Provaci ancora David: quello che Cage non deve fare in Detroit Become Human

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a cura di Stefania Sperandio

Editor-in-chief

Attenzione: questo articolo contiene spoiler da Fahrenheit, Heavy Rain e Beyond: Due Anime. Se non avete completato questi giochi, vi sconsigliamo di proseguire con la lettura, se non volete anticipazioni.
Quando un videogioco è costruito fortemente sul suo comparto narrativo, allora quel comparto narrativo deve essere il più impeccabile possibile. Lo sa sicuramente David Cage, che fin dall’uscita del suo Fahrenheit ha dimostrato di essere uno degli autori che puntano più fortemente sul raccontare, all’interno dell’industria dei videogiochi, proponendo ai giocatori anche delle possibilità di scelta che aprono vie alternative. Non sempre, però, il risultato ha mantenuto le aspettative e le premesse dei suoi primi passi—e non è sempre stata colpa delle incognite a cui ci si espone proponendo le ramificazioni narrative.
In questo approfondimento, vogliamo evidenziare alcuni peccati individuabili nei racconti di Quantic Dream, all’interno di videogiochi rimasti comunque validissimi (e, soprattutto nel caso di Heavy Rain, indubbiamente di alto livello): in vista dell’uscita di Detroit: Become Human e della nuova scorribanda fantascientifica della software house francese, queste sono le piccole debolezze che non vogliamo ritrovare nell’intreccio che coinvolgerà Kara e gli altri protagonisti del gioco.

Fahrenheit, ossia: non perdersi per strada

Dice il professor Michael Hauge, esperto in sceneggiatura, che ogni narrazione si compone di tre atti: quello in cui l’eroe abbandona il suo mondo “ordinario” e gli eventi vengono stabiliti, quello in cui questi eventi si dipanano e quello in cui si risolvono. Come spiegato dal professore, se può essere “facile” tessere un buon comparto nel primo, nell’introduzione degli eventi, senza basi solide è frequentissimo il caso in cui la storia si perda per strada nel secondo, ed arrivi senza più uno scheletro valido capace di sorreggerla nella terza, o che pecchi di coerenza.
Si tratta di un problema abbastanza palese in Fahrenheit, che dei tre titoli che prenderemo in analisi è indubbiamente quello dal peccato narrativo più evidente: cominciato come un thriller e a tratti un poliziesco, visto anche che due protagonisti sono investigatori della Polizia, il gioco mantiene la sua coerenza con il titolo commercializzato nel mercato statunitense, Indigo Prophecy, andando a puntare verso elementi soprannaturali che segnano una netta sterzata rispetto all’inizio: dal clima da poliziesco, si passa a Maya e profezie. Questo si riflette ovviamente anche nelle meccaniche di gameplay, fortemente dipendenti dal contesto narrativo, dove i dialoghi e gli scenari del mistero iniziali sono sostituiti da sempre più QTE contro creature simili a scarafaggi che perseguitano il protagonista, Lucas.
La piega soprannaturale presa dal gioco, che pure ha dalla sua personaggi interessanti e validissimi, sfocia in una scena che ancora oggi è tra quelle più chiacchierate (purtroppo, non in positivo), nel panorama narrativo videoludico: il rapporto sessuale tra Lucas, cadaverico e gelido, e la detective Carla Valenti, che era sulle sue tracce. 
Partendo da una premessa interessantissima, insomma, Fahrenehit ebbe il merito di riuscire a tenere il giocatore legato ai suoi protagonisti, ma anche il difetto di non essere in grado di tenere botta alla seconda fase narrativa, quella in cui la storia doveva districarsi e far lottare il videogiocatore fianco a fianco con i personaggi (e soprattutto con Lucas), in vista del grande sforzo per la risoluzione finale, fosse essa un successo o no.
Da Detroit: Become Human ci aspettiamo indubbiamente più uniformità e, considerando anche che Cage sta lavorando alla narrativa del gioco da circa due anni, una struttura estremamente più solida, che sappia mantenere una coerenza dal prologo al climax finale, senza sterzate che più che colpi di scena rischiano di dare la sensazione di essere piovute dal cielo—delle specie di deus ex machina che vanno a salvare un intreccio che non aveva altrimenti più appigli risolutivi. Se è vero che chi nasce tondo non muore quadrato, dall’atteso Detroit vogliamo che sia coerente con sé stesso fino alla fine: se nascerà tondo, dovrà rimanerlo fino all’epilogo.

