Anteprima

Detroit: Become Human, provato il nuovo titolo di Quantic Dream

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a cura di Gottlieb

Informazioni sul prodotto

Immagine di Detroit: Become Human
Detroit: Become Human
  • Sviluppatore: Quantic Dream
  • Produttore: Sony
  • Distributore: Sony Interactive Entertainment
  • Piattaforme: PS4 , PC
  • Generi: Avventura , Avventura grafica
  • Data di uscita: 25 maggio 2018 - 12 dicembre 2019 (PC)

Poco più di un anno fa ci siamo lasciati con un quesito riguardante gli androidi, una domanda postaci ineluttabilmente da Yoko Taro, il visionario game designer dietro l’universo di NieR: il quesito verteva in maniera solenne sulla possibilità da parte degli androidi di poter lacrimare e di conseguenza poter cedere alla parte più pregna dei sentimenti umani. David Cage, altrettanto visionario game designer che aleggia dietro l’etichetta di Quantic Dream, con Detroit: Become Human, affiancato da un gruppo di sceneggiatori minuziosamente attenti al voler ricreare una rappresentazione valida e coerente di un futuro distopico ma affascinante, risponde in maniera affermativa: un androide può piangere. E ha più di una motivazione per farlo.

L’alba del futuroTre personaggi per un’unica storia: tre rami dello stesso albero destinati a non incontrarsi, ma a sostenersi l’un l’altro dalla distanza. Connor, Markus e Kara sono i tre androidi che nel corso della nostra avventura a Detroit ci ritroveremo a conoscere, a comandare, a guidare, ai quali impartire ordini dall’alto, come se fossimo la loro coscienza. La città nella quale ci troviamo, scelta come base per la CyberLife, l’azienda che produce androidi capaci di affiancare gli umani in ogni loro attività quotidiana, versa in un futuro distopico non eccessivamente lontano dalla nostra attuale realtà: l’unica grande differenza è rappresentata dagli umanoidi che la popolano, capaci di vestire i panni di assistenti sociali, detective, babysitter, domestici e così via, pronti a sostituire quelle facoltà che appartengono propriamente all’uomo. Così come la storia ci ha insegnato a sbattere contro il muro dell’emarginazione nei confronti del diverso, dello straniero, a far dilagare quella xenofobia che ha condizionato e che condiziona gran parte della nostra storia politica e sociale, anche per gli androidi i tempi sono duri: tolgono il lavoro agli umani, performando anche meglio, non sono controllabili come gli scettici vorrebbero che fossero e la loro apatia sentimentale permette loro di essere delle perfette punching ball. Nelle nostre tre ore in compagnia di Detroit: Become Human abbiamo avuto modo di approcciare quelle che sono le tre principali tematiche che vengono rappresentate dai tre androidi sul palcoscenico della rappresentazione ideata da David Cage e Quantic Dream. Connor, nome in codice RK800, ha nella sua missione l’obiettivo di assistere gli umani con le sue doti da detective: non importa se questo lo porterà a contrastare altri suoi simili, perché essendo stato programmato per essere il partner ideale dovrà sempre ubbidire a una morale superiore, ossia quella di ristabilire l’ordine a Detroit, contrastando gli androidi con difetti di fabbrica. Markus, nome in codice RK200, è l’assistente di Carl, un pittore che ha perso l’utilizzo delle gambe e ha bisogno di cure quotidiane: l’artista ha adottato l’androide come se fosse un figlio, spingendolo sempre oltre i suoi limiti e pretendendo che i sentimenti possano sbocciare in lui, portandolo a dipingere su delle tele bianche quelle che sono le sue sensazioni. Kara, nome in codice AX400, è un assistente domestica acquistata da Todd Williams, un autista di taxi che ha perso il lavoro a causa degli androidi e che vive in miseria e povertà con la figlia, Alice, spesso maltrattata e utilizzata come bersaglio degli sfoghi della vita. Nonostante l’ordine supremo sia quello di non poter colpire e offendere gli umani, Kara ha in sé un compito ancora più importante, una morale più aulica: evitare che Todd possa fare del male ad Alice. Attraverso le scelte del giocatore, di ciò che vorremo arrivare a vedere, Detroit: Become Human prenderà forma e costruirà le storie degli androidi, pronti a rivendicare i propri poteri sentimentali e la propria identità, dimostrando di avere un’intelligenza emotiva ben più importante. 

