Recensione

Una serie di sfortunati eventi, recensione della seconda stagione

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a cura di Redazione SpazioGames

Articolo a cura di Antonio maria Abate

«Look away» è il mantra che accompagna ogni puntata nel corso della sigla iniziale. Lo ripete anche il narratore, Lemony Snicket, nostro Cicerone già nel corso della prima stagione di Una serie di sfortunati eventi. Sfortunati per i tre giovani protagonisti, i Baudelaire, incredibili per noi che li seguiamo. È la cifra di questo progetto, tutto basato sull’assurdo, su quell’escamotage narrativo così postmoderno che è il meta, un dentro-e-fuori il contesto del racconto per il quale indubbiamente ci vuole una certa predisposizione.

Baudelaire in fugaParte con un altro piglio questa seconda stagione, già nel ritmo proprio: Klaus, Violet e Sunny vengono affidati ad una scuola in cui subito viene chiarito che non avranno vita facile, tra insopportabili ragazzine ricciolute che ballano il tip-tap e direttori scolastici inetti che chiudono i tre orfani in una catapecchia, assumendo la più piccola, Sunny, quale segretaria. Come detto, è la sagra dell’assurdo; non un accidente o anche solo una delle peculiarità di questa serie bensì il fulcro essenziale attorno al quale ruota tutto. Dicevamo del piglio, che non è solo ritmo. Pronti via, i Baudelaire conoscono, e noi insieme a loro, quei ragazzini la cui identità era stata lasciata in sospeso al termine della prima stagione: sono i Quagmire, Pantano nella versione italiana, orfani a loro volta, che introducono un elemento interessante, o almeno così sembra. Si crea infatti un gioco delle coppie incrociato, il che, unito all’ambientazione delle prime due puntate (la scuola, come già detto) pare volerci raccontare lo step successivo dei protagonisti, dall’infanzia all’adolescenza: i primi amori, i primi scontri coi coetanei e via discorrendo. Si tratta tuttavia di una falsa pista, sulla quale magari si tornerà nella terza stagione, oppure no, difficile dirlo. Fatto sta che, dalla terza puntata in avanti, Una serie di sfortunati eventi 2 torna ad essere quella cosa lì, la stessa che era nella prima.

“È il Conte Olaf”Dieci puntate anziché otto, per un totale dunque di cinque ambientazioni che si avvicendano facendo da sfondo alla reiterata caccia del Conte Olaf ai danni dei ricchi ragazzini al fine d’impossessarsi della loro cospicua eredità. L’impressione è che la saga necessiti disperatamente di un cambio di rotta, organico alle premesse, ci mancherebbe, purché però non ci si limiti ad inserire nuovi personaggi e basta più. È un po’ il limite di questo progetto, un limite forse anche cercato, nel senso che il target della serie è evidentemente quello di un pubblico molto giovane, in vista del quale indulgere su una certa sofisticazione rappresenterebbe con ogni probabilità un vizio anziché una virtù. Allora ecco che l’acceleratore viene spinto, oltre che sulla voluta improponibilità di buona parte di ciò che accade, anche sull’avventura, su questi episodi grotteschi e non di rado privi di senso rispetto ai quali però il più delle volte non viene meno un certo senso dell’umorismo. Che attecchisca o meno, ripetiamo, dipende molto da come si sia predisposti: Una serie di sfortunati eventi è un prodotto a suo modo elaborato, che tanto lavora sulle singole scene, sulle singole uscite, giocando parecchio con e sulla lingua oltre che sul linguaggio, tanto che è inevitabile che alcuni di questi divertissement si perdano in traduzione. Alcune trovate, va detto, sono davvero deliziose, sopra le righe in maniera però quasi sempre tenera; altre, invece, cominciano a cedere il passo a una certa noia, se non addirittura fastidio, come lo sfoggio di Neil Patrick Harris, il cui Conte Olaf appare sempre più patetico nel suo interpretare di volta in volta un personaggio diverso (insopportabile il suo detective Dupin). Va da sé che questa nuova infornata di episodi porta in dote alcuni twist non da poco, uno su tutti, che è poi il cliffhanger su cui si congeda questa seconda stagione. Personaggi che vanno, altri che vengono, ricoprendo ruoli a questo punto importanti, tanto che li rivedremo senz’altro pure nell’immancabile terza. Per chi magari si fosse perso pure la prima, sì, recuperarla è indispensabile, dato che, secondo logica sdoganata a pieno negli ultimi anni, non solo le varie stagioni ma l’intera saga altro non rappresenta che un lungo film che si staglia appunto nelle (finora) diciotto puntate e che ripartirà per forze di cose dal punto esatto in cui l’abbiamo lasciata.