Heavy Rain, ossia: il mistero funziona a patto che non raggiri il pubblico

Il thriller psicologico Heavy Rain, con soprattutto il dramma familiare del protagonista Ethan Mars, rappresentò un grandissimo passo in avanti, proprio in materia di solidità narrativa, rispetto al precedente Fahrenheit. I personaggi erano costruiti in modo ancora più convincente e, soprattutto, l’intreccio era capace di tenere incollati allo schermo fino alle scene finali, facendo provare emozioni che decretarono il successo di critica del gioco. Mettendo da parte il sovrannaturale, Cage diede così i natali ad una vicenda fortemente umana e a cui era facile sentirsi legati, peccando solo in una cosa: la gestione del giallo.
I temi portanti del gioco sono soprattutto due: “Ethan riuscirà a salvare Shaun?” e “chi è il killer dell’origami?”. Proprio il secondo, quello delle indagini, è quello in cui si poteva fare qualcosina di più, perché quando il giocatore/lettore/spettatore viene ingannato, affinché non riesca a mettere insieme i pezzi per scoprire l’identità dell’assassino, allora il giallo perde di forza. La rivelazione è molto più convincente quando, dopo aver tentato varie ipotesi, il pubblico si accorge di aver sottovalutato qualcosa che era stato sotto i suoi occhi per tutto il tempo, ed ammette la genialità del giallista nell’averla gestita. In Heavy Rain non fu però così.
La scena cardine di questo peccato, che comunque non rovina i meriti narrativi del gioco, sia chiaro, è quella in cui Scott Shelby si reca presso il negozio del suo amico Manfred, che si occupa della riparazione di macchine da scrivere. Il detective è accompagnato da Lauren, la mamma di una delle vittime del killer dell’origami, che vediamo intenta ad osservare alcuni carillon, quando Manfred viene brutalmente ucciso. La regia attua qui una violenta ellissi narrativa, che di fatto vuole ingannare il giocatore: i pochissimi secondi trascorsi da Lauren ad osservare il carillon non avrebbero infatti mai permesso a Scott, che si rivelerà essere l’assassino, di allontanarsi, uccidere Manfred e tornare esattamente al suo posto, senza che la donna si accorgesse peraltro di nulla. Il giocatore dà così per scontato, perché è evidente che sia così, che Scott sia sempre rimasto con Lauren, con il risultato che il colpo di scena della rivelazione, piuttosto che un colpo di genio dell’autore che è stato bravo a nascondere i pezzi, ha il sapore di una presa in giro—ancora di più quando, nel momento della rivelazione, ci viene mostrata la stessa scena della morte di Manfred priva però di ellissi.
Premesso che sarebbe splendido riuscire ad avere in Detroit: Become Human un comparto narrativo e dei personaggi capaci di dare le emozioni trasmesse da Heavy Rain, ci aspettiamo che dalle vicende di Ethan, Madison e compagni David Cage tragga l’insegnamento che, se c’è un mistero da risolvere, le carte devono essere sul piatto, senza dilatazioni temporali impercettibili o inganni di sorta. Il giocatore deve avere tutti gli elementi per seguirlo, eventualmente per risolverlo: sta allo sceneggiatore essere bravo abbastanza da far combaciare tutti gli indizi, nel terzo atto, in modo inaspettato.

