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Cinema e Videoludica III

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a cura di AG

Pubblicato il 28/07/2016 alle 00:00

Nello studio delle arti visuali, la questione del punto di vista assume un ruolo cruciale, per lo meno in epoca contemporanea. Se pensiamo all’arte pittorica antica, per esempio un quadro rinascimentale con la sua prospettiva centrale, viene spontaneo considerare il paesaggio o la situazione raffigurata come una veduta “oggettiva”, cioè non vincolata allo sguardo di un’istanza particolare. Tutt’al più si potrebbero interpretare alcuni ritratti come delle “soggettive” del pittore che osserva il soggetto inquadrato; ciò avrebbe già più senso specie a partire dall’Ottocento, quando i ritratti iniziano a perdere quel valore celebrativo tipico delle raffigurazioni dei secoli precedenti (ad esempio nobili e famiglie reali) e si concentrano più sul ritrarre momenti intimi e privati dei modelli e modelle con cui il pittore aveva un grado di confidenza senz’altro maggiore che in passato. Tuttavia è con la nascita della fotografia che gli artisti e la critica d’arte iniziano a considerare in modo più approfondito la questione del punto di vista, poiché la scelta di quale porzione di realtà inquadrare ed immortalare tramite l’occhio meccanico si traduce a tutti gli effetti in un punto di vista “soggettivo” sul mondo.Anche nell’arte cinematografica si distinguono inquadrature soggettive e oggettive, a seconda che esse incarnino o meno il punto di vista di un personaggio in particolare. Riguardo l’arte videoludica si potrebbe pensare che tali categorie siano valide senza grossi problemi. Ma è davvero così? Davvero le inquadrature di un ambiente di gioco virtuale e di un allestimento cinematografico sono tanto simili da poter essere identificate dalla stessa nomenclatura? Una soggettiva/oggettiva cinematografica è la stessa cosa di una soggettiva/oggettiva videoludica?


Inquadratura soggettiva o oggettiva?Partiamo dal cinema. Come si sa, la maggioranza dei film che vengono prodotti e “consumati” è di tipo narrativo: storie messe in scena. Storie che spesso riguardano un/una protagonista o un gruppo di personaggi principali. Nel corso della sua storia il cinema ha sperimentato innumerevoli metodi di raccontare tali storie, interrogandosi fra le altre cose riguardo il punto di vista da adottare nella messinscena degli eventi. Capita dunque che talvolta la macchina da presa incarni il punto di vista di questo o quel personaggio: è ciò che si dice inquadratura soggettiva. Solitamente le soggettive sono una piccola percentuale del totale delle inquadrature di un film, che per lo più si compone di inquadrature oggettive, ovvero che assumono un punto di vista neutro, non legato ad alcun personaggio. Ovviamente ciò non è sempre vero, dato che esistono rari casi di film realizzati quasi unicamente tramite inquadrature soggettive (il primo esempio di questo tipo risale al 1947, anno de Una donna nel lago, di Robert Montgomery). Le cose però non sono così semplici: esistono numerosi casi di inquadrature ingannatorie, “false oggettive” e “false soggettive” che non si rivelano poi essere tali, a volte con intenti comici, altre volte per il piacere di sperimentare o per disorientare il pubblico. E ci sono casi di grande ambiguità, ad esempio i mockumentaries alla Blair Witch Project o Cloverfield: come considerare le inquadrature che compongono questi film? In parte sono “soggettive” dei personaggi che impugnano la videocamera che filma, in parte sono “oggettive” poiché noi vediamo le immagini filmate dalle videocamere e non le videocamere stesse dal punto di vista di chi le impugna mentre filmano (scusate il periodo arzigogolato); a meno di non considerare le videocamere come dei veri e propri personaggi ed etichettare perciò tali inquadrature come “soggettive” delle videocamere stesse…un bel pasticcio. Altro esempio: pensiamo ai film in cui c’è la classica voce narrante, esterna alla vicenda narrata ma che sembra conoscerla per filo e per segno e ce ne illustra gli sviluppi; in tale contesto, siamo sicuri che le inquadrature che vediamo siano oggettive? Non potrebbero invece essere considerate legittimamente come soggettive del nostro narratore? 
Il grande venditore di immagini
Alcuni studiosi, poi, tendono ad analizzare il film da un punto di vista narratologico e non narrativo, ovvero più che studiare la narrazione portata avanti da un film cercano di capire quali siano le tecniche con cui tale narrazione viene effettuata: in soldoni, vogliono capire chi stia narrando cosa. Più elegantemente, cercano di far corrispondere a ogni mondo raccontato un’istanza raccontante. La tesi di fondo di questi studi è che ci sia sempre qualcuno che racconta, anche quando non sembra che sia così. C’è sempre una specie di strano spirito invisibile che manovra l’intera narrazione, mettendola in scena per noi: è colui che André Gaudreault definisce poeticamente ‘grande venditore di immagini’. Si potrebbe quindi arrivare a sostenere con buone ragioni che non esistano inquadrature oggettive al cinema, che sarebbe composto unicamente da soggettive del grande venditore, il quale ogni tanto “si impossessa” di un personaggio e adotta il suo punto di vista. Ma non sarebbe sbagliato nemmeno spingersi oltre, uscendo addirittura dall’apparecchio cinematografico e sostenendo che le soggettive non siano del grande venditore, bensì di ogni singolo spettatore che guarda la pellicola: una tesi valida poiché in effetti noi guardiamo tutto il mondo in soggettiva, cioè secondo il nostro punto di vista, e di conseguenza anche un film che viene proiettato davanti ai nostri occhi (filosoficamente potremmo però sostenere l’esatto contrario, poiché un film potrebbe certamente esistere anche se nessuno lo guardasse, e dunque sarebbe pienamente oggettivo…roba da mal di testa). Si capisce insomma che la questione della catalogazione delle inquadrature è tutt’altro che scontata e si apre ad un’infinità di problemi. E questo solo per il cinema, un’arte apparentemente così ben strutturata e codificata grazie alla sua storia ormai ultrasecolare! Cosa succede dunque se ci si sposta ad analizzare il problema in territorio videoludico?

