Il disegno si completa quando tale aspetto viene inserito in un affascinante universo fantasy mitologico che permette di sfruttare le divinità greche come carne da macello, dando vita a battaglie che per impatto scenico, visivo e ideologico non hanno eguali nel panorama videoludico odierno. Nel corso di sei capitoli, il Fantasma di Sparta, guidato da una furia inaudita, ha letteralmente lasciato dietro di sé un mare, o meglio un oceano, di sangue. Epico sarebbe probabilmente una delle parole più adatte per descrivere le sue gesta, ma è anche vero che senza la spietata dose di crudeltà di alcune uccisioni, il suo cammino non apparirebbe altrettanto memorabile. Una violenza spesso completamente fine a sé stessa, appagante e divertente proprio per questo suo essere del tutto gratuita, eccedente, quasi a fungere da anti-stress. Ma è attraverso essa che il semidio si esprime. E va bene così.

In una parola: Brutale.