Beyond, ossia: quando l’intreccio non rende merito alla fabula

Con Beyond: Due Anime, Quantic Dream tornò ad una componente sovrannaturale e fantascientifica, provando a mettere insieme così un elemento di Fahrenheit e la fortissima umanità dei protagonisti che fece la fortuna di Heavy Rain. L’esperienza filmica, questa volta, era ulteriormente rafforzata dall’interpretazione da parte di attori notissimi, come Ellen Page nei panni di Jodie e Willem Defoe in quelli del dottor Nathan Dawkins. 
In questo caso, il peccato non è rappresentato né da un repentino cambio stilistico né da un giallo non gestito nella sua pienezza, ma dal fatto che per qualche motivo gli autori abbiano optato per un intreccio che rende difficilmente merito alla fabula. La fabula, ricordiamo, sono gli eventi che caratterizzano la storia, mentre l’intreccio è il modo in cui l’autore ha deciso di raccontarli al suo pubblico—quindi l’ordine delle scene, l’eventuale cambio di punti di vista e così via.
Originariamente, Beyond arrivò sul mercato con una narrazione che non proseguiva in modo diacronico: si passava così, nell’unico punto di vista fornito che stavolta era quello di Jodie, da alcuni momenti in cui la protagonista è adulta a quelli in cui è adolescente, ad altri in cui è bambina e via dicendo. Le continue anacronie e i salti da una scena all’altra sono caratterizzati dal fatto che non ci sia però un filo conduttore che giustifichi perché alla scena A segue proprio la scena B, e non ad esempio la scena C o D, visto che per buonissima parte del gioco sono tutte interscambiabili (praticamente, fino a quando non ci si avvicina a enormi passi al climax finale). Il risultato sperato era che il giocatore mettesse così insieme, dettaglio dopo dettaglio, il profilo di Jodie. In realtà, però, le sensazioni che se ne ricavavano erano quelle di una vicenda frammentaria e disordinata, seppur comunque gradevole, in cui era difficile dire cosa, nella vita della protagonista, fosse accaduto precisamente prima di cosa. Un difetto che rende di difficile interpretazione anche alcune sue possibili reazioni e dà l’impressione, all’inizio di ogni capitolo, che non sappiamo precisamente chi è Jodie, in questo preciso momento della storia. Il viaggio dell’eroe della protagonista non appare mai chiarissimo, fino a quando i retroscena sul suo passato non lasciano spazio alle decisioni finali. Il che, chiariamo, non significa che non si debba sperimentare: solo, le sperimentazioni non devono avere come prezzo una penalizzazione del potenziale narrativo.
La stessa Quantic Dream, evidentemente accortasi di aver compiuto una scelta non proprio efficace, nella riedizione del gioco uscita su PS4 ha incluso anche una modalità che mette gli eventi in ordine cronologico, consentendo così sia di seguirli con più intuitività, sia di conoscere davvero Jodie nella sua crescita, passo dopo passo. Il risultato è sensibilmente migliore.
Da Detroit ci aspettiamo, allora, che Cage sappia formulare il miglior intreccio possibile per la sua fabula, in modo da valorizzare il più possibile eventi e personaggi, anche al costo di rinunciare ad esercizi di stile, se questi rischiano di penalizzare l’efficacia del racconto. Come abbiamo detto in apertura all’articolo, l’idea è che quando costruisci un videogioco puntando tutto sulla narrativa, allora è necessario metterne la riuscita sempre al primo posto.

L’elemento più importante: lasciate che scrivano e raccontino

C’è un elemento narrativo ancora più importante di cui tenere conto, in vista di Detroit: Become Human: le facili polemiche relative ai contenuti. Come già a suo tempo accadde per il reboot di Tomb Raider, accusato dopo il trailer “Crossroads” di aver rappresentato una scena di stupro (regolarmente presenti in qualsiasi altro mass media che si muova per immagini), il nuovo titolo di Quantic Dream ha avuto i fari puntati addosso già prima della sua uscita, a causa della scena di violenza domestica rappresentata in un trailer. Una sequenza che ben riflette una delle piaghe della nostra società, ma che è stata accolta come non appropriata, soprattutto per un medium ancora percepito da molti come “per bambini”, al punto che David Cage è stato costretto a spiegare le sue motivazioni, a giustificare in qualche modo il suo affrontare una tematica così delicata.
Senza troppi giri di parole, il messaggio che vogliamo far passare è chiaro: lasciate che gli autori scrivano e raccontino, che realizzino la loro visione, che diano vita al loro universo narrativo esattamente come lo hanno immaginato. Se sarà pensato prevalentemente per maggiorenni, allora così sia. Ci preme che Detroit, qualsiasi pregio o difetto possa portare con sé, sia la realizzazione della visione di chi gli ha dato i natali, piuttosto che quel che è sopravvissuto al tritacarne di “questo va bene per un videogioco, questo no”. In un’epoca in cui l’industria videoludica ha una popolosa schiera di pubblico che valuta i videogiochi non solo per la bontà delle loro interazioni, ma anche per la forza delle narrazioni, lasciamo che i narratori narrino e che provino a toccare le corde giuste delle persone a cui si rivolgono. I videogiochi devono continuare a crescere da questo punto di vista, ed un’esclusiva importante come Detroit può farsi carico di una simile responsabilità sulle spalle.

I mondi che Quantic Dream ci ha raccontato nelle sue precedenti uscite avevano qua e là qualche difetto, in alcuni ben più palesemente che in altri, ma hanno sicuramente emozionato i giocatori. Detroit può fare tesoro di tutte le debolezze di chi lo ha preceduto, con David Cage che, in questa opera un po’ “Blade Runner” e un po’ “Io, Robot”, ha la possibilità di segnare un nuovo traguardo per i videogiochi narrativi—anche di fronte a chi continua ad affermare che i videogiochi dovrebbero tenersi nel cortiletto degli argomenti infanzia-friendly.