Ennesima personaIn un videogioco l’adozione del punto di vista è una scelta fondamentale di game design, dato che condiziona l’intera esperienza. È tanto importante da designare addirittura dei generi di giochi (first/third person **). La differenza fondamentale rispetto al cinema è causata dal quid dell’offerta videoludica, ossia l’interazione del videogiocatore tramite controllo del proprio avatar. Se si gioca in prima persona, l’inquadratura della videocamera virtuale è sia una soggettiva del nostro avatar sia, di fatto, una soggettiva del videogiocatore. Questo discorso è particolarmente valido nella videoludica in prima persona poiché il nostro avatar non è un essere dotato di intelletto, è solo un oggetto virtuale, un cumulo di pixel, un “portatore” del nostro sguardo all’interno dell’ambiente di gioco. 
Se consideriamo invece i giochi in terza persona, possiamo essere portati a ritenere che essi adottino un punto di vista meno vincolante, per così dire più oggettivo. Tuttavia generalmente il controllo della videocamera rimane in possesso del giocatore, che è libero di gestirla come meglio crede (di solito senza potersi disancorare totalmente dal proprio avatar). Dunque l’adozione del punto di vista rimane sempre una scelta nelle nostre mani: saremo sempre noi a decidere dove guardare, rendendo la videocamera un’estensione del nostro occhio, e ricadendo in definitiva in una visione soggettiva. Se andiamo ad esaminare videogiochi d’epoca troviamo situazioni differenti: i giochi che si sviluppano su fondali prerenderizzati ad esempio impongono determinate inquadrature al giocatore, che non ha alcun controllo su di esse, se non quello di cambiarle spostandosi di schermata in schermata; ci troviamo di fronte ad un maggior grado di oggettività. Si può compiere un salto ulteriore prendendo in considerazione i vecchi giochi 2d a scorrimento (o le loro moderne controparti 2.5d). In essi la videocamera virtuale adotta lo stesso punto di vista per tutta la partita, senza alcuna possibilità di modifica; in questo tipo di giochi il giocatore è per così dire in balìa della videocamera, che gli fa scoprire il mondo di gioco poco alla volta, in tempi e modi che sono a sua totale discrezione, ad esempio facendo avanzare, retrocedere o fermare forzatamente il nostro avatar. Si tratta un tipo di inquadratura che pre-esiste al giocatore, e sulla quale egli non può intervenire in alcun modo, limitandosi a subirla: è in un certo senso la nemica del giocatore, il quale si sforza di non soccombere a tutte le insidie che essa gli pone innanzi. Credo si possa infine individuare una tipologia di videogiochi il cui punto di vista possa definirsi completamente oggettivo: si tratta dei giochi a schermata fissa. È l’impianto sia dei primissimi esperimenti di videoludica, sia di alcuni dei più antichi e famosi esponenti di questa arte elettronica, da Pong ad Arkanoid, da Space Invaders a Tetris. Non c’è nulla di più neutrale, di più asettico di un gioco che non prevede cambi di schermata: il mondo di gioco è tutto lì, davanti ai nostri occhi, una realtà che ci si presenta costantemente nella sua interezza, che sta a noi scrutare continuamente per reagire con prontezza alle sue dinamiche interne.  È abbastanza curioso che, avendo portato agli estremi queste riflessioni sul punto di vista, si sia giunti all’ipotesi del cinema come arte visiva soggettiva e al videogioco come arte visiva oggettiva. Ovviamente una parola definitiva sull’argomento è inesprimibile: tutto dipende, guardacaso, dai punti di vista.


Questo articolo per certi versi può sembrare un mero gioco intellettuale, un divertissement la cui morale è che in fondo, con le giuste argomentazioni, si possa sostenere tutto e il contrario di tutto in merito all’adozione del punto di vista nelle arti audiovisive contemporanee. Quel che personalmente mi preme sottolineare è che spesso si tende a prendere di peso alcuni concetti propri della cinematografia e ad applicarli all’arte videoludica senza riflettere troppo sulla coerenza di simili scelte. Il qui presente redattore ha l’ardire di suggerire che forme d’arte differenti abbisognerebbero di approcci analitici differenti. Spesso si tende invece ad assimilare linguaggi di arti visive diverse in un unico calderone, mentre sarebbe più opportuno conferire a ciascuna quella dignità individuale che merita. Il cinema è arte, la videoludica è arte. Il cinema ha un suo linguaggio, la videoludica ne ha un altro. Tenere i piani separati permette tanto di apprezzarne le somiglianze quanto di scovarne le differenze.

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