L’incongruente paradossoData la struttura, e qui ci rivolgiamo a chi ha già confidenza con Una serie di sfortunati eventi, nuovamente si ripropone quel simpatico giochino che ci porterà a scegliere quali location, con relativa storia nella storia, abbiamo preferito: ognuna di queste si prende due puntate, per un totale perciò di cinque luoghi diversi attraverso i quali la trama principale si sviluppa. Se da un lato, come già accennato, arranca il personaggio di Harris, pochi dubbi vi sono sui Baudelaire, che anzi sembrano beneficiare della familiarità che si sta instaurando con loro prima ancora che con la loro situazione: come noi, anche loro avvertono i tanti paradossi nei quali incappano, l’incongruenza di certe situazioni, il fatto che nessuno riconosca sistematicamente il Conte Olaf calato nei panni ridicoli ora di un medico, ora di un detective, ora di un professore di ginnastica e via discorrendo. Ma appunto, per via di quell’operazione, non finissima ma nemmeno sciatta, che abbiamo descritto sopra allorché abbiamo evocato l’assurdo, non si formalizzano più di tanto per l’idiozia generale degli altri personaggi, buoni o cattivi che siano, e cercano di volta in volta di sfangarla, tirandosi fuori dai guai usando l’ingegno, chi richiamando nozioni apprese sui numerosi libri letti (Klaus), chi costruendo cose (Violet), chi invece rosicchiando fili e quant’altro (Sunny). Una serie di sfortunati eventi ha dalla sua infatti il non indifferente pregio di non prendersi mai sul serio, neanche per sbaglio, motteggiando anzi interi generi, su tutti, per forza di cose, quello dei racconti di paura. Nel panorama post-moderno, etichetta che oramai sta fin troppo stretta ma alla quale fa comodo ricorrere, questa ironia su certo cinismo e/o crudeltà gratuiti è, se vogliamo, un po’ l’ovvio corollario, il logico approdo che, seppur in maniera di gran lunga più brillante, emerge in serie come Rick & Morty, che in superficie sembrano allearsi ed allinearsi a queste forme di nichilismo a buon mercato, non di rado insulso e perciò pedante, salvo poi in realtà operare una critica ben più profonda a queste stesse premesse, a questa corrente diciamo. Chiaramente tale processo in Una serie di sfortunati eventi è di gran lunga meno complesso, il discorso quasi per niente articolato, proprio perché il ridicolo al quale aspira è frutto di una scelta precisa e che in larga parte paga. Come evidenziato sopra, certo, già a metà di questa seconda stagione si avverte l’esigenza di un cambio di passo, almeno da parte nostra, gli “adulti”, che su questa giostra inevitabilmente fatichiamo a salirci con lo stesso entusiasmo che probabilmente i più piccoli hanno maggiore facilità a manifestare. Ciononostante a questo punto, si sia o meno in linea con le singolarità di questo bizzarro progetto, gli autori ci hanno già agganciato nella misura in cui sì, c’interessa sapere cosa accadrà ai Baudelaire e in che cosa consiste questa società segreta in cui sono coinvolti i defunti genitori. Quesiti a cui, in un modo o nell’altro, la terza stagione proverà a rispondere.

I Baudelaire sono ancora credibili

La messa in scena è ancora ricercata, come nella prima

Poche serie TV possono vantare il medesimo livello tecnico

L’indole da mattatore a tutti i costi di Neil Patrick Harris comincia a stancare

Dopo un’ottima partenza con le prime due puntate, si torna a seguire lo stesso spartito della prima stagione

6.0

Chi al primo giro ha arrancato, non vedo quali elementi possa cogliere in questa seconda stagione per risalire sul carro. Questa unità tra le due stagioni di Una serie di sfortunati eventi è però al contempo vizio e virtù di questo prodotto, che da un lato non intende risolutamente cedere nel farsi più accessibile verso chi non apprezza la sua indole stravagante e per niente seriosa, mentre dall’altro si mostra forse anche troppo coerente nella struttura, che già a metà di questa seconda stagione mostra il fianco a qualche critica per via di una certa stanchezza. La cura sul fronte visivo, l’impatto stilistico insomma, non è facile riscontrarlo altrove: oltre ad essere piacevole, conferisce quella teatralità su cui gli autori giocano non poco

anche su altri livelli.

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6