Il tramonto dell’azioneLa critica che solitamente si rivolge a David Cage è quella di non riuscire mai a offrire un aspetto videoludico ai suoi titoli: Quantic Dream ha sempre proposto dei film interattivi, all’interno dei quali districarsi con dei QTE oppure con azioni da compiere esclusivamente attraverso la pressione di determinati tasti azione durante l’esplorazione. Sebbene di Detroit: Become Human non si possa dire il contrario, nelle nostre tre ore di hands on abbiamo avuto modo di notare alcuni momenti prettamente investigativi o anche orientati verso le più classiche avventure grafiche. Partiamo da Connor, che è stato l’androide che ha saputo darci più soddisfazione dal punto di vista del gameplay: le sue doti da investigatore ci hanno spinti a dover sezionare lentamente la scena del crimine, mettendo in piedi anche un gioco di ricostruzione di quanto accaduto che rassomigliava molto alle più note attività appartenute a Sherlock Holmes, sia alla controparte videoludica che a quella reale. Nel secondo dei casi che siamo stati chiamati a risolvere abbiamo dovuto anche provare le nostre decisioni e le nostre percezioni, facendo rapporto al tenente Hank Anderson, il nostro partner temporaneo. Nel resto del tempo Detroit non ci ha mostrato grandi novità rispetto a quanto già potuto connotare in Beyond Two Souls e Heavy Rain: il movimento è sempre molto lento e ragionato, pronto a spingerci ad analizzare ciò che ci circonda e tutti i dettagli che vengono seminati nell’universo ricreato da Quantic Dream. A tutti gli effetti ci troviamo anche stavolta dinanzi a un film con degli elementi che ci permetteranno di cambiare la trama e l’andamento degli eventi, oltre che a metterci dinanzi a delle scelte davvero fondamentali: la particolarità di queste scelte, però, sarà ritrovarsele davanti, perché Detroit non è formato su un unico binario, anzi, le ramificazioni sono tante e potreste anche perderle. I modi per terminare una scena sono molteplici e alla fine di ogni segmento narrativo vi verrà mostrato l’albero formato dalle varie ramificazioni e i vari bivi che avete preso, permettendovi anche di capire cosa avete evitato e cosa avreste potuto fare. La rigiocabilità diventa altissima, così come la curiosità di scoprire quali sarebbero state le alternative da compiere viene stimolata. Ovviamente accanto alle scene investigative sarete anche spinti ad altre attività, per lo più concentrate sul risolvere degli enigmi ambientali, che hanno dalla loro molteplici strade da poter seguire. Tra questi, ad esempio, ci è capitato di dover trovare un rifugio per la notte con Kara e Alice: gli alberghi non accettano gli androidi e questi non hanno nemmeno soldi con loro, pertanto bisognerà trovare una soluzione che possa salvaguardare la bambina e allo stesso ovviare a quello scetticismo che corrompe la mente degli umani che guardano all’androide con fare molto infastidito. Per quanto riguarda, invece, la rigiocabilità ci è capitato di notare che, chi era nella postazione accanto alla nostra durante l’hands on, era riuscito a procurarsi un’arma con Kara, più precisamente una pistola, che gli ha permesso di minacciare un negoziante per rapinarlo e procurarsi dei soldi utili per prenotare una camera dove dormire: per noi, invece, che dell’arma da fuoco non non ce ne eravamo nemmeno accorti, convincere il droghiere a cedere l’incasso della giornata è stato decisamente più complesso e abbiamo, intuibilmente, fallito in maniera misera. Ogni azione, qualsiasi, si ripercuote da un segmento narrativo all’altro: la soluzione c’è sempre e il game over non esiste, persino se dovesse capitarvi di perdere uno degli androidi. Detroit: Become Human arriverà in ogni caso a conclusione. 

Il suono dell’androideNelle nostre tre ore di gameplay abbiamo potuto convincerci di alcuni aspetti davvero unici: la narrazione di Detroit è coinvolgente e avvolgente. I dialoghi non annoiano mai e – com’è giusto che sia – riescono a toccare tutte le corde del nostro animo. Ci sono momenti che riescono a esaltare il dettaglio utilizzato dagli autori, come per esempio il proporci La Repubblica di Platone come lettura da compiere nei panni di Markus, che ritrovandosi nella dimora di un pittore è perennemente bombardato da stimoli artistici e culturali, pronti a condurlo a una morale superiore a quella di un androide base. I dettagli, però, non sono soltanto contenutistici, perché Detroit ha una capillarità degli elementi ambientali tale da giustificare il nostro movimento cadenzato, lento e compassato: tutto è pensato per farci godere il lavoro svolto nella riproduzione di Detroit, negli interni e negli esterni. A supporto di questa esperienza che spesso risulta essere quasi sensoriale c’è un doppiaggio di primissima fascia: che Sony stia investendo tantissimo su attori che possano permetterci di godere a pieno dell’esperienza è lampante. Già l’esperienza con God of War è stata unica, perché checché si possa dire di Atreus, non piacevole così come Kratos nella sua interpretazione vocale, anche il titolo di Santa Monica aveva ben fatto capire quale fosse la direzione intrapresa da Sony: Detroit ce lo conferma, perché non c’è stata una singola cut scenes che non fosse doppiata. Con una seduta molto più comoda di quella propostaci ci saremmo sicuramente goduti un’esperienza filmica di grande spessore, supportata da alcuni momenti concitati risolti con i canonici QTE e investigazioni spiegate poc’anzi. 

– Una narrazione sopra la media, come sempre

– Un passo in avanti rispetto a Beyond e Heavy Rain

– Temi toccanti anche per chi non ama lo sci-fi

Detroit: Become Human è un’esperienza, come è facile intuire, che non può piacere a tutti. Il retaggio delle critiche avanzate a David Cage sulla sua poca propensione al videoludico non sparirà oggi grazie a questo nuovo lavoro targato Quantic Dream. C’è da dire che Detroit è davvero un passo in avanti rispetto ai precedenti titoli, perché dal punto di vista narrativo siamo dinanzi a una summa di tutta l’esperienza accumulata negli ultimi anni. Si gioca di più, ma sempre meno rispetto agli altri videogiochi di questa generazione, però sedersi a ragionare su quanto Cage voglia dirci sugli androidi può essere un modo diverso di approcciare il videoludico. Un modo più cadenzato. A maggio, in sede di recensione, capiremo meglio quanto le lacrime degli androidi sono riuscite a scalfirci.